Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Parole su Dio

Se vi capita di pensare che Dio non esista, o non credete più nel Dio nel quale avevate fiducia prima, non vogliate scoraggiarvi. Questo significa che la vostra credenza era erronea. Quando un selvaggio cessa di credere nel suo Dio di legno, non significa che Dio non esiste, ma solamente che il vero Dio non è […] di legno (Tolstoj)

Nel 1962, D. Hall, intervistò il poeta Ezra Pound. Questi disse qualcosa che si è rivelato vero allora senza cessare di esserlo adesso: «L’epos del passato ebbe successo quando tutte o gran parte delle risposte erano scontate […]». Le certezze salde, da tutti pacificamente condivise facevano sì che si potesse vivere sotto la guida e l’ispirazione dei grandi racconti (Lyotard), Dio, Spirito, Popolo…ora, invece, la frammentazione dei saperi e la proliferazione dei ‘modi di vita’ ha reso tutto fluido, liquido (Bauman). Pound al giornalista rammentò una nota storiella: «’Cosa stai disegnando, Johnny?’ – ‘Dio!’- ‘Ma nessuno sa come è fatto’. ‘Lo sapranno quando avrò finito!’».
Concluse il poeta: «Questa fiducia non è più possibile». La Summa non è più possibile: la teologia, la filosofia come sistemi non danno più sicurezza. Dio va ritrovato, semmai, nel frammento! L’umanità si è liberata da Dio o non dovremmo dire, piuttosto, che questa forma di liberazione va intesa come un modo altro di rapportarsi al Trascendente?
Questa provocazione venne presa in esame non da un teologo, ma da uno scrittore che mise mano, nel cuore del Novecento, ad una opera letteraria poderosa e rimasta incompiuta: l’autore è Robert Musil, il romanzo, L’uomo senza qualità.
Il protagonista, Ulrich, viene descritto non come negatore di Dio, bensì come uno di quegli uomini che stanno al di fuori di Dio. L’ateismo combattivo di un tempo, nella modernità e fino a sfumare nella postmodernità, ha finito con l’essere indifferenza a Dio: o è una questione privata, o una questione insensata! Gli uomini come Ulrich – precisa Musil – si affidano ad un ‘parametro scientifico’: è il sentimento, cioè, a dover gestire «ogni possibile moto verso Dio» che, difatti, nulla ha da dire riguardo alla conoscenza, ma può «soltanto condurre all’assurdo». Il dubbio nemmeno lo sfiorava riguardo all’evidenza che «questo fosse il solo atteggiamento giusto»; il pensiero, però, continuava a circumnavigare la quaestio teologica e si chiedeva: «E se questa libertà da Dio [Ungöttliche] non fosse altro che la via moderna verso Dio?!». Ogni momento storico, pensava il tormentato personaggio, ha conosciuto, in fondo, una propria via a Dio.
Davvero vogliamo arrenderci al fatto che, come accade nella storiella riportata da Pound, non si possa più, né in filosofia, né in poesia, né in narrativa e, forse, finanche in teologia, tentare di ‘disegnare Dio?’. C’è, a mio avviso, un rispetto talvolta ipocrita nel tacere su Dio. Fossimo pure seriamente minacciati da ‘incredulità’ e ‘scetticismo’, mai la nostra voce deve rinunciare a solfeggiare lo  spartito teologico per inneggiare a Dio. Non possiamo, con questo, imporre comunque niente a nessuno ma, nemmeno lecito è tralasciare l’annuncio.
Dobbiamo comportarci come la Santa Bernadette che, al suo curato scettico riguardo alle apparizioni della Madonna, disse: «Sono incaricata di dirvelo, non sono incaricata di farvelo credere».
Dobbiamo custodire e meditare il Nome segreto di Dio nel cuore ed avere sulle labbra il Nome pronunciabile di Dio per lodare. Agostino opportunamente distingue il nomen gloriae (nome inconoscibile di Dio) dal nomen misericordiae (quello rivelato ad Abramo, Isacco e Giacobbe). Se ci resta il secondo, usiamolo e rivolgiamoci al Padre, piuttosto che annegare nel mutismo sfiduciato.
Se ripercorressimo le faticose strade dell’uomo biblico, ci accorgeremmo che non siamo di fronte a questioni di archeologia, ma al cospetto di eventi (stretto intreccio tra fatti e parole) che interessano l’escatologia: Dio è il futuro dell’uomo, non soltanto il suo passato. Tentiamo pure di ricavare qualche scintilla di bene, di estrarre qualche traccia affidabile sui sentieri della storia verso Dio dalla Ungöttliche teorizzata da Ulrich ma, alla fine, scopriremo che occorre tornare non a Musil, bensì a Kierkegaard. A suo dire, infatti, Dio è una idea suprema e la si può spiegare (?) unicamente immergendosi in essa stessa.

La sete dell’Infinito non danna se esso ha Nome e non si insabbia unicamente in un vago anelito all’oltre. Il caso del commediografo Ionesco è emblematico. Aveva sessantasei anni e, nell’appartamento di Parigi, a Montparnasse, tentava di chiudere il suo diario. Confessava, ormai, di essere preda di una invincibile nausea, di essere vittima di un forte esaurimento nervoso perché non riusciva a capire la parola inesauribile. Si definiva Uomo teso nello sforzo di capire l’Infinito; anzi, precisava, era uno desideroso di Qualcuno che gli spiegasse l’Infinito. Era in trappola perché aveva subordinato la realizzazione della sua intelligenza al rapporto con un Infinito senza volto, incapace di parlare la nostra lingua. Dopo alcune frasi degne di un febbricitante, si definiva un ‘incorreggibile’ perché ostinato a voler ricuperare l’irrecuperabile, a voler definire l’indefinibile, a dire l’indicibile, ad udire l’inaudito. Le ultime righe del diario oscillano in una tensione dialettica, più esistenziale che teoretica, tra sconforto ed attesa fiduciosa: «Pregare: il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo». Quando il Non So Chi appare più reale di Gesù Cristo, che genere di speranza resta a chi invoca il Senso? Il positivo nell’esperienza di Ionesco è la determinazione con la quale vuole recarsi oltre la propria finitezza; il negativo sta nel porre tutto entro le categorie dello ‘spiegare, capire’ aggirando quelle del ‘dono’ e della ‘rivelazione’.Il commediografo aveva subordinato il riflettere intellettuale alla capacità ricettiva; il capire al fidarsi.
L’uomo moderno, l’uomo adulto, forse trova nella Ungöttliche spazi nuovi, percorsi diversi dal passato. Dall’incardinare la questione Dio su fondamenti epistemologici, teoretici, si passa, così, a curvare l’intera ricerca su accidentati percorsi esistenziali. Cartesio inaugura la modernità facendo di Dio il Garante del Cogito per fondare una conoscenza certa ed omettendo di ricordare che, in realtà, da Dio si vogliono garanzie soteriologiche. Dio non mi può ingannare riguardo a quanto conosco, diceva Cartesio; ma la fiducia, a queste latitudini, si articola su argomenti molto più vicini allo spessore patico e non epistemico dell’esistenza. Rahner, non a caso, intitolò un suo saggio “La questione del senso come questione di Dio”. In gioco c’è il senso e non il sapere. La libertà da Dio, però, si traduce spesso in un abbandonarLo con motivazioni che oscillano tra il ridicolo e l’arrogante. La scrittrice francese Simone de Beauvoir, ad esempio, era appena una ragazza quando fece un… ’esperimento’ (?!): orologio alla mano, ordinò a Dio di farsi vedere entro cinque minuti, altrimenti avrebbe rinunciato per sempre a Lui. Inutile dire che ebbe buon gioco e vinse la sfida: Dio non si manifestò.
Se Musil ci provoca a pensare alla Ungöttliche come ad una via percorribile verso Dio e non come ad uno dei sentieri interrotti (Heidegger) verso il Trascendente, l’aneddoto che riguarda Simone ci impone di chiederci se il suo esperimento fosse frutto unicamente della sua immaturità di donna e di intellettuale in boccio o non, piuttosto, di un modo indecente di proporre Dio all’uomo del nostro tempo. Il monaco trappista Thomas Merton imputava ai credenti, ai pastori, l’incapacità a convertirsi del padre. Credo, tuttavia, che una certa misericordia occorrerebbe averla anche per coloro i quali devono caricarsi il peso dell’annuncio. Origene, diceva: perì theòn kai talethe légein kíndunos ou mícros (parlare su Dio secondo verità è non piccolo rischio).
Rischio? Nelle cose della filosofia, amava dire Platone, il rischio è bello! Ma noi sappiamo bene che non siamo i totalmente arrischianti perché Dio, per bocca di Suo Figlio, ci ha detto: «non abbiate paura» (Mt 14, 27). Inutile affidarsi, timorosi o spavaldi, a quella che Lutero chiamava la vecchia strega Ragione; davanti al Dio biblico (non quello costruito da alcuni pro domo sua), si ha la certezza che non vi è inganno. C’è un passo dell’Antico Testamento, quasi una striscia di terra assolata, ma che pure getta sfolgorante luce sulla rassicurante compagnia di Dio: Devo tenere nascosto ad Abramo ciò che sto facendo? (Gn 18, 17).
Commuove che Dio si chieda se rivelare o no i Suoi piani all’uomo! Il non abbiate paura di Gesù non fa che confermare che Dio non agisce alle spalle dell’uomo e, dunque, a suo danno. Simone de Beauvoir ha fatto l’esperimento sbagliato e quando era ancora troppo giovane: pretendere che il tempo di Dio sia quello nostro, che i Suoi pensieri siano i nostri, per dirla con Isaia, è una forma di arroganza che annulla da sé la venuta di Dio in noi.  Ai cinque minuti che la scrittrice concesse al Creatore per manifestarsi oppongo l’onesta ammissione di von Balthasar: sia la Presenza che l’Assenza di Dio, diceva, sono, per il pensiero, ed ancor più per il sentimento e la nostra esperienza, un mistero che è impossibile svelare.
Anche per i Padri della fede non è mai stato possibile dare la Presenza di Dio per scontata. Ci guida, su questi sentieri infuocati, la saggezza di un teologo ebreo: «la Bibbia ci conduce verso un Dio del quale lo stesso Mosé – che pure, come è detto, lo conobbe faccia a faccia (Dt 34, 10) – apprende che può scorgere soltanto le tracce, mai le facce (Es 33, 23), e che Isaia, che pure riteneva di aver visto il Signore (Is 6, 1), invocherà un giorno come il Dio nascosto: ‘Ah, è vero, dirà (45, 15), come se accidentalmente se ne fosse scordato, tu sei il Dio nascosto» (A. Neher).
Cinque minuti di orologio ed una richiesta arrogante, dimentica di simili lezioni bibliche, dunque, possono far perdere la fede; ma Dio, piuttosto che mostrarsi desidera che noi Lo mostriamo vivendo a Sua testimonianza l’intera vita. Il vero cristiano non costringe Dio a fare ciò che la creatura reclama in cinque minuti, ma si preoccupa di fare ciò che Lui vuole in tutta una vita per meritare l’elogio che Gregorio Magno tesseva per Benedetto da Norcia: «il santo non poté nel modo più assoluto insegnare diversamen te da come visse». Non c’è da sorridere davanti a quello che fece quella giovane francese. Il male, in fondo, sta nel fatto che sia chi crede che chi si professa contro Dio, partono da una posizione gravemente viziata da una presunzione che ha ben lumeggiato lo psicanalista Erich Fromm. A suo dire, infatti, molti danno per scontato l’esistenza di Dio e si definiscono, a buon prezzo, ‘credenti’; quelli che non si riconoscono in questa definizione, però, altrettanto danno per scontato la non esistenza di Dio. Entrambe le categorie di soggetti, conclude Fromm, vivono la ‘questione Dio’ senza patire notti insonni e – aggiunge – senza nessuna seria preoccupazione.

Il fatto è che, sia chi attende una parola su Dio, sia quanti certi della Sua esistenza aspettano la realizzazione delle Sue promesse si trovano in una sorta di tensione che divora come un fuoco. Paolo dice che Abramo aspettava (exedécheto) la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso (Eb 11, 10); riguardo agli antichi Padri, poi, Paolo dice che morirono senza aver goduto dei beni promessi e, tuttavia, sempre aspirarono (oréghonta) alla ‘patria celeste’ (Eb 11, 13 – 15). L’uomo che non vuole dichiarare interrotti i sentieri che mettono in comunicazione col Trascendente, vive aspettando – aspirando alla patria celeste e non in una attesa sopportata per poter soddisfare un egoistico desiderio personale.
Si tratta di volere il volere di Dio a prescindere dal tornaconto personale; si tratta di non voler rintracciare Dio dove ci fa comodo, ma nel luogo che Lui stesso elegge. Suggestiva l’espressione di Agostino: Tu autem eras interior intimo meo, et superior summo meo (Tu, Dio, eri più dentro di me della mia parte più interna, e più alto della mia parte più alta). Dio, in Gesù, ha mostrato di aspirare alla comunione con l’uomo. Durante la preparazione alla cena pasquale, infatti, il Verbo dice ai discepoli: ho desiderato ardentemente (èpithymía épethymêsa) di mangiare la Pasqua con voi (Lc 22, 15 – 16).
All’attesa, all’aspettativa dell’uomo verso Dio corrisponde sempre il desiderio di Dio di condividere la Pasqua (escatologica) con le creature. Solo chi non ha fede può pensare che attendere ed aspirare siano occasione di frustrazione e scoraggiamento. Agostino, infatti, sosteneva che, nel tenerci in attesa, Dio allarga il desiderio ed amplia l’anima per renderla capace di accoglierLo.
Siamo aperti all’Altro quando abbiamo imparato ad accettare che i tempi dell’uomo non sono i tempi di Dio. Egli, infatti, diceva Thibon, anzitutto ci parla attraverso la sete che abbiamo di lui. Sete che non va immediatamente estinta con qualsiasi bevanda. Occorre attendere che l’acqua/ Cristo, come accadde alla Samaritana che abbandonò la vuota brocca accanto al pozzo, ci entri a vivere. Mantenendo coraggiosamente in noi viva la sete di Dio, agendo come Abramo che aspettava (exedécheto) la città costruita dall’Architetto, come i Padri che sempre aspirarono (oréghonta) alla ‘patria celeste’, meriteremo per noi quanto diceva Laurent Gagnebin: l’uomo è una speranza di Dio. Speranza che l’uomo Lo cerchi per diventare il Suo Tempio di pietre vive, come indicava San Leone Magno: «Se siamo tempio di Dio e lo Spirito Santo abita in noi, quello che ciascun fedele porta nella sua anima ha più valore di ciò che si ammira in cielo». Kierkegaard amava dire che a Dio non è gradito altro che se ne abbia bisogno e, quanto più è vero, se Gregorio Nazianzeno ci convince che dal divino siamo stati nominati cantori della Sua luce. Che si divenga – questo l’augurio dell’Oltre tutto (Gregorio Nazianzeno) davvero capaci di ripetere con Teresa di Lisieux: «Non mi pento di essermi data all’Amore».

Leggiamo una pagina autobiografica di Bernardo di Chiaravalle per renderci conto che non è mai facile stare davanti a Dio: «Spesso anch’io, non mi vergogno di confessarlo, specialmente all’inizio della mia conversione, duro e freddo di cuore […]», dice il santo teologo, vivevo senza aiuti in una «rigida bruma che mi intirizziva i sensi interni»; la sua anima era «triste e quasi disperata» e, perciò, mormorava tra sé: davanti a questo freddo, chi potrà resistere? Come si può comprendere la fede è una sfida e Dio non è mai qualcosa che oggettivamente si dà e possiamo ritenere a portata di mano. Egli, piuttosto, è una ‘conquista’ che occorre sudarsi combattendo, con spirito e corpo, tra la rigida bruma che intirizzisce i sensi interni: la ‘bruma’, direi, del non senso, della sofferenza ingiustificata ed ingiustificabi le
Una pazienza ed una fiducia enormi richiede anche lo stare davanti ad altri che non sanno parlare in modo adeguato di Dio. Il vescovo e martire Ignazio di Antiochia inviò, a tal proposito, una lettera a Policarpo: «Non ti spaventino coloro che sembrano degni di fede e che invece insegnano l’errore. Stà saldo come l’incudine sotto il martello». Dall’esperienza di ingegni teologici antichi e medievali passiamo a quella di una figura femminile della cultura cattolica del Novecento.
Il filosofo Benedetto Croce per anni (1941 – 1952) intrattenne un carteggio con la dotta marchesa Maria Curtoprassi, sua lontana parente, ed autrice di poesie imbevute di sincero, autentico afflato religioso. Ella tentò – invano – di portare Croce verso una piena adesione al Cristianesimo che pure riteneva ben esposto e difeso nei libri di quel gigante del pensiero. Chi ha avuto tra le mani il carteggio ed ha letto le poesie della nobildonna, non dubiterà di una fede in lei incrollabile e matura, non meno di quanto lo fosse, in verità, in Bernardo di Chiaravalle. La marchesa Curtoprassi, però, pure conobbe la rigida bruma che paralizza i sensi spirituali coi quali soli sentiamo la presenza di Dio in noi.
Era venuto a mancare il marito della pia donna ed ella, il 25 ottobre del 1945, da Capri, scriveva al filosofo per ringraziarlo della lettera di cordoglio da lui inviata con prontezza. Confessa, Maria, che si sta riprendendo ma anche che, «la gioia intima del cuore, che mi sosteneva anche in ogni sofferenza, s’è spenta». Quanto le piaceva le appare odioso «perché appartiene ad un mondo ove» il suo povero marito «non è più». Maria sa, certo, che la Fede aiuta e lei stessa, ammette, senza farvi ricorso non avrebbe mai potuto «seguire col suffragio» il marito che avrebbe certo ritrovato «nel seno di Dio». Il momento dell’aridità, però, è ineliminabile:
«Ma nel primo smarrimento anche a me è salita alla gola tutta l’amarezza del pensiero che nega Dio e la vita futura […]. Poco a poco ritrovo un certo equilibrio abituandomi a sentire in Dio colui che mi ha lasciato […] ma una terribile tristezza vela per me questa vita». Tra Bernardo di Chiaravalle e Maria Curtoprassi ci siamo mossi in una striscia di terra che a volte è troppo arida, priva di oasi di senso, per percorrerla d’un fiato; nel dolore il credente matura piano, proprio come nella fede quando è sentita con gioia. Dio, ha detto un grande poeta, non viene ad imporsi con un eccomi, ma ci soffia dentro come un vento e può bruciarci il cuore senza rivelarsi; eppure, per il poeta, è lui che in noi opera: ‘Non devi attendere che Dio venga a te/e dica: eccomi./Un dio che professi la sua forza/non ha senso […]./Dio soffia in te come il vento/sin dagli inizi,/e se il cuore ti brucia e non si svela/c’è lui dentro, operante’ (rilke).
Il buio, la notte, non vengono eliminati da Dio, ma chi ha fede in lui ripete con incrollabile convinzione le parole del teologo Rahner: è l’oscura luce della fede che dà un po’ di chiarore alle nostre notti e le trasforma in notti sante! Che ossimoro: oscura/luce; sì, perché la fede non è la risposta facile e banale al dolore, ma è la compagnia discreta del Dio che soffre con l’uomo! Quando Dio è il Great Companion (il Grande Compagno) – come dice un filosofo americano – nulla accade che sia banale o che non entri a fecondare, pure con dolore, le nostre pieghe più segrete e riposte dell’anima. Il mistico Eckhart sostenne che Dio è un ente solo per i peccatori che intendono farne materia di discussioni accademiche; inoltre, a quanti vogliono piegarlo ai propri scopi meschini, rimproverò di trattare Dio come un servo al quale si danno i propri vestiti smessi. Sant’Ignazio di Loyola, invece, a ragione, ha detto che se accade qualcosa che sia degno di Dio non può trattarsi che di qualcosa che mette il mondo in agitazione. Fosse Dio appena – come l’ha definito Updike – la tenera ombra del lato nascosto della nostra mente, ci inquieta beneficamente sentire la traccia, il seme dell’Altro in noi.


Quando le notti dello spirito, intrise di sofferenza non si rischiarano, per convertirsi in ‘notti sante’, alla ‘oscura luce’ della fede, si ha l’ateismo! Lo scrittore Giovanni Arpino diceva di non credere che vi fossero atei; piuttosto, dietro una scelta contro Dio, un uomo nasconde un «barile di roba velenosa» e «problemi irrisolti». Sarà così, ma chi deve proporre il Dio ebraico – cristiano, non può mai dimenticare quanto Giovanni Paolo II (si veda l’Osservatore Romano del 22 novembre 1992) raccomandò ai catechisti italiani: il modello da seguire, per loro, doveva essere proprio Gesù che, sulla strada di Emmaus, agli spaesati, delusi e confusi discepoli che leggevano nella Croce l’ultima parola della vicenda del Maestro, dosò ascolto e parola, pazienza e coraggio, accoglienza e stimolo, fede in Dio ed amore per le persone.
Sono questi, potrei dire, i binomi vincenti per incontrare l’altro che sbanda su strade lastricate di delusioni perché non ha la profonda e piena intelligenza del piano che Dio ha disposto per la nostra salvezza. Il teologo Jean Galot, non a caso, rimarcava che, all’importanza che conferiamo all’affermare la ‘perfezione immutabile’ di Dio, occorre necessariamente affiancare la notizia che, intessendo relazioni d’amore con noi, Egli «si è impegnato nella sofferenza». Tra i primi teologi cristiani, in questo segmento di riflessione, dobbiamo scomodare Tertulliano. A suo dire, infatti, Dio, per aiutarci a rafforzare la speranza nell’Oltre, ci «ha circondati di immagini della risurrezione»: la luce, cita ad esempio, muore nella notte, ma torna poche ore dopo; le stagioni finiscono e ricominciano; i frutti marciscono ma rinascono…
Se – domanda l’antico autore - «tutte le cose distruggendosi si conservano, tutto dalla morte rinasce» soltanto l’uomo, «creatura così eccellente», dovrebbe definitivamente morire? Chiediamoci: siamo davvero ancora disposti a ragionare come Tertulliano? Come ci ricorda il teologo francese Latourelle, purtroppo, l’eclisse, la perdita, la morte e la mancanza di Dio convergono a costituire quell’evento che consuma «l’ossigeno di cui l’uomo ha bisogno per respirare». In una sua opera, Nietzsche indica la ragione per la quale Dio è un ingombro inutile, da rimuovere. Il filosofo si ritiene troppo arguto, polemico, per non ritenere che, in fondo, Dio altro non è che una risposta grossolana, una indelicatezza verso i teoretici che si slarga in maniera letale a grossolano divieto: non dovete pensare!
Lo scrittore tedesco Dürrenmatt sostiene che Dio sia l’invenzione che gli uomini hanno ritenuto necessaria per illudersi di sopravvivere. Sarebbe il caso, però, di prendere sul serio, come meritano ovviamente le voci polemiche di Nietzsche, della Beauvoir, e quanti altri, anche la provocazio ne del filosofo Marquard. A suo dire, infatti, dopo la ‘morte di Dio’ il compito più difficile, il grosso problema dell’uomo è quello di rimanere uomo.
Chissà, visto le miserrime conseguenze che lo sganciamento dell’antropologia dalla teologia ha generato, se non sarebbe un progresso arretrare all’affermazione – mai come oggi attuale e ampiamente provocatoria – di Cusano: Tolle Deum a creatura, et remanet nihil (Se ad una creatura togli Dio, di lei rimane nulla). Se qualcosa ne rimanesse, però, non sarebbe che uno schiavo! Ha ragione chi ha detto che eliminare Dio dal nostro orizzonte non significa credere più a niente, bensì credere a tutto; noi non sappiamo vivere senza riferimenti: possiamo preferire un riferimento ad un altro, ma non farne a meno. Vi inviterei, a fronte di tanti tromboni sfiatati accaniti ad eseguire marce funebri in onore del Trascendente, a seguire la traccia aperta dalla riflessione di uno scrittore russo che, in fatto di conoscenza dell’anima, ha da proporre suoni argentini. Dostoevskij diceva che è un tormento vivere senza Dio e l’uomo – aggiunse – non sa vivere senza mettersi in ginocchio. Chi rifiuta di farlo davanti al Dio della Bibbia, finirà col genuflettersi, conclude il nostro autore, davanti ad un idolo di legno, di oro o, comunque sia, immaginario. Non si dimentichi quanti hanno dato cieca fiducia a dittatori, fanatici religiosi, maghi…No, l’uomo non sa vivere senza inginocchiarsi: meglio – allora – davanti ad un Padre che davanti ad un idolo!

Noi cristiani dovremmo avere – questa una delle provocazioni di Nietzsche – una faccia da salvati; mostrare, cioè, di essere ‘consapevoli’ che Dio ha eletto la nostra carne in Cristo! Il filosofo tedesco polemizzava aspramente con la, potremmo dire, platonizzazione di Dio: era divenuto, avvolto nel bozzolo di categorie metafisiche lontane dall’uomo concreto, un Dio – ragno, come Nietzsche stesso si esprime. Proviamo a pensare anche ad un Dio che danza. Il ‘filosofo col martello’, provocava in crescendo: Ich würde nur an einen Gott glauben der zu tanzen verstüunde (crederei solo a un Dio che sapesse danzare). In India, sia detto per transennam, si venera Shiva Nataraja, propriamente, il Dio/Danza. Raja è ‘Signore’ e nata significa ‘danza’.
Anche Heidegger disse che non ci si può inginocchiare, né si può danzare davanti alla Causa Sui ed aggiunse che Dio è un «portato dell’esperienza religiosa, non della filosofia». David H. Lawrence pare saldarsi a filo doppio con questa convinzione heideggeriana quando scrive: «ogni Dio invecchia insieme agli uomini che lo hanno creato». Si tratta di portare nelle cose della fede certo la serietà, non la seriosità! Il ‘Precetto X’ nell’antico scritto il Pastore di Erma contiene una esortazione che ben si può ricamare sul tessuto della nostra argomentazione: «Rivestiti di gioia». È necessario in quanto, ci viene spiegato, la gioia piace a Dio e, in più, va considerato che non ha forza sufficiente per innalzarsi fino a Lui la preghiera gravata – dice Erma – dal peso della tristezza. Resta che, talvolta, il Dio dei filosofi non è quello che fa esclamare al salmista hai mutato la mia tristezza in danza.
Chi ha indagato questo fin troppo arato campo è il filosofo e teologo Giorgio Sgubbi.
Si affida alla Verità del Cristo per studiare la differenza che intercorre tra le due proposte: filosofica e teologica. Quella di Cristo è ‘verità d’amore’ che accoglie la ‘ragione’. Sgubbi si affida ad un binomio: il cristico ed il critico. L’ha mutuato da Jean Guitton che diceva: «il cristico convince il critico». Il filosofo francese confessava di cercare la verità con una ragione autenticamente critica che, avesse abbandonato la fede, gli sarebbe parso di tradire. Cristo convince quanto si pone in maniera critica contro la fede cristiana: è il Dio che mangia, che piange, che ha compassione delle folle affamate e sente persino stima per un pagano come il centurione che mostra una fede salda.
Sgubbi, seminando in questo solco, vuole rintracciare una armonia vissuta tra ‘fede’ e ‘ragione’: «È nella natura cristocentrica della fede che abita la filosofia […]: il cristiano è cultore di filosofia proprio in quanto cristiano, a partire cioè dal contenuto di una fede che richiede e coinvolge l’esercizio della responsabilità e della libertà e quindi […], della capacità della verità».
Il cristiano sa che il suo pensare non ammette punti prestabiliti di approdo e che non si addormenterà mai nel convenzionale perché ‘deve’ fare i conti con un Dio che è, paradossalmente, infinito nel finito, libero nell’obbedienza:
«Dio è così infinito che è l’infinito anche nel finito, così libero che anche e proprio nell’obbedienza è libero, così libero che nell’abbassamento manifesta la sua signoria. La Kenosi dell’incarnazione è quindi la rivelazione del mysterium di Dio» (W. Kasper).
Partiamo dalla posizione di von Balthasar: la fede, a Suo dire, può definirsi come l’incontro di tutto l’uomo con Dio che, a Sua volta, vuole davanti a Sé tutto l’uomo. Non riesce difficile, a questo punto, ammettere che anche la dimensione ludica (da Platone ad Huizinga essa è ritenuta costitutivo fondamentale dell’uomo) si vede riconoscere un ruolo determinante nella relazione con Dio.
Necessario è annettere all’impianto teologico categorie estranee all’armamentario metafisico perché, per portare nelle nostre deboli parole il divino, non possiamo prescindere da quella che il poeta Novalis, nel cuore del Romanticismo, chiamava der Zauberstab der Analogie, ‘la bacchetta magica dell’analogia’. Metafore, che sono il linguaggio che gioca, e non solo concetti!
La Bibbia stessa conosce la poesia come potente volano per mettere fecondamente on the road il Trascendente. Basti, considerando lo spazio a nostra disposizione, un esempio. Il teologo ebreo Chouraqui faceva notare che l’espressione il mio amante ricorre nel ‘Cantico dei Cantici’ 26 volte; ebbene, il sacro Tetragramma (JHWH, impronunciabile nome di Dio) è, per la numerologia mistico-ebraica, corrispondente proprio a 26! Gli esegeti, poi, sommano le lettere dell’unità (13) e quelle dell’amore (13): di nuovo 26. Dio, potremmo dire traducendo in parole tutto questo, è il mio amante e amandoLo vivo nell’unità.
Siamo pro – vocati  (chiamati – a) pensare Dio di là delle categorie filosofiche e ne abbiamo i mezzi; in fondo, è un filosofo occidentale a dire che c’è infinitamente di più nella parola Dio che non nel termine essere (Ricoeur). La sfida è pensare un Dio che gioca, che danza, affinché la nostra preghiera, come diceva Erma, non gravata ‘dal peso della tristezza’ giunga al Padre.

Nella ‘Vita della beata Umiliana de’ Cerchi’, fra Vito da Cortona scrive: «Mentre la santa giaceva nel suo letto, dentro la sua cella nella torre, ecco un bambino di quattro anni o poco più, dal volto bellissimo: giocava nella sua cella, davanti a lei. Quando lo vide provò una grande gioia e gli disse: “O amore dolcissimo, o carissimo bambino, non sai fare altro che giocare?”. E il bambino rispose: “Che altro volete che io faccia?”. E la benedetta Umiliana disse: “Voglio che tu mi dica qualcosa di bello su Dio”. E il bambino disse: “Credi che sia bene che uno parli di se stesso?”. E disparve». Significativa provocazione pensare e professare un Dio che gioca, che danza, che fa festa.

Sulla scorta di quanto appena letto credo che avesse ragione Françoise Varillon a dire che non serve razionalizzare Dio perché Egli è un cuore che batte. Capita, soprattutto nei poeti, di ritrovare perfetta coincidenza tra la Parola e quanto ci accade. Giovanni Giudici, in alcuni versi, ci parla del padre inseguito e braccato da creditori che, anche in una pubblica piazza, non esitano a ricordargli, a voce alta, i debiti. Sentite come Giudici passa da questo segmento autobiografico al Padre Nostro:
‘Sbraita decoro il creditore, infierisce/sull’insolvente, gli minaccia galera,/fa adunare la gente del passeggio serale […]/Il figlio del debitore – io/sono stato./Per il mio padre pregavo al mio Dio/una preghiera dal senso strano:/rimetti a noi i nostri debiti/come noi li rimettiamo’.
Dio entra, in un modo o nell’altro, in ogni vicenda che ci riguardi. Solo la povertà spirituale del mondo fa sì che ciò non ci appaia sempre evidente (Heidegger: «Il mondo è già diventato tanto povero da non sapere riconoscere la mancanza di Dio come mancanza»).
Al solo vero Ermeneuta del Padre – come Giovanni definisce il Cristo – occorre rivolgere, in quest’epoca di povertà, un appello che abbia toni accorati ed intenzioni sincere. Potremmo prendere in prestito le parole di uno scrittore che non ebbe da subito Dio in tasca:
«è giunto il tempo – scriveva Giovanni Papini nella sua Vita di Cristo – che devi riapparire a tutti noi e dare un segno perentorio e irrecusabile a questa generazione… Sia pure un breve ritorno, una venuta improvvisa… un segno solo, un avviso unico, un balenamento nel cielo, un lume nella notte». 
Una meditazione seria su quanto afferma un filosofo che si dichiara, paradossalmente, (ma nemmeno tanto) ‘cristiano non credente’ gioverebbe, a mio parere, molto:
«il divino non è una potenza che prevarica le cose, ma è l’atteggiamento che le custodisce» (Natoli). Aveva ragione Guardini a sostenere che non aprirsi davanti a Dio è impossibile; d’altro canto, Egli non si chiude davanti a noi visto che, annuncia un profeta, gli occhi di Dio sono aperti sui passi dell’uomo (Ger 32, 19). C’è innegabile legame tra Creatore e creatura; anche la bestemmia fa esistere, nel nominarlo, Dio; la fatica degli atei pensanti dice che in gioco non vi è la relazione con un fantasma. La poetessa Marie Noël torna al gesto creatore del soffio sulla creatura di terra per infonderle l’anima. Personalizzando il racconto genesiaco, Marie afferma che Dio ha soffiato su di lei con tanta forza che mai si è ripresa da quel soffio divino e, dunque, come un cero vacillante, non ha mai smesso di situarsi tremante fra i due mondi. Sia Giudici che la Noël, così, assumono le parole divine come tessuto connettivo che tiene assieme gli episodi della loro esistenza facendoli impennare verso una ermeneutica teologica. La vita si legge anche con categorie e parole desunte dalla teologia, dalla Bibbia!
Essere tra due mondi, per qualcuno, può rappresentare anche una condizione drammatica nella quale versa l’uomo. È questa la convinzione dello scrittore francese Victor Hugo:
«Dal giorno in cui il cristianesimo ha detto all’uomo: - Tu sei duplice, tu sei composto da due esseri, perituro l’uno, immortale l’altro, […] sempre curvo il primo verso la terra sua madre, senza tregua teso il secondo verso il cielo […] da quel giorno esiste il dramma». L’oblato benedettino, Maurice Zundel, poi, legge la tensione verso l’Oltre addirittura insita nell’universo:
«L’universo non è chiuso e tutte le sue linee si prolungano all’infinito e orientano lo sguardo verso il Polo invisibile, onde ogni cosa è misteriosamente magnetizzata. Il mondo è aperto in un’immensa aspirazione verso la Pienezza, alla quale è sospeso tutto il suo divenire».

Non solo, però, ai nostri giorni, per molti la parola Dio appare priva di significato, ma anche troppi credenti evitano di accostare la Scrittura e, perdendo il gusto delle parole, rendono impossibile il contatto con la Parola. Un rilievo che può giovare viene dallo storico Jacques Le Goff il quale, studiando la civiltà dell’Occidente medievale, istituì un paragone tra il libro monastico ed il libro universitario. Il primo venne «compreso nella sua funzione spirituale e intellettuale […], prima di tutto un tesoro»; il secondo, invece, «è principalmente uno strumento».
I libri sui quali ci si forma in teologia, purtroppo, tendono sempre più ad assomigliare ad uno strumento e, sempre meno, ad un tesoro; se, però, ci volgiamo al ‘tesoro dei tesori’, la Scrittura, le cose cambiano radicalmente. Il compianto padre David Maria Turoldo, infatti, deve la Sua stupenda produzione poetica all’essersi sempre impegnato in un corpo a corpo con la Parola. Da questo comprese che bisognava parlare di un Dio sempre esposto a follie che, accontentandosi di ‘come siamo’, è pronto a perdere sempre. Siamo davanti ad un Dio che, scrisse in una raccolta del 1988, bisogna solamente cantare e considerare come il senso sconosciuto delle cose. Turoldo cercava Dio senza nominarLo (chiamarti appena a gesti).
A partire dalle ‘parole’, con atteggiamento responsabile e con amore, che in lui si traduceva in purissima follia mistica, Turoldo si tuffa nel silenzio nel quale Dio/Parola è unito in maniera insuperabile all’uomo.
Solo se le nostre parole si sono lasciate ‘attraversare’ dal Dio/Parola, giungiamo ad un silenzio che non è mutismo, né ipocrita, vile rinuncia alla fatica di nominare il Trascendente. In ‘Nel segno del Tau’, il sacerdote – poeta, approda ad una pace mistica e che nulla ha dell’insana rinuncia a dialogare con Dio: Certo per me […], è tempo/di appendere la cetra/in contemplazione/e silenzio.
Un percorso poetico che sappia leggere la Storia della Rivelazione nelle nostre micro e macro – storie, apre su di un silenzio abitato da Dio. L’uomo è, potremmo dire, ontologicamente mistico. Papa Gregorio Magno, poco dopo aver iniziato il suo pontificato, siamo intorno al 593, scrive i Dialoghi. In essi troviamo una teologia oserei dire ‘esistenziale’, uno sforzo (riuscito) di correlare le narrazioni bibliche con quelle di uomini coevi a Gregorio.
I Longobardi, allora, marciavano su Roma ed erano tempi colmi di paure ed angosce e, perciò, era ancora più urgente una teologia esemplare, vivificante gli animi. Aprendo il quarto – ed ultimo – Libro della poderosa opera, Gregorio definisce ‘Adamo’ il ‘primo mistico’ perché, nell’Eden, parlava con Dio direttamente e conviveva con le realtà divine.
Solo col peccato perse tutto questo; gli uomini nati da quella carne sentono parlare delle cose celesti ma – scrive il Nostro autore - «dubitano dell’esistenza di ciò che sfugge agli occhi del corpo, poiché non possono conoscere l’invisibile con l’esperienza». Resta il racconto, la narrazione e, se rispecchia anche i canoni poetici e letterari della Bibbia, possiamo farla rivivere in parole e vicende nuove e personali. Questa è una provocazione a rendere viva, operativa la Parola. La speranza di riannodare il filo delle nostre esistenze alla dimensione verticale viene da Cristo. Abbiamo perso il Paradiso ma, ci ricorda un grande teologo medievale, dal perdere qualcosa – con l’Incarnazione – siamo passati (ed è un guadagno) all’incontrare Qualcuno! Dice Bernardo di Chiaravalle che, al posto del ‘Paradiso perduto’, ci viene dato come ‘Salvatore’ il Cristo. Il luogo di Dio non perde peso, materialità, consistenza: solo che da ‘giardino che ci contiene’ (metafora dell’abbraccio primigenio del Padre) diviene Persona che ci contiene e chi è contenuto è contento (etimologicamente le parole si appartengono). L’augurio è che anche per il nostro tempo possano valere le parole del salmista: «Questa è la generazione di coloro che cercano il Signore, che cercano il volto del Dio di Giacobbe» (Sal 23, 6).

Gustav Janouch è diventato noto per aver frequentato, dal 1920 al 1923 circa, lo scrittore praghese Franz Kafka. Lo riteneva il suo ‘padre spirituale’! Grazie a lui, Gustav può affermare di non essere più «il piccolo e insignificante figlio di un funzionario, ma un uomo che lottava per misurarsi col mondo e con se stesso, un piccolo soldato di Dio e dell’uomo». Kafka, da impiegato alle Assicurazioni, pagava di nascosto avvocati per gli operai che non venivano risarciti quando pativano un infortunio; era un forzato della penna e, allo stesso tempo, potremmo dire che Franz tendeva (a suo modo) alla ‘santità’. Nei Diari (25.2.1912) si legge: «Anche se la salvezza non dovesse venire, vivere sempre in modo da essere degno di essa». In questa frase si intercetta una ‘provocazione’: vivere da uomini di Dio anche senza essere certi della salvezza è compito che ci sentiamo di assumere? Qualche paragrafo fa abbiamo parlato di Paolo che fa riferimento ad Abramo che aspettava (exedécheto) la città costruita dall’Architetto, ai Padri che sempre aspirarono (oréghonta) alla ‘patria celeste’. La fede di Abramo ha molto, oso provocare, con il modo di credere possibile all’uomo contemporaneo: Egli, infatti, non fonda su supporti ‘razionali’, né su assicurazioni convalidate da assiomi epistemici, ma su di una chiamata oltre il logico, oltre l’immediatamente verificabile. Un teologo ortodosso ha giustamente precisato che di Abramo non è stato detto che credette in Dio (cosa che ognuno può fare), ma credette a Dio nel senso che si affidò a Lui e senza fare domande.
Aveva ragione Guardini a dire che dobbiamo vivere ‘dall’alto verso il basso’ e non ‘dal basso verso l’alto’; non a caso, Teofilo d’Antiochia così segnalava l’etimologia di anthrôpos (uomo): ta anô (sopra) e tréchein (correre). L’uomo è fatto per correre verso l’Alto! Siamo disposti, tuttavia, ad attendere anche a vuoto Dio? Gli uomini che, per dirla con un autore contemporaneo, aspettano Godot lo fanno, come esorta Kafka, in maniera degna? E Franz, come si comportò? Si è venuti in possesso di un biglietto che scrisse pochi giorni prima di lasciare questo mondo e lo si conosce nella versione francese: Vers la profondeur, vers le port profond, Fils des rois! Potrebbe essere, qui, il Fils des rois – Figlio del Re – il Cristo? Franz era ebreo, ma noi cristiani non possiamo sostenere che l’attesa di Dio (Weil) rischia di rivelarsi sterile scialo di tempo: Cristo è Promessa realizzata. In questo caso, potremmo così curvare la provocazione kafkiana: viviamo in modo da essere degni di questa verità storica ed escatologica?


Lo storico e critico d’arte fiorentino, Alessandro Parronchi, alla vigilia del Natale 1944, scrisse dei versi: «non trovo in me […] nulla che di riceverti sia degno, Signore che per me lasci il tuo Regno». Mettiamo questo in relazione con l’aforisma kafkiano. In quest’ultimo, c’è una provocazione che apre su di una possibilità, su di una speranza che rischia di rimanere insoddisfatta…anche se la salvezza non dovesse venire! Nel caso di Parronchi, invece, la questione riguardo all’essere o no degni del Dio che viene, viene posta davanti ad un fatto: il Signore ha lasciato il Suo Regno per me! In Kafka agisce la speranza messianica ebraica ancora aperta al futuro, nell’autore italiano c’è la consapevolezza di un cristiano di dover essere degno per un dono già ricevuto: l’assunzione, da parte di Dio, della carne umana. Invito a meditare ancora sull’espressione del biglietto di Franz: andare verso la profondità, verso il Fils des rois. Ad ogni modo, resta costante, anche nelle figure più disincantate della cultura del Novecento il riferimento all’Altro. Come potrebbe, insiste la radice ebraica della nostra fede, un uomo prescindere da Dio, visto che lo portiamo persino nel nostro originario nome? I sapienti ebrei, infatti, spiegano che Adamo vuol dire Dio nel sangue (Aleph, Nome di Dio + Dam, sangue). Rabbi di Mezeritz diceva che l’uomo porta il nome Adam quando si unisce con l’Aleph che è la fonte; omettendo di riferirsi ad essa, la creatura è soltanto Dam, una creatura di sangue e che, aggiungo, sparge il sangue!

Un altro cercatore di Dio tra i letterati di indubbio valore è lo scrittore francese Joris-Karl Huysmans. Ebbe una infanzia assai dura a causa della prematura morte del padre. Lui aveva appena nove anni e mai tollerò che due anni dopo la mamma si risposasse.Passò attraverso numerose esperienze letterarie ed esistenziali, ma ne uscì sempre deluso e, perciò, tentò perfino di darsi alla magia nera! Finirà, nel 1907, con l’entrare, come oblato, nell’abbazia benedettina di Ligugé e morì nel 1907 dopo aver atrocemente sofferto per un cancro alla bocca. Nel suo romanzo Controcorrente, l’esteta Des Esseintes non sa più che fare: è solo, ha bruciato esperienze che gli fanno intendere la vita presente come un totale fallimento. Portando su di un piano teologico il personaggio, osserva Salvatore Battaglia: De Esseintes è «Adamo cacciato dall’Eden che si crea paradisi artificiali nell’eccitazione sapientissima eppure insana del proprio intelletto». Questo spirito solitario, estetizzante, antisociale, dice: «Solo l’impossibile fede in un’altra vita», forse, potrebbe salvarlo. Un’altra vita – dopo che quella avuta a disposizione è fallita – è solo il parto immaginario di una impossibile fede?
La Speranza cristiana sbriciola questo masso di amarezza e stanchezza esistenziale che blocca la strada verso il Trascendente e sconfessa i proclami di quanti non sanno tracciare, sulle mappe che dovrebbero condurre al Senso, nient’altro che sentieri interrotti (Heidegger). Malgrado tutto, nelle parole del deluso esteta vibra la nostalgia del Totalmente Altro (Horkheimer).  In greco nóstos è ‘ritorno’ ed álgos, ‘dolore’: nostalgia è ‘soffrire per un inappagato desiderio di tornare’.
Milan Kundera sostiene che nostalgia può definirsi «come la sofferenza dell’ignoranza. Tu sei lontano, e io non so che ne è di te. Il mio paese è lontano, e io non so cosa succede laggiù». In una delle Sue poesie, Giovanni Paolo II parlava della ‘nostalgia’ come «fame di vicinanza»; concludeva dicendo che, ad essere Redenzione è «la continua vicinanza di colui che è partito». L’esteta di Huysmans, come tanti, per riprendere il senso conferito da Kundera al termine nostalgia, è lontano dal paese (Patria celeste) ed il Tu che gli sta a cuore (Dio) pure è lontano e nulla sa di Lui.
Il romanzo si chiude, sorprendentemente, con una preghiera di Des Esseintes: «Signore, abbiate pietà del cristiano che dubita, dell’incredulo che vorrebbe credere, del forzato della vita che si imbarca solo nella notte, sotto un cielo che non rischiarano più i consolanti fari dell’antica speranza». La ‘conclusione pregata’ di Controcorrente richiama un proverbio russo: ‘Chi dice che Dio esiste dice una bugia. Chi dice che Dio non esiste, ne dice una più grande’. L’esperienza dell’esteta deluso (come fu Huysmans) fa comprendere che è vero che Dio pare non esistere in certi momenti, ma è ancora più vero che inizia ad esistere quando, come ha detto qualcuno, colpite a morte le speranze terrestri, nascono quelle celesti. L’io non deve occupare tutta la scena. Paul Valery, a tal proposito, ammise: «Confesso che ho fatto un idolo del mio stesso spirito». Quando si prende tutto lo spazio per se stessi, che resta a Dio?
Essere capax Dei mai sarà l’equivalente di capax definiendi Deum; importante, piuttosto, è che Dio è capax hominis: «in Dio c’è la capacità di diventare uomo» (Gesché). Rosenzweig ripensava all’espressione biblica ‘Dio disse:  ‘Sia fatta la luce!’; commentava: cos’è la luce di Dio? È l’anima dell’uomo. Karl Barth ha spiegato cosa voglia dire ‘essere creatura’: «significa essere promessa, attesa, profezia di ciò che Dio, nella sua grazia, ha in mente di fare con l’uomo». Dio attesa dell’uomo – uomo attesa di Dio. Deus meus et omnia (Dio è mio, e tutto è mio, Lutero).

Davanti a Dio non si può mai avere ragione e presentarLo come non è rimane una posizione inammissibile. Giovanni della Croce disse che l’uomo «da se stesso non può sapere come Dio è, deve necessariamente avvicinarsi a lui come un vinto». Riguardo alla Sua identità, dunque, vale solo e sempre quanto dice di Se stesso. Libero è di manifestarsi in un soffio di vento, laddove Lo si attendeva in una tempesta di fuoco, come mostra l’esperienza del profeta Elia; può manifestare la Sua volontà nelle metafore di un profeta, come accade in Geremia, laddove ci si aspettava di comprendere qualcosa di Lui da un poderoso, complesso sistema teologico. Dio è semplice, mai banale e vive nella poesia delle cose quotidiane finanche, se profondamente sentite.
Luigi Giussani, quasi a sottoscrivere quanto detto, ha raccontato, in riferimento alla sua giovinezza, di mattine confortate da un ‘cielo limpidissimo’ e contrassegnate santamente dalla Messa alle cinque e mezzo. La mamma, nello svegliare il futuro teologo, diceva: «Com’è bello il mondo e come è grande Dio». Parole semplici, prive di pretese e che pure lavorarono con successo nell’animo di Luigi.
Bisogna «apprendere da Dio ciò che Egli è» (Gesché). Molti dicono di aver perso la fede: non sarà perché gli ancoraggi ai quali la tenevano legata erano fragili o inconsistenti? Se ci si affida ad un Dio fatto da noi, appena il nostro io entra in crisi, va in frantumi anche il bel quadretto dell’Altro fatto a sua immagine. Si va, così, dall’io all’Io tronfio ed elefantiaco che è appena una caricatura di Dio! L’Ego che pone l’Altro con artifici teoretici dà vita ad un falso Tu elaborato con aspettative, desideri ed ansie di un soggetto stanco ed impaurito.
Bernanos non amava l’espressione ‘perdere la fede’: la si usa, diceva, con il tono di chi lamenta lo smarrimento di una borsa o di un mazzo di chiavi. Non siamo noi a ‘perdere la fede’, concludeva, è che essa, piuttosto, «smette di informare la nostra vita». Quanti pensano di poter racchiudere in striminzite categorie teoretiche (‘riduttive’) quanto si può dire di Dio, meritano il rimprovero che Lutero mosse ad Erasmo: «I tuoi pensieri su Dio sono troppo umani». Ironico e, forse, un po’ polemico, Gregorio di Nissa chiedeva a quanti mostravano di ‘conoscere la natura di Dio’, se, almeno, avessero una reale conoscenza della ‘natura umana’, di ‘se stessi’. Va rivisto il concetto di Rivelazione perché, fraintendendola, incorriamo in letali equivoci. Seguiamo la lezione di Ettore Malnati:
«il modello di rivelazione offertoci dalla storia della salvezza non è quello di un’informazione, di un’istruzione, dell’affidamento di una dottrina, ma è centrato sulla comunicazione e sulla relazione vitale. La rivelazione salvifica di Dio è allora rivelazione non di cose, ma di sé: è autorivelazione personale, autocomunicazione della stessa vita divina […] è […] l’evento libero e indeducibile dell’ autoapertura di Dio».
Per tradurre in prassi il retto intendere la Rivelazione, occorre procedere a due appropriazioni. Andiamo a rileggere quanto Giovanni Paolo II scrisse al n. 10 della Redemptor hominis:
«L’uomo […] deve ‘appropriarsi’ ed assimilare tutta la realtà dell’Incarnazione e della Redenzione per ritrovare se stesso. Se in lui si attua questo profondo processo allora egli produce frutti non soltanto di adorazione, ma anche di profonda meraviglia di se stesso».

L’uomo prende consistenza se riconosce la sua vocazione ad essere qualcuno e di Qualcuno. Una pro – vocazione è, appunto, essere chiamato a! Jean Lafrance, un sacerdote morto di cancro nel 1991, disse: «Ho riconosciuto che Dio mi aveva realmente creato per la preghiera». La ‘maturità del credente’ si dà quando – per dirla con Bernardo di Chiaravalle – si ‘ama Dio non più per sé’ (propter se), ma ‘per Lui’ (propter ipsum). Il punto fermo è cercare: vangeli e testi paolini pullulano dei verbi zêtéô, epizêtéô, ekzêtéô, ‘cercare, ricercare’. Dio stesso, però, è alla ricerca dell’uomo (Heschel) per salvarlo sempre e comunque. Ireneo di Lione scrisse che Adamo era troppo giovane e, perciò, peccò. Dio l’allontanò dal Paradiso perché ne ebbe compassione e, con la morte, fece «cessare il peccato col porgli un termine nella dissoluzione della carne in terra, in modo che potesse, cessando di vivere nel peccato e morendo ad esso, cominciare a vivere in Dio».
Si veda, in quanto aggiungiamo, quali altezze tocchi, in materia di  soteriologia, il pensiero di Ireneo: «è necessario che sia stato salvato anche quel primo uomo, perché sarebbe troppo irragionevole dire che il Vincitore non ha liberato dal nemico colui che fu più gravemente ferito […]. Il nemico non sembrerebbe veramente vinto, se rimanessero presso di lui le antiche spoglie». Dio salva l’Adamo presente e futuro, ma anche quello passato! La Chiesa, parlando di Dio ispirata da simili lezioni, è presente davvero in maniera significativa nel mondo perché progetta un futuro illuminato da valori cristiani: «il futuro delle Chiese dipende dal partire da una vita di Dio per essere presenti nel futuro del mondo» (Schillebeeckx).
La ricerca di Dio, l’attenzione necessaria a percepirLo, vanno raccontate al mondo attraverso la Chiesa; poco importa constatare che si è in pochi. Lo storico Toynbee diceva che il destino di una società è nella mani di minoranze creative. Importante è essere creativi: segno inequivocabile che si appartiene al Creatore. In primo luogo, necessario è un atteggiamento che il cristiano deve assumere. Quale? Lo illustra Chesterton: l’orgoglio di appartenere alla propria religione! Scriveva il letterato inglese: «mi sento molto orgoglioso della mia religione – scrive infatti il nostro autore – mi danno un senso particolare di orgoglio quelle parti della mia religione che quasi tutti chiamano superstizione. Mi glorio di essere incatenato da dogmi antiquati […] perché so […] che solo il dogma ragionevole ha una vita così lunga da poter essere chiamato antiquato».
Chesterton è orgoglioso proprio di quanto il cattolico oggi, per non sembrare anacronistico o, peggio, intollerante, tende a definire secondario. Andiamo oltre.

Gregorio di Nissa sosteneva che ‘cercare e trovare Dio’ («trovare Dio consiste nel cercarlo senza sosta») sono la stessa cosa perché il ‘premio’ per chi cerca è contenuto nella ricerca stessa. Di primaria importanza è sottolineare cosa deve passare da noi agli altri quando annunciamo Dio; l’annuncio della Parola, credo, deve avvenire come avviene la stessa Rivelazione: Dio non si mostra come notizia o informazione, dottrina, ma si dà come comunicazione di Sé, comunicazione di Vita! Il credente, a questo agire divino, deve assimilarsi sempre più per due motivi. Primo: la gloria di Dio sarà perfetta quando somiglieremo al Figlio. Ireneo di Lione, scrive: «Dio sarà glorificato nell’opera da lui creata quando l’avrà resa conforme e somigliante al Figlio»; secondo: come Dio comunica se stesso nel rivelarsi, così dobbiamo donare noi stessi, non solo Parola e parole, quando evangelizziamo. Insegna san Paolo: «Così affezionati a voi avremmo desiderato darvi non solo il vangelo di Dio, ma la nostra stessa vita, perché ci siete diventati cari» (1Ts 2, 8). Mostriamo con un aneddoto come entri significativamente in gioco l’affettività nell’annuncio delle ‘cose della fede’.
Pio VII andò a Parigi nel 1804 per l’incoronazione di Napoleone I. Tra il popolo che attendeva la benedizione, spiccava un giovanotto che stava ritto davanti al Pontefice, con aria beffarda, di sfida, per nulla intenzionato a togliere il cappello. Alla benedizione fece addirittura un esplicito atto di irriverenza. L’anziano e saggio Pio VII, con dolcezza, gli disse: «Se non gradite, mio caro, la benedizione di un Papa, accettate almeno quella di un vecchio, la quale porta fortuna sempre». Non possiamo e non dobbiamo escludere la componente affettiva nel proporre il Vangelo. Va altresì rinvigorita la fiducia nella Provvidenza che, unita ai nostri sforzi e santificandoli, fa in modo che l’annuncio della fede cristiana trovi un patrocinio non meramente umano; ecco, credo, la base di partenza per assumere il coraggio necessario a parlare di Dio al mondo contemporaneo. Non bastano robuste e dotte apologie, occorre mostrare che si è davvero ispirati da una Provvidenza che ama e che ci insegna, in primo luogo, ad amare. Ha scritto, a tal proposito, Agostino: Si enim Dei providentia non praesidet rebus humanis, nihil est de religione stagendum - «Se infatti la Provvidenza di Dio non presiede alle cose umane, non c’è nulla da fare per la religione».  
Se non si cresce nell’amore decresce il senso della fede che annunciamo: «Basta che gli uomini si attengano all’amore cristiano; poco importa quel che succede alla religione cristiana», scrisse nel 1777 il filosofo Lessing.

Dio comunica la propria vita svolta in dimensione pericoretica: dialogo intradivino fra le Tre Persone. Dialogo che provoca e suscita il desiderio di vivere all’insegna della sana alterità. Von Balthasar ci ricorda che non è ‘oggetto da contemplare’ la ‘Rivelazione; piuttosto, è l’agire di Dio nel e sul mondo e vi si risponde solo con l’azione. Hegel diceva che «chi non conosce di Dio che egli è trino non sa nulla del cristianesimo». Difficile dargli torto. Ignazio di Loyola percorreva la città – racconta – con ‘molta gioia interiore’ e, non appena scorgeva ‘tre persone, animali o cose’, «per molto tempo» gli si rappresentava la Trinità. Siamo ancora in grado di sentire in questo modo? Il vissuto trinitario mostra inequivocabilmente che il cristianesimo è Amore,  amare. La poetessa Sylvia Plath, che si tolse la vita a soli trent’anni, confessò di essere abitata da un grido che, di notte, se ne andava in giro coi suoi uncini a cercare qualcosa da amare. Senza amore, dunque, nulla siamo. Conformare la vita all’Amore che ha assunto volto, cuore e mani d’uomo è riconoscerci deiformi (il grido trova risposta in Qualcuno che, per primo ci ama) e non deformi (sfigurati dalla smorfia di un gridare a vuoto). Il poeta Hölderlin domandava: Was ist der Menchen Leben? (La vita umana cosa è?). Risposta:  Ein Bild der Gottheit (una immagine della divinità).
Per avere una almeno larvata comprensione di cosa sia la Vita intratrinitaria occorre tuffarsi in Dio per imparare, tra i flutti della Sua Onnipotenza che sa farsi impotenza, l’Amore. Il mare tenta con le sue promesse di bellezza, di vastità e di avventura, ma se non vi entriamo mai lo apprezzeremo davvero: si conosce fino in fondo soltanto ciò che ci attraversa, pure con dolore, e ciò che attraversiamo, pure a costo di fatiche sovrumane. Scrive, restando in questa tonalità, Heidegger:
«Si deve imparare a nuotare, e invece ci si limita a passeggiare in riva al fiume, ci si intrattiene sul mormorio della corrente e si parla delle città e dei paesi che esso lambisce. Che in questo modo non scocchi mai nel singolo uditore la scintilla capace di far nascere in lui una luce che non si spegnerà più nella sua esistenza è cosa certa».
Spostando la citazione sull’asse teologico appaiono evidenti due cose: 1.Passeggiare in riva al fiume (circumnavigare teoreticamente la questione dell’esistenza di Dio), non serve a molto. Ci si   ferma tra dettagli sparsi ed irrelati (mormorio della cor rente, città e paesi toccati dal fiume). 2. Si rimane impigliati in una fenomenologia del fiume/Dio superficiale. Chi sente parlare in questo modo del fiume/Dio non vedrà mai accendersi in lui qualcosa che valga come provocazione ad investire l’intera vita. Buber ha parlato di Gottesfinsterris, ‘eclisse di Dio’: ha ‘nascosto il Suo volto’, è vero, per molto tempo ed in molte circostanze: «Dio […]/Si è nascosto tanto a lungo che ci si è dimenticati della sua apparizione/nel roveto ardente e nel petto di un giovane ebreo» (Czesław Miłosz). Nascosto, ma pure Rivelato a Mosé e definitivamente in Cristo: a volte, lo si può dire, a ragione, assente, ma mai inesistente. Non è Lui ad essere crudele: sono le nostre ermeneutiche presuntuose della Parola a mostrarLo in atteggiamento tirannico.
Sì, «sono stati gli uomini ad inventare un Dio minaccioso e sempre arrabbiato. Poi, per liberarsene e sopravvivere, sono dovuti ricorrere all’ateismo» (Lasconi). Non si risolvono tutti i problemi, però, infoderandosi in un ateismo refrattario ad ogni interrogativo ulteriore. Un contadino della Val Marecchia chiese al poeta Tonino Guerra: - Ma tu credi che Dio esista o no? Ricevette questa risposta: - Dire che Dio esiste mi crea un dubbio, ma dire che non esiste mi crea un dubbio ancora più grande. Simone Weil ha detto che Dio ci ha lasciato, dopo essere venuto e sparito, qualcosa di se stesso: non ci fosse questa ‘traccia’, conclude la filosofa, «la ricerca sarebbe vana».
Credere è ciò che Dio stesso rende possibile anche perché ha lasciato tracce ineludibili nel mondo. Ha scritto, in riferimento a ciò, riprendendo le lezioni di Otto ed Eliade, Daniélou:
«le realtà del mondo visibile sono ierofanie, manifestazioni del sacro, attraverso le quali si manifestano certi aspetti della realtà divina, la sua potenza attraverso la tempesta, la sua stabilità attraverso il movimento degli astri, la fecondità attraverso la pioggia e il sole. Le interpretazioni materialistiche che riducono il contenuto dei simboli a una semplice sublimazione della stessa vita biologica sono erronee: ciò che i simboli ci fanno conoscere è realmente qualcosa di Dio». Ecco perché bisogna liberarci dall’assillo di ricondurre sempre e comunque il fenomenologico alla riduzione tecnoscientifica di esso; occorre, piuttosto, lasciar parlare il potente contenuto simbolico in esso latente, ma sempre operante in attesa del nostro ascolto.
L’uomo sfida Dio smettendo di essere (diremmo con vocabolario heideggeriano) il pastore del reale per divenire il  padrone della realtà! Questo per mettersi, consapevolmente o inconsapevolmente, al posto di Dio. C’è un avvertimento prezioso, a tal riguardo, nel Faust e Urfaust di Goethe. Mefistofele, a caratteri cubitali, scrive al suo apprendista stregone, eritis sicut Deus, il proclama del serpente nel Genesi (sarete come dei). Poco dopo, però, aggiunge:
«Ascolta il vecchio detto di mio cugino, il serpente: un giorno la tua somiglianza con Dio ti farà paura». Siamo, nel nostro tempo, sempre più desiderosi di assomigliare a Dio dal lato della Potenza e sempre meno da quello dell’Amore e, per questo, l’uomo mette paura a se stesso.  

Marco Lodoli pensa che tutti abbiamo un vuoto dentro e si cerca di colmarlo come si può, ma invano: nulla ci appaga! Molti finiscono, possiamo dire con una immagine di Lodoli, col gettare «nella voragine speranze infinite, come bambini che nel gelo della stanza inventano un fuoco e bruciando cataste di desideri lo tengono vivo». In questa immagine risulta chiaro che solo il gelo della stanza è reale; il fuoco col quale difendersi da esso, purtroppo, è soltanto il parto di una fantasia fanciullesca! Tenere vivo un fuoco finto con cataste di inconsistenti desideri è davvero un agire da disperati. Fissiamo gli occhi nel buio e nel gelo della stanza delle nostre inquietudini e ci accorgiamo sempre più che su fuoco irreale non si fondano sensatamente desideri di luce e di calore.
Abbiamo bisogno, piuttosto, che Altri getti uno sguardo nella stanza stretta e gelata del non senso; ma lo scultore svizzero Giacometti, ahimé, aveva ragione a scrivere che tutti abbiamo gli occhi, ma sono assai rari quegli occhi che sappiano esprimere uno sguardo! Lo psicanalista Eugenio Borgna (che ha citato lo scultore), aggiunge: pochissimi sono quegli occhi capaci di sguardi che «riescono a essere messaggeri di qualcosa di specialmente significativo».
Soltanto lo sguardo di Dio rende abitata ed accogliente la stanza della nostra situazione esistenziale.
Nel Vangelo il giovane ricco non riesce a dare via tutti i suoi beni per seguire il Signore, ma Gesù, si legge, fissatolo, lo amò. L’uomo rinuncia a Dio e Lui, con sguardo d’uomo, gli conferma divino Amore. Vediamo, grazie ad un riferimento letterario, come affettivamente, più che effettivamente, Dio ci venga incontro.

Torniamo, dunque, a Musil ed al suo capolavoro incompiuto, L’uomo senza qualità. Il brano che ci interessa vede sulla scena una donna, Agathe: medita il suicidio e si dibatte anche nel tormento di un amore incestuoso per il fratello Ulrich. In lei, tuttavia, simile «al fermento del vino» qualcosa resisteva: «la speranza che morte e terrore non fossero l’ultima parola della verità». La donna, sebbene fasciata stretta nel dolore, riusciva a non credere «difficile […] che, dietro a lei, nello spazio dove non si può mai figgere lo sguardo, forse c’era Dio». Forse è dove il nostro sguardo non arriva: alle spalle! Dio sentito come Presenza discreta. Questa esperienza può essere un’altra via moderna verso Dio? Agathe è lontana da qualsiasi sentimento o convinzione religiosa; in quel momento, però, pure «esausta e tremante […] dovette confessarsi […] di aver sentito ‘Dio’ così chiaramente come un uomo che stesse ritto dietro di lei e le ponesse un mantello intorno alle spalle».
In ogni anima si materializza l’attesa del poeta Henri Michaux: Ma tu quando verrai? A noi tocca l’invocazione, a Dio spetta decidere quando, come rivelarsi. Un verso di Pasternak si può saldare al brano di Musil: «cerchiamo scampo all’intemperie/Ci ripara le spalle un mantello». Quando siamo in balìa delle intemperie, non solo
atmosferiche, ma anche esistenziali, non possiamo fare a meno di un mantello! Agathe sente, avverte la presenza di Dio che compie un tenero gesto protettivo: pare stesse ritto dietro di lei e le ponesse un mantello intorno alle spalle. È sì una donna che vive agli antipodi della lezione evangelica, ma è una creatura che sa piangere. Le lacrime hanno un valore immenso per il Trascendente e sono una via per andare a Lui. La filosofa Catherine Chalier ha, su questo tema, addirittura scritto un ‘trattato’. In esso, afferma: «Colui o colei che […] ha bevuto troppo a lungo alla coppa dell’amarezza piange senza chiedere né sperare nulla, come se la radice della propria parola, bruciata dai dispiaceri fosse stata annientata». Agathe non chiede, non spera, non parla, ma ‘sente’, ‘avverte’ Dio alle sue spalle. Dio stesso versa lacrime per la disobbedienza di Israele:
«Se voi non ascolate – dice al Suo popolo – la mia anima piangerà (tibhkê – nafshî) […] i miei occhi saranno inondati e si scioglieranno in lacrime (dim`â)» (Ger 13, 17).
Il poeta tedesco Paul Celan quasi implorava se stesso di non farsi travolgere dalla scrittura e di imparare, piuttosto, la vita attraverso il pianto: «Non scriverti/ tra i mondi/ al margine della traccia di lacrime impara a vivere». Di fronte a tale scenario desolato, però, irrompe un profumo di speranza: «Chi semina nelle lacrime mieterà con giubilo (rinnâ)» (Sal 126, 5).
Va riletto in altra ottica, poi, anche il Senso veicolato dalla Croce. Si può seguire von Balthasar. A Suo dire, infatti, il ‘gesto della Croce’ che ci incorpora, disponendo di noi a priori, a Cristo non va intelletto unicamente in atmosfera dolorifica, alienante, quasi una macchina destinata a produrre unicamente lacrime di sangue! Il teologo scrive, perciò, che il gesto della Croce «non costituisce la nostra alienazione» (ist nicht unsere Entfremdung), ma è un vero e proprio Verpflanzung, ‘trapianto’: veniamo trapiantati, portati, dalla nostra situazione di alienati, di peccatori, completa Balthasar, in die Wahrheit und Freiheit der Gottenskindschaft «nella verità e libertà dei figli adottivi di Dio». Il dolore, le lacrime per, dalla e sulla Croce ed anche quelle versate ai piedi di essa sono nutrimenti terrestri (perché sul Golgota il dolore è reale, palpabile, umano) che ci trasformano, ben metabolizzati, in figli del Padre celeste. Diventando – attraverso il ‘gesto della Croce’ – Gottenskindschaft (figlio adottivi di Dio) viviamo – e questo significa lasciarsi alle spalle alienazione e pianti privi di senso – davvero nella Wahrheit, ‘Verità’ e nella Freiheit, libertà. Si tratta, però, di comprendere che non è a partire dal sacrificio cruento del Figlio che il Padre ha iniziato ad amarci; sulla scena sacrificale non sono due nemici che diventano, da ora in poi, amici.
Agostino è stato davvero un fine teologo della Croce, perciò, quando ha registrato una riflessione che ci provoca a pensare a Dio non come ad un ex nemico. Egli ama in maniera immutabile e lo fa già – scrive il vescovo africano - «prima della fondazione del mondo […]. Il fatto dunque che noi con la morte del Figlio siamo stati riconciliati a Dio non va ascoltato e non va preso nel senso che egli ha cominciato allora ad amare chi prima odiava, così come il nemico si riconcilia col nemico […] siamo stati riconciliati con chi già ci amava».
Se ne deduce, perciò, che non è a partire da quando le lacrime del Figlio sono diventate simili alle nostre che Dio le ha prese a cuore, ma prima della fondazione del mondo – come splendidamente sopra si è espresso Agostino – le aveva già contate ad una ad una e redente.

“Che cosa è Dio?” – domanda il bambino. La madre lo stringe tra le braccia e gli chiede: “Che cosa provi?” – “Ti voglio bene”, risponde il bambino. “Ecco, Dio è questo”.
È una scena tratta da Decalogo, un film sui Dieci Comandamenti diretto da un regista polacco non credente, Krzysztof Kießlowski. Vale sempre la pena di proporre atmosfere teologiche meno libresche ed accademiche. Giovanni Papini, che leggeva di tutto, disordinatamente, finì col sentirsi ‘ignorante’; come «un re che possiede un grande impero composto di carte geografiche» e non di proprietà, terreni.
Si rischia di guardare a Dio solo attraverso il diaframma di molti libri; il Verbo, però, si fece carne, non carta. Mi piace assumere una provocazione di Eliot. Chiedeva all’uomo moderno: hai costruito dimenticando la pietra angolare? Si parla tanto – aggiungeva – di relazioni giuste tra gli uomini e si omette la riflessione sulle relazioni tra uomini e Dio. Occorre guardare a Lui nel modo giusto ed attraverso il mezzo giusto. Ha detto James I. Packer che gli uomini di chiesa (ma vale per tutti) che guardano a Dio dal lato sbagliato del telescopio «Lo riducono a proporzioni da pigmeo». Non è danno fatto unicamente a Dio guardarLo dalla parte del telescopio che rimpicciolisce perché, quanti commettono l’errore, «sono destinati a diventare essi stessi dei cristiani pigmei».

L’uomo deve mirare innanzitutto all’amicizia con Dio che ci conosce come nessun altro. A Mosé, disse: «…Tu hai trovato grazia agli occhi miei, e ti conosco personalmente» (Es 33, 17); a Geremia: «Prima che io ti avessi formato nel grembo di tua madre, io ti ho conosciuto» (Ger 1, 5); Gesù non si discosta da questo linguaggio: «Io sono il buon pastore, e conosco le mie pecore […], ascoltano la mia voce, e io le conosco…» (Gv 10, 14sg., 27sg.).
Per intendere cosa si intende per ‘amicizia con Dio’, rivolgiamoci a Simone Weil. Definisce l’amicizia «il miracolo grazie al quale un essere accetta di guardare a distanza, e senza avvicinarsi, la persona che gli è necessaria come il nutrimento». È miracolo: qualcosa che è evento, più che un fatto. Miracolo che rende accettabile guardare a distanza (rispettandone l’autonomia, l’alterità…) ciò che ci è necessario perché, come non possiamo fare a meno di mangiare, così sul piano spirituale non possiamo rinunciare ad alimentarci dell’amore dell’altro/Altro! Dio ci chiama, per bocca di Cristo, ‘amici’ e ci ama lasciandoci nella nostra natura, rispettandoci proprio perché e non malgrado siamo diversi da Lui; ci vorrebbe chiudere, per infinito amore, nel Suo cuore ma, sebbene l’uomo sia il nutrimento di Dio, Egli non ci assorbe totalmente in Sé.
Anche noi, però, dobbiamo guardarLo a distanza; cioè,  non  forzandoLo, con mentalità più magico/religiosa che cristiana, ad essere come vogliamo.
Dobbiamo riconoscere ed accettare tra noi e Lui una lontananza ontologica senza che questa diventi occasione di non relazione sul piano affettivo; anzi, proprio la diversità – anche a livello antropologico - permette la relazione. Amicizia con Dio: il compito datoci; amicizia con l’uomo: il compito che Dio si dà. Barth sosteneva che essere senza Dio non è una possibilità; tale privazione, anzi, rappresenta l’impossibilità ontologica: «L’uomo – concludeva il teologo luterano – non è senza, ma è con Dio». Nell’inimicizia con Lui cosa accade? Weil ci guida anche in questo caso e dice che siamo la crocifissione di Dio: è la nostra stessa esistenza, articolata ateisticamente, a crocifiggerlo!
È sofferenza, aggiunge la filosofa, l’amore reciproco tra Dio ed uomo. Sì, ma la gioia è sempre all’orizzonte.  Miro troppo in alto? Quando era un giovane poeta, Karol Wojtyla – l’immenso Giovanni Paolo II – scrisse: Non temere. Le azioni umane hanno rive spaziose,/ non puoi costringerle a lungo dentro un alveo ristretto. L’uomo è fatto per espandersi, per gettarsi nell’Oltre tutto!
Pensare in maniera provocatoria Dio significa, alla fine, giungere ad ammettere che «l’essere umano è il problema per cui non ci sono soluzioni umane» (N. G. Dávilla). Come sporgere lo sguardo nell’Oltre, però, se – come ricordava il drammaturgo Ionesco, contemplazione ed amore sono parole nemmeno più ridicole, ma addirittura «completamente abbandonate»? Una mente laica come quella di Pier Paolo Pasolini non tralasciava di scrutare l’orizzonte, ma lo trovava desolatamente orfano di riferimenti Trascendenti:
«Perché – poetava – guardo fisso avanti a me/come se vedessi qualcosa?/Mentre non c’è nulla di nuovo/oltre l’orizzonte oscuro».
Non ci sfiora il sospetto che, forse, l’oscurità è nel nostro sguardo e quello all’orizzonte è una nostra proiezione?
Un po’ come quella donna pettegole ed ipercritica che osservava con malignità che i vetri delle finestre della dirimpettaia erano sempre sporchi, mentre ad esserlo erano i vetri dei suoi occhiali! Anche un filosofo ateo come Ernst Bloch amava – nelle cose della filosofia – affermare che denken heißt überschreiten – pensare è oltrepassare. Tradotto questo anelito all’Oltre in parole teologiche, con San Bernardo, possiamo dire:
«Sulla via di Dio non può darsi sosta, perfino l’indugio è peccato».
Se davvero pensare Dio diventa la nostra provocazione vitale, dobbiamo impegnarci ad indagare le Sue tracce in orizzontale ed in Verticale. Lo scienziato Keplero, alzando lo sguardo, poteva dire:
«Quando studio le leggi dell’Universo è come se stessi toccando Dio con le mie mani».
Lo scienziato svedese Linneo, nel XVIII secolo, fissando lo sguardo sulla natura, dopo aver accuratamente classificato animali e piante, confessava:
«Dio è passato vicino a me. Lo ho veduto nelle Sue creazioni».
Questo doppio sguardo bisogna infarcire di sensibilità teologica.   
Si tratta di iniziare, allora, questo viaggio nelle due dimensioni richiamate e farlo con serena fiducia perché il Dio che ci provoca a questa lungo itinerario è il Padre della serenità e della fiducia umana. Impressione che un autore pagano come l’imperatore filosofo Marco Aurelio abbia sentito il bisogno di annotare nei suoi Ricordi:
«Parti dunque, e il tuo cuore sia sereno e propizio. Sta pur sicuro: sereno e propizio è anche Colui che ti sta chiamando».
La condizione dell’uomo con Dio è esodale, pellegrina. L’uomo della fede è necessariamente Homo Viator! Heidegger, con altri propositi, pure leggeva la categoria del cammino come quella costitutiva dell’uomo. In Lettera sull’umanismo, infatti, scrisse:
«Restiamo, dunque, anche nei giorni che ci attendono, in cammino come viandanti diretti alla vicinanza dell’Essere».
Vero che per il filosofo tedesco l’Essere non andava confuso con Dio, ma noi potremmo seguire il suo consiglio proprio sostituendo i due termini. Resta che il cammino della fede è la più certa garanzia di star procedendo sulle strade della nostra piena umanizzazione («Più siamo divinizzati – scriveva Rahner – più siamo perfetti nella nostra umanità»).






Come dobbiamo comportarci, infine, durante il cammino? Cantare si deve l’Alleluja; non solo con la voce, ma soprattutto con la propria condotta di vita:
Venerunt dies ut cantemus Alleluja, adestote animo, fratres… cantere vox, cantet vita, cantent facta – esclama fervoroso Agostino (Sono giunti i giorni in cui dobbiamo cantare l’Alleluja; suvvia, fratelli… canti la voce, canti la vita, cantino le azioni).
Il canto può essere tale, però, se abbiamo imparato a solfeggiare lo spartito della Rivelazione completata da Dio in Cristo. Non solo occorre, come dice Paolo, rivestirsi degli stessi pensieri di Cristo, ma soprattutto imparare a cantare l’Alleluja modulando la nostra voce sulla Sua. Portiamo, dunque, a buon fine l’augurio di San Cipriano:
«Che il Figlio che abita nel fondo dei vostri cuori sia anche la nostra voce».
Il Figlio crocifisso ci ha mostrare tutto quanto è pensabile riguardo al Padre: Dio è Amore! Sant’Anselmo, con la Sua nota prova ontologica riteneva di essere giunto a dimostrare filosoficamente l’esistenza di Dio come Colui del Quale maius cogitare nequit  (non si può pensare nulla che sia più grande di Dio). Kant (e non solo lui) dimostrò – non senza ragioni teoreticamente condivisibili – che il tentativo presentava imprecisioni, incompletezza e non era certo impermeabile a critiche efficacemente distruttive.
Il fatto è che Dio ci provoca proprio a partire dallo scandalo della Crocifissione e da lì occorre coraggiosamente partire, iniziare la ricerca cantando con la voce e con la vita l’Alleluja.
La Croce «rappresenta la massima esteriorizzazione possibile ad un Dio che si dona nel suo amore; essa è l’id quod maius cogitare nequit, l’autodefinizione insuperabile di Dio stesso» (Kasper).
Al Dio che ci ha dato tracce della Sua Presenza, rendiamo grazie, per concludere queste riflessioni/provocazioni, per bocca di un poeta:
Dmitrij Merezkovskij.

O Dio mio, ti sono grato
ai miei occhi tu hai dato
vedere il mondo, il tuo tempio eterno,
la notte, le onde, e l’aurora…
E dappertutto ti avverto,
o Signore, nel silenzio della notte,
e nell’astro lontanissimo,
e nel profondo della mia anima.
Finché son vivo prego te,
e amo te, e te respiro;
morto a te confluirò
come le stelle nell’aurora mattutina.
Voglio che la mia vita
Ti sia lode infinita.
Per la mezzanotte e per l’alba,
per la vita e per la morte io ti son grato.

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