Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Pensare "oggi" La Fede

Rivestìti della corazza della fede e della carità, avendo come elmo la speranza (1Ts 5, 8)


La fede è una dimensione strutturale della persona? A parte l’aspetto religioso della domanda è indiscutibile che, in generale, nessuno vive senza un sentimento di fiducia base verso gli altri, verso il mondo: chi conosce, ad esempio, come è fatto nei minimi particolari un aereo? Chi, prima di salire su uno di essi, ha un numero sufficiente di informazioni sul pilota per dire, senza la benché minima esitazione, “mi sento completamente al sicuro?”. Sul piano della fede cristiana, poi, molto avviene per mezzo dell’affidamento: come recita il titolo di un libro di Carlo Carretto, un cristiano – nei momenti più bui dell’esistenza – esclama: Padre mio, mi abbandono a Te [1].  Nel nostro tempo, però, si può parlare di “fede” nei termini ritenuti validi dalle epoche precedenti? “Credere in Dio” oggi cosa implica? In quali “contesti” si articola la proposta cristiana? Di certo abbiamo l’immediata percezione che, credere in Dio, è una responsabilità troppo grande per non venir pensata come il nostro tempo esige: è responsabilità poiché – come evoca l’etimologia del termine – in quanto esseri storici, siamo tenuti a sviluppare l’abilità di rispondere alle istanze di “senso” che vengono dai contesti abitati. Intendono mostrare, con poche pennellate, che la fede nel nostro tempo è molto più che un’inattesa visitatrice indesiderabile. La voce dei cristiani, a mio avviso, può arricchire di “accenti Trascendenti” una realtà sempre più infelice di esaurirsi interame nte nel contingente, nell’immanenza. L’uomo è più di ciò che è: ecco la essenziale, preziosa provocazione all’oggi e nell’oggi della “proposta cristiana”.

Non si deve credere in Dio. Ma si può credere il lui? Più precisamente: come uomini appartenenti all’epoca […] critica nei confronti della religione, ci si può assumere la responsabilità di credere in Dio?
(Hans Küng)

1.La teologia di Italo Mancini: una lezione sempre attuale.

L’esergo pone una questione fondamentale per il nostro tempo: non si tratta più di “dover credere” in Dio, bensì, in gioco, c’è una “possibilità”! Le certezze, tutte, vengono revocate in dubbio. Siamo, anche per questa ragione, in un’epoca fortemente critica nei riguardi della religione. In un clima simile, la domanda fondamentale è questa: ci possiamo assumere la responsabilità di credere in Dio? Siamo lontani dall’intendere la fede come un porto di pace, un luogo refrattario ad inquietudini, dubbi…  Il Novecento teologico, filosofico e letterario, infatti, è ricco di voci che raccontano di un rapporto difficile con Dio e con la dimensione della fede; ciò, per molti versi, è un bene. Italo Mancini, diceva: la mia credenza in Dio è sempre un po’ atea [2]. Il punto è questo: dovere o poter credere in quale Dio? Ci sono modi di annunciarLo che hanno fatto danni enormi! Mancini, teologo, sacerdote e filosofo, ammette che un po’ di ateismo è salutare; essere atei, in questo caso, significa fare a meno di quegli aspetti di Dio che ne sfigurano il Volto. Il vero cristiano combatte inesausto ad extra, ma soprattutto in se stesso, la dura battaglia per abradere la patina demoniaca dall’identità del Dio ebraico – cristiano. In una lettera inviata alla cugina Aleksandra, lo scrittore russo Tolstoj confessava che “fede” e “miscredenza” coabitavano in lui come un cane e un gatto nello sgabuzzino. L’uomo di fede sa di vivere in maniera paradossale, di poter allestire solo una teologia dei “doppi pensieri”; credente ed ateo in noi convivono perché, ammettiamolo, contestiamo Dio, eppure fa male non poco il sentircene lontani. Scrisse Blaise Pascal: Se l’uomo è fatto per Dio, perché così contrario a Dio; e se non è fatto per Dio, perché così infelice senza Dio? Né con te, né senza te – pare dica l’uomo al Trascendente! Da quando, però, l’esclamazione “Dio è morto” ricorre con impressionante frequenza nei libri di teologi e filosofi, il mondo si è maggiormente oscurato [3]. I termini in gioco sono due: “Dio” e “morte”; elidendone uno, il primo, che resta? Un intellettuale francese del Novecento, perciò, scrisse: «Dio è morto. Ciò significa che la sovranità passa alla morte» [4].  Come tutti gli altri concetti teologici, anche questo, però andrebbe analizzato con devota attenzione. Il deposito della fede, viene in chiaro nella teologia contemporanea, non è un blocco compatto che fornisce risposte certe in ogni caso; piuttosto, anche le cose della fede, impongono una non lieve fatica ermeneutica: «Il dato – rilevava Italo Mancini – non è mai totalmente dato, ma va interpretato» [5]. I sapienti ebrei dicevano che una parola ha detto Dio e due ne abbiamo udite! La fede ha bisogno delle provocazioni ermeneutiche, delle osservazioni polemiche mosse dalla filosofia che ha, per Mancini, riguardo al teologico, «il compito di renderci esigenti» [6].  Per assumerci la responsabilità di credere in Dio occorre essere esigenti verso il teologico e ciò grazie ad una fede ‘anche’ pensata. La categoria del ‘doppio’ (assai inquietante), rimane iperattiva; infatti, ci accorgiamo di stare in tensione tra le pretese della ragione e quelle della fede. Per Mancini, nello spazio tra le due, si innesta la preghiera: una parola senza pretese, che si affida all’Altro pienamente consapevole della povertà e fragilità dell’esserci. Il nostro autore definisce la preghiera «lo spartiacque tra il massimo filosofico del parlare di Dio, il portento della ragione, e il minimo teologico del parlare con Dio, che solo il dono dall’alto può assicurare e legittimare» [7]. Dobbiamo lasciarci provocare, per diventare esigenti riguardo al teologico, dal portento della ragione che sfida i limiti del “pensiero” e del “linguaggio” per tentare di “parlare di Dio”. Il tentativo, in questo caso, oltre a renderci esigenti, costituisce anche il massimo dello sforzo consentitoci. Il minimo teologico, la “preghiera”, invece, consente di “parlare con Dio”: dono della Rivelazione, di una decisione divina e non uno sforzo interamente compiuto nei domini della ragione e del nostro linguaggio.
Parafrasando Wittgenstein: ciò di cui non è dato parlare, va pregato! Nel nostro tempo, aver fede, non può prescindere né dallo sforzo filosofico, né dal minimo teologico della preghiera. Va messo in discussione, in ogni caso, quello che Mancini definiva il cristianesimo della presenza il quale nasce dal risentimento dovuto alla paura di doversi muovere tra una serie di minacce al proprio credo. Cosa accade? O «ci si ritira in spazi propri ben gestiti», oppure, ci si rifiuta di entrare in “comunione” con altri [8]. Vivere la fede in questo modo, conduce i cristiani a ritagliarsi «dei piccoli golfi» rinunciando a «navigare al largo, negli spazi comuni» [9]. Si può credere responsabilmente in Dio se non si è esigenti, per mezzo del pensiero filosofico, verso la propria fede? Fare incontrare in maniera nuziale e non tristemente polemica il linguaggio teologico e quello filosofico apre le porte ad una concreta possibilità di realizzare un progetto ecumenico. La filosofia, in fondo, «parla con la lingua di chi crede in una religione, ma altrettanto sa fare benissimo con la lingua di chi non aderisce a nessuna fede. È non solo interreligiosa ma anche capace di mostrare la possibilità che atei e credenti comunichino ed agiscano all’unisono, senza sentire tra loro nessuna differenza escludente, un po’ come se gli uni parlassero ad esempio in italiano e gli altri in francese, comprendendosi reciprocamente, o meglio ancora come se essi parlassero due dialetti della stessa regione» [10].
Si può essere responsabilmente cristiani se non si ha il coraggio di riconoscere che la nostra credenza deve essere un po’ atea? La fede merita, diceva ancora Mancini, una teologia esodale che valga «come uscita dal Dio zeusico e faraonico tanto vicino al trono dei potenti che fonda, per incontrare il Dio di Gesù, quello che […] ha la sua manifestazione nello splendore tenebroso della croce» [11]. Occorre una teologia dei doppi pensieri e dell’ossimoro (l’accostamento splendore/tenebroso); l’et et e non l’aut – aut. Il paradosso e non la logica! Proporre all’uomo del nostro tempo di incontrare Dio in Gesù, il Dio che si manifesta nello splendore tenebroso della croce, non è una astuta mossa di teologi smaliziati; si tratta di accostare un Dio che si abbassa ad un uomo che si sente un povero cristo destinato alle croci quotidiane e bisognoso, perciò, almeno di un minimo di senso. Mancini – riflettendo su alcune pagine di Bonhoeffer – concludeva: «Può sembrare strano […] il fatto di postulare per l’uomo forte e adulto un Dio crocifisso e impotente. Già, ma è lui che si è rivelato così […]. Se il Dio onnipotente atterrisce oppure crea l’ubriacatura del dominio, il Dio impotente attrae in un destino di partecipazione» [12]. La modernità vuole un “uomo forte, adulto”: come pretendere di affermare ‘devi credere in Dio’? Si può credere in Lui se si ha piena, totale fiducia in se stessi ed in mezzi soltanto umani, troppo umani? Chi si accolla la responsabilità di credere in Dio in un tempo in cui “fede” e “fiducia” paiono esclusivo appannaggio dei saperi mondani, tecnologici, informatici?
Eppure, un Dio crocifisso e impotente non ce lo siamo inventati: può sembrare strano che entri nelle faccende dell’uomo adulto, ma – come giustamente scrive Mancini – è lui che si è rivelato così! Il Trascendente vuole essere impotente, ma non per vittimismo o masochismo; lo scopo, piuttosto, è quello di attrarre l’uomo in un destino di partecipazione. Che si venga chiamati alla partecipazione, comunione, condivisione è fondamentale visto che, come afferma Gilles Lipovetsky, siamo nell’epoca dell’aprés devoir, del “dopo dovere”: non si danno più obblighi assoluti. Il soggetto tende sempre più a voler essere ‘per se stesso’ evitando, fatta eccezione per interessi economici ed esibizionismo, di affinare la propria dimensione pubblica [13].  L’uomo pubblico declina sempre più perché sorga, più luminoso che mai, l’astro di una società intimista. Sarebbe, per questi motivi, assai importante che si donasse al nostro tempo una teologia esodale, dei doppi pensieri capace di mostrare come il credente non è meno inquieto di chi cerca, in atmosfera laicista più che laica, il senso; l’ateo che è fuori di noi non è assente in noi: ecco come, mostrando di essere “crocifissi anche noi ai nostri dubbi”, chiamiamo chi è fuori dalle provocazioni della fede cristiana ad entrare (per dirla con Mancini) in un destino di partecipazione. Come Dio, tocca abbassarci. Verso chi?  In direzione dei fratelli che più di noi hanno difficoltà a vincere l’ateo che è in loro; sapendo cosa voglia dire averlo inquilino in casa propria, il vero cristiano condivide le pungenti perplessità dei non cristiani. Se la “morte di Dio”, però, lascia sopravvivere solo l’elemento “morte”, per diluire la durezza di questo disperante evento, si riporta tutto ad un asettico simbolismo, ad una immacolata metafora:  «Nel tempo della morte di Dio l’incarnazione si risolve/dissolve in simbolo, il cristianesimo in immenso materiale metaforico, la fede in estetica» [14].
Abbiamo l’obbligo di mostrare all’uomo contemporaneo che si “deve” e si “può” credere in Dio perché Lo testimoniamo, siamo responsabili del e nell’annuncio del Vangelo! Testimoniamo una fede viva, capace di accogliere il dubbio e di stare tra il ed il no. Passando dal ‘sacro’ al ‘metafisico’, si approda ad una teologia del paradosso, dell’ossimoro e dei doppi pensieri:  «Conquistato inizialmente dall’esperienza del sacro, poi metafisico, in seguito affascinato dalla dialettica, passato poi attraverso il momento ermeneutico, adesso sono diventato scolaro di Dostoevskij, il quale presenta il sacro in antinomie quasi indistruttibili […] È ciò che chiamo la teologia, o la logica, dei “doppi pensieri”, con un’espressione dello stesso Dostoevskij.
Ne L’idiota vediamo un gruppo di giovani raccolti intorno al personaggio del principe Myskin, che rappresenta per essi ciò che Cristo era per gli apostoli. Quando uno di essi si confessa presso di lui, gli riversa l’animo addosso, il principe Miskin gli dice: “Ora che hai detto l’ultima parola, non ce n’è forse ancora una dietro questa?” E in verità c’era; il giovane gli voleva chiedere dei denari. Forse l’uomo non è mai trasparente e totalmente semplice, la logica dei doppi pensieri lo porta anche alla doppiezza. Però è certo che di fronte all’elemento religioso sussistono […] elementi contraddittori […] il credente è in qualche modo stretto tra l’affermare e il negare […]. Far coesistere questo sì e questo no è il dramma mio, come credente» [15].
2.Perdita del ‘sacro’ e ‘trionfo del procedurale’

Se si guarda […]alla radice della vita cristiana, essa è sempre la fede (H. Schlier)

È nella ‘prassi’, nel ‘mondo concreto della vita’ che ci giochiamo la possibilità di assumerci la responsabilità di credere in Dio. Pascal diceva che tra noi da una parte e l’inferno o il cielo dall’altra, c’è soltanto la vita, che è quanto di più fragile esista. È il solo diaframma tra ‘noi’ e la nostra ‘perdizione’ o ‘ salvezza’. Meritano la nostra attenzione le parole rubricate al n. 11 del Decreto conciliare riguardo al rinnovamento della vita religiosa Perfectae Caritatis. Nella Chiesa c’è un numero di persone che sanno darsi a Dio «nella perfetta carità… e tuttavia vivere nel secolo… per essere in grado di esercitare efficacemente e dovunque il loro specifico apostolato nella vita secolare, come se appartenessero alla vita secolare». I religiosi (i cristiani laici, ovvio, non esclusi) hanno nella “vita secolare” il luogo autentico del loro specifico apostolato. Un mondo secolare che, tuttavia, molto fa per respingere le provocazioni cristiane, i percorsi etici, esistenziali che, nutrita della Parola, la teologia mostra come possibili vie d’accesso al Senso. C’è, però, da rilevare una dolorosa estraneità, che getta ombre sempre più cupe, tra “provocazioni teologiche” ed istanze del mondo contemporaneo. Raimon Panikkar è costretto a fare una denuncia: «Che la teologia sia straniera nel mondo tecnico […] è una verità innegabile […]. Quando […] un teologo dice “religione” (non fermandosi alla parola, ma intendendone il significato profondo), molto probabilmente un uomo educato nell’ambito della tecnica capirà: superstizione» [16].  È un guasto da attribuire unicamente alla società? Non sarebbe il caso, per noi che ci professiamo cristiani, fare autocritica? Siamo testimoni di un credo vivo, interessante e capace di parlare all’uomo contemporaneo? Lo stesso Panikkar è convinto di dover precisare cosa significhi religione: essa, spiega, «non può essere ridotta a un’organizzazione che richiede una struttura definita, a un’istituzione religiosa organizzata. È un organismo vivo» [17].  Il problema di fondo, la questione richiede una riflessione più ampia, è che, innanzitutto, nelle nostre società il sacro ha lasciato il posto ad altro (spesso, a caricature del sacro o a orrende deformazioni dello stesso [18]): il consenso intorno alla verità non è più generato dall’autorità del ‘sacro’, ma è frutto di una “attività procedurale”. Sono gli accordi che gli uomini raggiungono nella comunità che liberamente e laicamente dibatte a decidere, di volta in volta, cosa deve essere ‘verità’: «L’autorità del sacro viene sostituita dall’autorità di un consenso di volta in volta ritenuto fondato. Ciò significa una liberazione dell’agire comunicativo da contesti normativi tutelati dal sacro […]. L’aura dell’incanto e della paura, che emanava dal sacrale, la forza soggiogante del sacro viene sublimata e al tempo stesso quotidianizzata nella forza vincolante di pretese criticabili di validità» [19].  In un clima culturale, politico, nel quale il sacro non è più una forza soggiogante, sono le procedure discorsive, le pretese criticabili di validità, a stabilire le norme. Il consenso intorno alla verità viene rinegoziato, di volta in volta, per mezzo di una illimitata comunità di dialogo. L’agire diviene prevalentemente comunicativo! Uscire dalle strette, soffocanti tutele del sacro non è del tutto un male; tuttavia, alla comunità illimitata di dialogo devono appartenere, appunto, tutti e liberamente. Chiedo: si può solidarizzare, in questo agire comunicativo, con gli irragionevoli per problemi di salute mentale, con gli analfabeti? Tutti sono in grado di partecipare ai dibattiti pubblici? La questione, per adesso, la lascio nel vestibolo dell’aporia. Mi interessa, piuttosto, che Habermas, dialogando con l’allora teologo Ratzinger (ora Benedetto XVI), ammetta che nei discorsi religiosi insiste un potenziale di verità che merita accoglimento nelle discussioni pubbliche: «I cittadini secolarizzati non possono […] disconoscere un potenziale di verità in linea di principio alle concezioni del mondo religiose, né contestare ai propri concittadini credenti il diritto di contribuire alle discussioni pubbliche in lingua religiosa. Una cultura politica liberale può persino richiedere ai cittadini secolarizzati di partecipare allo sforzo di traduzione di materiali significativi dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti» [20]. Ci viene riconosciuto, in quanto “concittadini credenti”, il diritto di parlare la lingua religiosa e, collaborati da “cittadini secolarizzati”, possiamo ricevere l’invito a tradurre i materiali significativi da essa in una lingua nota alla maggioranza.  Si noti: meritano traduzione in lingua secolare unicamente i “materiali significativi”. Significativi per chi? Per la maggioranza dei cittadini!  Le concezioni del mondo religiose – per Habermas – hanno un potenziale di verità. Una verità, però, che deve giovare a tutti. Il pensiero cristiano non è tenuto a riconoscere che ci siano, in questioni di fede, materiali significativi e materiali insignificanti. La proposta cristiana, ma il filosofo tedesco parla generalmente di religione, è altra cosa: non la si accetta a brandelli. Si può concordare sullo sforzo congiunto di laici e credenti a tradurre dalla lingua religiosa a una lingua accessibile a tutti; sì, ma non soltanto quei materiali che si ritiene possano e debbano evitare confronti (non scontri). La proposta cristiana, se si lascia diluire solo in materiali significativi per tutti, perde il potenziale di verità profetica, sovversiva dello status quo.  Il cristiano, diceva Primo Mazzolari, è un uomo di pace, non un uomo in pace! Non può essere ‘in’ pace se il mondo è preda dell’ingiustizia o di qualunque altra forza che minacci l’integrità, la sopravvivenza dell’uomo. Risolvere tutto in un lavoro di traduzione, in sforzo ermeneutico, non va! Il potenziale di verità del cristianesimo non si può saccheggiarlo per prendere i gioielli che più ci piacciono: è un tesoro da conquistare per intero. Habermas concede al “concittadino credente” di parlare la lingua religiosa: non è l’uomo di fede che viene interpellato, ma si sta solo concedendo un diritto (politico) ad un cittadino!  Il Cristianesimo, a differenza della religione, non è un mezzo per costruire consenso politico ed ideologico; non è un grappolo di verità condivisibili in maniera politicamente corretta; hanno ragione, piuttosto, alcuni teologi: l’evento Cristo, l’Incarnazione, la Risurrezione costituiscono una memoria sovversiva. La fede cristiana, intesa come organismo vivo (Panikkar) e non come generante una organizzazione meramente istituzionale, ribalta, sovverte le usuali categorie concettuali.
È verità profetica:  legge nel presente le tracce e le future intenzioni di Dio! Il potenziale di verità cristiano entra nel dibattito della comunità illimitata di dialogo, ma senza aver paura di mostrare che certe categorie linguistico – concettuali imperanti vengono messe, con fondate ragioni, criticamente in discussione dalla Parola. Tradurre la Parola in parole comprensibili ai “concittadini non credenti” non autorizza a tradirne il contenuto. Quando i cristiani si sottraggono all’invito di attuare una docilità ermeneutica, un abbassamento delle pretese del loro credo, un adeguamento del potere della Parola all’egemonia dei poteri mondani, si sentono dire: allora, se vuoi questo, ritirati nella tua interiorità e credi come ti pare, in chi ti pare! In quanto cittadino, dunque, sei tenuto a lasciare agli altri la libertà di pensare e parlare come credono. Nessuno dice che la fede cristiana va imposta; almeno, però, lasciateci, con forza e sincerità, annunciare al mondo che, come dice Paolo, conformarsi a Cristo, avere i Suoi stessi pensieri, può essere una valida proposta soteriologica.
Paradosso: in nome della libertà, per lasciare spazio ad una verità procedurale e non più sostanziale, si chiede ai cristiani di non esprimere liberamente, pubblicamente il proprio credo! Esporre non è imporre. Un mucchio di dogmi, una serie di norme del Magistero si potrebbe tentare di farle passare per universalmente valide, ma non esistono trucchi, imposizioni, laddove si vuole suscitare nei cuori una fede cristiana autentica. Il sociologo José Casanova, ironico, scrive:  «Nel nome della libertà, dell’autonomia individuale, della tolleranza e del pluralismo culturale, ai credenti – cristiani, ebrei e musulmani – è richiesto di mantenere le loro convinzioni, identità e norme religiose “private” in modo da non disturbare il progetto di un’Europa moderna, secolare, illuminata» [21].  In realtà, laddove ce ne fosse bisogno, siamo obbligati a disturbare i progetti politici. Pluralismo culturale, libertà, tolleranza non possono essere valori laddove ne venga richiesto ad uno solo dei partecipanti al dibattito pubblico il rispetto; cristiani, ebrei, musulmani, portano una cultura, una storia, una memoria da condividere. Se questi patrimoni inquietano, causano l’insonnia di alcuni allestitori dei “paradisi in terra”, poco importa: la “memoria cristiana” è volta al futuro e nella protologia legge l’escatologia. Il fine dell’uomo è nell’inizio: lui passeggiava nel giardino di Dio e non si può pensare che ciò sia stato possibile perché si finisca col camminare su di un sentiero lastricato di morti, di ingiustizie, di bruttezza. L’uomo è pienamente realizzato quando in ogni luogo e tempo è come era nelle intenzioni di Dio.

3.L’ateismo: una ‘salutare’ provocazione

(Cristo): Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me (Gv 14, 1)

Un filosofo ebreo ha definito una gloria grande per Dio aver creato un essere che possa divenire ateo: «un essere che senza essere stato causa sui ha lo sguardo e la parola indipendenti ed è signore di se stesso» [22]. L’uomo è ateo perché Dio l’ha creato libero; se la relazione con Lui è fondata sull’amore, non può essere che la creatura sia necessitata a glorificare il Creatore. E poi: l’ateo quale Dio rinnega? Sopra, Italo Mancini invitava ad abbandonare il Dio zeusico e faraonico tanto vicino al trono dei potenti che fonda.
Una simile caricatura del Trascendente, in non pochi casi, marchia a fuoco anche lo spirito del cristiano. Dovremmo operare seguendo una ecologia  – teologica che purifichi il nostro sguardo sul divino. Al Concilio Vaticano II, il patriarca Massimo IV Zaigh, disse: «In quel Dio in cui non vogliono credere gli atei, non posso credere neanche io». È esattamente così che stanno le cose: il dio che gli atei con fondate ragioni disconoscono è lo stesso che noi non dovremmo annunciare. Che profonda parola, per la spiritualità cristiana, è discernimento! Il teologo non può parlare di fede senza prendere sul serio le “giuste motivazioni” sottese ad un ateismo pensante che è ben altra cosa da posizioni di rifiuto del Trascendente sorte in nome di interessi ideologici o per attrarre l’attenzione dell’opinione pubblica! Il teologo – per Schillebeeckx – finisce col parlare nel deserto se si volge alle fonti della fede omettendo di muovere dal ‘contesto’ di oggi. Ha detto un filosofo italiano:  «Quando muore un grande Dio, accadono nell’uomo mutamenti profondi» [23]. La “morte di Dio” annunciata nella modernità ha mutato profondamente l’antropologia: l’uomo, sganciatosi dalla convinzione di essere ad immagine per la somiglianza di Dio, diviene quello che i filosofi, gli psicologi, gli ideologi gli raccontano! La morte di Dio non è la possibilità per l’uomo di prenderne il posto:  «La morte di Dio non è l’uomo che diventa Dio, riappropriandosi dell’assoluta disposizione cosciente di se stesso che Dio gli aveva prestato; è al contrario l’uomo espressamente obbligato a rinunciare al sogno della propria divinità. Quando gli dèi si eclissano, allora si svela che gli uomini non sono dèi» [24]. L’uomo espressamente obbligato a rinunciare al sogno della propria divinità è privo di riferimento a Dio (a – theos). Si deve stare molto attenti, però, a non definire il cristianesimo, la fede solo in contrapposizione all’ateismo.  Bisogna evitare di opporsi frettolosamente ed emotivamente agli atei, ma occorre attuare una apologia capace di costruire con strumenti nuziali (René Char). Fare “apologia” in vista di una relazione, comunione, non per motivare una separazione: «una apologetica intenta unicamente a combattere il nemico risulta tanto più asmatica quanto più essa si limita a respingere le opinioni degli “avversari” e quanto meno cerca di giustificare in maniera positiva il punto di vista della fede cristiana» [25]. Una apologia esclusivamente “contro”, cioè, si affanna, è asmatica, perché rincorre, con intenzioni bellicose, il “nemico”. Waldenfels, aggiunge: «la vera apologetica non lavora in primo luogo con gli strumenti della polemica, cioè accusando e incolpando, ma cerca di spiegare, di stabilire un clima di reciproca comprensione sì da convincere della verità del cristianesimo» [26]. Il teologo impara dall’ateo che occorre “pensare la fede” in “contesti polemici” nei quali l’altro ha uno spessore irriducibile, nella sua inquietante diversità, con espedienti teoretici o con imposizioni dogmatiche; impara dall’ateo che dare ragioni della speranza che è in lui implica una visione particolare del compito che spetta alla Teologia Fondamentale: essa «è una scienza teologica che viene coltivata allo scopo di dimostrare che il fondamento della fede cristiana e della sua teologia è un fondamento e un principio salvifico e vivificante, allo scopo di renderlo plausibile come tale nel nostro tempo e di farlo diventare rilevante per i contemporanei. Ma tale rilevanza può essere posta in luce solo se la teologia cerca di rendersi conto del proprio contesto storico. Ciò significa […]: la teologia deve avere il coraggio di lasciare che l’altro sia anzitutto se stesso, nella sua estraneità e alterità» [27]. La teologia deve lasciare che l’ateo esprima ciò che è, che mostri proprio quanto costituisce la sua alterità! L’uomo di fede si apre al Trascendente, ma non è autentica l’apertura se si chiude, nell’immanente, a quanto opera, pensa, vive in “contesti” opposti al suo. Ritorno all’affermazione di Severino sopra rubricata e meritevole, ora, di una aggiunta. Diceva che la morte di un grande Dio causa mutamenti profondi nell’uomo; sì, ma mutano anche i contesti vitali e, a loro volta, generano in noi modi diversi di percepire il mistero, il divino. Forme di vita atea sono, oltre che scelte operate da soggetti, anche conseguenze di ambienti vitali messi fortemente in polemica con tutto quanto inclina verso la possibilità di avere esperienze religiose.
Il teologo, per questo, deve vivere nei contesti polemizzanti con la fede per comprenderli fino in fondo, poiché non si supera se non ciò che ben si attraversa. Cosa sto dicendo? Credo che possa avere un’alta valenza esplicativa l’esperienza riportata da uno dei più noti esponenti della “Teologia della morte di Dio”:
«L’altra sera uscii sul retro del cortile con uno dei miei bambini, che doveva identificare alcune costellazioni per il suo compito di scienze. Quando io ero bambino e me ne stavo a guardare il cielo stellato, ricordo che ero pieno di tutti quei sentimenti che si supponeva doveste avere: paura, senso della mia piccolezza, dipendenza. Ma mio figlio è un perfetto cittadino del mondo moderno, e dopo aver identificato le costellazioni richieste mi chiese: “Quali sono le stelle su cui atterreremo, papà?”. Era più interessato a ciò che avrebbe potuto fare lassù, che a quanto avrebbe potuto sentire quaggiù. Era diventato un uomo tecnologico, e questo ha il suo valore dal punto di vista religioso. Ci sono altre esperienze religiose tradizionali di cui noi cominciamo a perdere il senso? È in questo tipo di mondo che vive la morte di Dio» [28].

4.Uno sguardo ai “contesti polemici” con la fede

Ignorare o respingere la conoscenza fondata su una fede che percepisce ed ascolta equivale a togliere all’uomo le possibilità più elevate […]ad impedirgli il compimento supremo della sua esistenzae personalità, privarlo della possibilità di attendere una risposta articolata al problema dell’origine e del fine della sua esistenza (H. Fries)

Una delle conseguenze della modernità che la teologia, nel pensare la fede oggi, deve accogliere è di natura teoretica. In quali contesti filosofici, d’altra parte, la fede oggi viene discussa e discute? La “morte di Dio”, intesa in ambiente filosofico come caduta di ogni assoluto metafisico e di ogni configurazione di un retromondo (Nietzsche/Heidegger), impone ai teologi di motivare le ragioni della speranza cristiana a partire dal fatto che il pensiero moderno da contemplativo – sottolinea Jürgen Moltmann – diviene operativo. La ragione, a sua volta, da percettiva si muta in produttiva. Più che interessarsi alla essenza permanente della realtà, dunque, si dedica alla conoscenza delle cose ponendosi il fine di trasformarle [29]. Il pensiero, in sintesi, rileva Moltmann, è pragmatico. Dire realtà è dire attività! A questo punto, il quadro è completo: «Non si verificano le idee stabilendo un confronto con le idee eterne, ma mediante la loro prassi e i loro risultati» [30]. Un simile “contesto filosofico” diviene assai polemico con una teologia che voglia sostenere le “ragioni della fede” poggiando su assiomi metafisici. Altre strade vanno esplorate. Un pensatore francese ha scritto che, dopo l’abolizione di ogni metafisica, resta soltanto una verità ed è quella che risiede nella longevità delle cose [31]. Le nostre bocche si sentono impazzite a nominare l’eternità e, per questo, sono più a loro agio quando parlano di longevità: si è, così, più credibili! D’altro canto, come pensare la fede eleggendo a guida “principi metafisici” se la precarietà, se l’antropologia della vulnerabillità (Stanghellini) sono i motivi dominanti di ogni riflessione attenta al nostro tempo? [32].

4a. Crisi del soggetto

Il “soggetto” – che nella teologia novecentesca, soprattutto con Rahner, Alfaro, Pannenberg è tornano prepotentemente sulla scena – ormai, preso – come si esprime Garaudy – nella grande constestazione che investe il mondo, si sente inadeguato a portare il peso dell’esistenza, il carico imposto dal mondo della complessità. Viviamo talmente a disagio nel mondo odierno che, chiudendo un suo saggio, un autore francese contemporaneo, chiese: il XX secolo è stato inuile? [33]. Si tratta di animare una soggettività capace ancora di sognare in grande, ma anche abbastanza umile da eleggere una guida della quale davvero fidarsi. Dio? Resta fermo che, fin quando il soggetto è in crisi e disancorato da qualsiasi riferimento saldo, attendibile sbanda, come la gioventà persa in amori inconcludenti della quale parla il poeta Umberto Saba, a povere mete. Blanchot, nel poderoso saggio L’infinito intrattenimento, dice suggestivamente che la “soggettività” è muta, inaccessibile ad un linguaggio capace di esprimerla rigorosamente.

4b. Dalla novità escatologica del cristianesimo alla retorica dell’innovazione

La fede, dunque, deve mantenersi viva ed accendersi con più urgenza e forza proprio nel soggetto in crisi! Un punto critico non aggirabile da una seria teologia. Si mira – come dicevamo sopra – ad assicurare longevità alle cose e sempre meno si ritiene sensato pronunciare il termine eternità.  Il rinnovamento escatologico di tutte le cose che l’uomo di fede attendeva si appiattisce, ormai, sull’attesa spasmodica dell’ultima novità (specialmente tecnologico – informatica) dietro la quale correre rimettendoci, in fondo, soltanto del denaro. Nella Bibbia Dio promette: farò nuove tutte le cose! Chi, però, ha la pazienza sufficiente per attendere la realizzazione escatologica di questa promessa? Più seducente appare, perciò, la prospettiva di dare credito alle promesse delle innovazioni tecnico – scientifico – informatiche.  Un intellettuale parla di retorica dell’innovazione; si tratta, cioè, di «quella concezione in cui l’innovazione è vista come un elemento positivo indiscusso […] un fatto da promuovere tout court» [34].  L’uomo interamente sequestrato dalle seduzioni di una simile retorica diviene un soggetto sfilacciato, smembrato. In che senso? La ricchezza di aggeggi per la comunicazione che ci si ritrova tra le mani impone un sovraccarico di fatica: si deve stare, necessariamente, dietro a telefonini, telefoni fissi, computers…  È quella che definirei l’ossessione schiavizzante del multitasking:  «quali sono le conseguenze, per le nostre facoltà cerebrali e neurologiche, del cosiddetto multitasking, ovvero dello spezzettamento dell’attenzione e della concentrazione che è caratteristico dell’interazione con le moderne tecnologie (un occhio al computer e uno al cellulare mentre magari si parla a un telefono fisso)? Secondo una recente ricerca, l’abitudine delle persone al multitasking configura ormai una “giornata digitale” della durata di 36, anziché di 24 ore» [35].  Si corre ormai unicamente verso la rete e nella rete.  Si è nel flusso e, dunque, come si può recuperare quella necessaria, irrinunciabile quota di attenzione, silenzio che il pensare la fede ed il pensare suscitato dalla fede richiedono? In Giappone è nato il fenomeno degli hikikomori: nella maggior parte dei casi, si tratta di adolescenti che finanche per anni rifiutano le relazioni col mondo esterno perché interamente assorbiti nel mondo virtuale. Sono sorte addirittura delle cliniche specializzate per curare le patologie derivate da una pressocché totale immersione in Internet. Quando penso che molti inneggiano alla cultura secolare, tecnico – scientifica perché ci avrebbe liberato dall’oppressione Trascendente, non so se ridere o piangere fermandomi a considerare in cambio di quali privilegi abbiamo abbandonato gli antichi ancoraggi (culturali, metafisico – teologici).


4c. Il degrado dell’esperienza e la fine della capacità di narrare

Il fatto è che non riusciamo più a distinguere quali esperienze siano da farsi e quali è meglio non acquisire. Se, d’altra parte, i riferimenti metafisici e teologici (etici) sono andati in frantumi, non resta che nuotare liberamente, ma anche privi di senso e direzione, nel profluvio di proposte della rete e delle mode imperanti nelle nostre società. Il sociologo Gerhard Schulze, assieme ad altri autorevoli studiosi, parla della Erlebnis – gesellschaft espressione tedesca che in italiano suona così: società dell’esperienza vissuta. Un teologo, al quale devo il riferimento, spiega: con la smania di vivere esperienze sempre nuove, l’esperienza «diventa spesso un fine in sé, perfino nella forma di happening religiosi» [36]. Se ogni esperienza è un fine in sé, anche l’esperienza religiosa, della fede perdono, nell’omologante Erlebnis – gesellschaft, le proprie caratteristiche; divenute due tra le tante opzioni, le esperienze religiose e di fede vengono vissute fino a quanto eccitano la curiosità e costituiscono un piacevole diversivo. Il problema si aggrava pensando che, non solo facciamo esperienze in un modo discutibile e, oserei, distruttivo, ma abbiamo perso anche la capacità di narrare in maniera corretta quanto esperiamo! È un fatto:  «Messa di fronte alle più grandi meraviglie della terra […] la schiacciante maggioranza dell’umanità si rifiuta oggi di farne esperienza: preferisce che, a farne l’esperienza, sia la macchina fotografica» [37].  Si apre una spinosa questione: quella che gli studiosi denominano “delega narrativa”: si “delega”, appunto, agli oggetti tecnologici (fotocamere, videocamere…) la custodia di quanto abbiamo visto, osservato. Saranno le immagini, le voci ‘salvate’ su supporti informatici a raccontare, al posto nostro, quando le tireremo fuori, ciò che abbiamo vissuto. Memoria, interiorità, dunque, restano pericolosamente disoccupate. Cosa c’entra la fede?  L’esperienza della fede è sì fondata anche sulla memoria di altri, sulla rammemorazione di testi, ma diviene veramente fede solo quella che, poi, trasforma la memoria del passato in memoria del futuro: quello che è stato apre opportunità di comprensione riguardo al futuro; se la narrazione, la testimonianza delle quali facciamo memoria non diventano un fatto personale, vissuto in prima persona, diventano inutili. Le memorie esterne di computers, telefoni cellulari, fotocamere, videocamere, invece, congelano il vissuto e, solo se verranno riprese e non cancellate, potranno narrarci le esperienza fatte. Abbiamo delegato la narrazione delle nostre esperienze a congegni freddi e l’interiorità non ne risulta meno ghiacciata.

Avvolti nella retorica delle innovazioni seducenti, paghi di una intelligenza connettiva (quello che conta è restare ininterrot tamente connessi e rintracciabili), assicuratici di aver ‘salvato’(!) le nostre esperienze su supporti informatici, cosa volere di più? Storditi, cloroformizzati da tanto lucore, ci interessa davvero ancora discutere intorno alla questione della Salvezza, della Redenzione? Stare bene in salute, assicurarsi un certo equilibiro mentale può bastare? I teologi, senza scadere nel terrorismo psicologico, hanno il dovere di richiamare il fondo problematico, inquietante dell’esistenza proprio per non lasciarci istupidire da promesse utili solo ai padroni del mercato, dell’economia globale. Scriveva un teologo svizzero: «L’uomo non è al sicuro nella propria esistenza […] non è, per sua essenza, garantito […]. La minaccia è una condizione di fondo della nostra esistenza» [38]. Non a caso, io stesso ho dedicato tre volumetti a quella che ho definito antropologia del rischio! La fede cristiana ha il merito, riguardo alla verità dell’uomo, di essere realista senza cedere ad un pessimismo immobilizzante. Nelle pagine dei Vangeli non agiscono supereroi e si mostra senza orpelli la quotidianità. Il guaio è che oggi non è apprezzato chi non teme di mostrare l’uomo con tutti i suoi limiti. Se ci liberiamo dalle ‘false promesse di emancipazione’, scopriamo che abbiamo bisogno, piuttosto, di una salvezza ontologica e non di mero benessere psicologico; scopriamo, altresì, che possiamo salvarci solo tutti insieme! Qui molto dipende da come ‘viviamo’ la religione e, nel nostro caso specifico, da come testimoniamo il Vangelo. Recuperare un rapporto vitale con la memoria, riappropiarci della capacità di narrare le nostre esperienze, poi, sono due momenti che possono aiutare le religioni, le fedi a costruire un futuro di pace. Hans Küng, rileva: «viviamo in un unico mondo con una moltitudine di religioni e culture. Perciò non ci si può richiamare a una sola religione contro tutte le altre»; «Di fronte ai milioni di persone che oggi non sono più religiose, non si può più fare riferimento, anche se si è credenti, solo alla religione» [39].
Di fronte alla moltitudine di religioni e culture occorre che ognuno faccia memoria del proprio “patrimonio religioso – cuturale”; per evitare che tale “memoria” degeneri in superbia, va recuperato il concetto di “narrazione”: ognuno porta una storia e, perciò, non ne deleghi il racconto a supporti freddi, meccanici, ma la rielabori continuamente (recupero creativo). Solo un rapporto corretto con le dimensioni costitutive dell’uomo (memoria, linguaggio) aiuta le religioni, la fede cristiana a mettersi in gioco per contribuire alla piena umanizzazione dell’uomo. Laddove il soggetto si svuota di storie, di contenuti e versa tutto ad extra, si perde il gusto di narrare la propria storia, di raccontare chi siamo e, in tutto questo, non si ha nemmeno più interessa a testimoniare l’appartenenza religiosa. Al più, per dotarsi di uno straccio di indizio identitario, si ricorre strumentalmente alla propria apparentenza religiosa per condividerla con quanti devono fare fronte allo straniero, al nemico comune. Fede comune per difendersi dall’altro e non per vivere il rischio dell’amore fraterno che è uscita da sé, esodo, permanenza nel deserto.  Il già citato Panikkar, diceva: «Io non mi impegno prima di tutto a difendere la mia verità, ma a viverla» [40]. Chi non vive la propria verità di fede come memoria creativa – profetica perde un patrimonio e, diciamolo, con le mani vuote non si può andare incontro all’altro.  Un islamologo analizza la situazione: «come accogliere l’altro se si nega se stessi? […]. Le radici affondano nella terra dove incontrano altre radici. Se le radici del cristianesimo affondano nel mondo ebraico e in quello greco, oggi esso incontra l’islam, domani l’Africa e l’Asia. L’incontro è possibile soltanto se si è consapevoli delle proprie radici. Pensare alle radici dell’Europa significa pensare ai possibili, a volte inediti, prolungamenti del continente. Oggi l’America, la Cina, l’Africa ci interrogano, ognuna con le proprie radici fatte di dolori e di speranza, mentre in terra d’Europa l’inquietudine ha già preso forma e si sta diffondendo. L’Europa, faccia a faccia con se stessa, è ricca di saperi, ma restia ad accettarsi» [41].

5.L’uomo non può fare a meno della Risurrezione e della Redenzione

… la fede si riferisce a una persona. È innanzitutto un atto d’incontro e di fiducia che coinvolge l’intelletto, la volontà e il sentimento nella loro unitarietà originaria. La forma “io credo in te” è radicale e comprensiva. Si riferisce alla persona nella sua interezza… In questa forma la fede si muove […]nello spazio dell’incontro tra io e tu: è un atto personale (H. Fries).

Non solo l’Europa, anche l’uomo europeo, benché ricco di saperi, è restio ad accettarsi. Risulta ancora più difficile ricevere la propria verità dalla fede cristiana! Il logico, matematico (e, per certi aspetti, mistico) austriaco, Ludwig Wittgenstein, nei Diari, annotava: «Posso rifiutare tranquillamente la soluzione cristiana al problema della vita (die christliche Lösung des Problems des Lebens) (redenzione, resurrezione, giudizio, cielo, inferno)». A noi interessano particolarmente Erlösung (Redenzione) ed Auferstehung (resurrezione).
Tuttavia, continuava il filosofo, «con questo non si risolve il problema della mia vita, perché io non […] sono redento (Ich bin nicht erlöst). Tu hai bisogno di redenzione, altrimenti sei perduto (sans bist Du verloren[42].  Questo manca all’uomo contemporaneo: la convinzione inos sidabile che ha bisogno di Rendenzione, Resurrezione perché si risolva il problema della vita; Hai – uomo che abiti con disagio e con troppo facile entusiasmo allo stesso tempo la società complessabisogno di redenzione, altrimenti sei perduto! Lo stesso Wittgenstein, riflettendo sulla propria attività di studioso, scriveva: come puoi essere un logico se prima non sei un uomo? Prima di fare ‘qualcosa’ si deve essere ‘qualcuno’: dietro ogni professione, impegno, se non c’è un uomo dalla coscienza morale rettamente formata, si producono solo seri guasti nel mondo sociale.
Anche a tale scopo, dunque, riattivare il linguaggio della fede, la memoria cristiana sovversiva e profetica è necessario. Siamo, purtroppo, stati capaci di liberarci di certi ancoraggi, retaggi, unicamente per consegnarci nelle mani di idoli che, assai malamente, tentano di colmare il nostro vuoto. Surrogati religiosi ci seducono ed, allo stesso tempo, ci possono ammalare. Per fare un esempio, si può rilevare che, ai nostri giorni, il «calcio può fare seriamente concorrenza alla religione, può diventare una religione sostitutiva. Si parla di “culto” del calcio, di “dio calcio”. I riti da stadio rivelano alcuni parallelismi con la liturgia: quando uno sportivo bacia una coppa ricorda la consuetudine di baciare le icone. La coppa alzata ricorda l’ostensorio» [43]. Abbiamo bisogno non di idoli, dei sostituti di Dio, ma di ricominciare ad avere un rapporto autentico con noi stessi, di allestire un impianto valoriale capace di guidarci in direzione di una sana cura di sé. Un filosofo e teologo danese, confessava: mi manca, fondamentalmente, il vedere chiaro in me stesso! Gli interessava non tanto capire ciò che andava conosciuto, bensì quanto era da farsi; semmai, il conoscere poteva suscitare il suo interesse solo in quanto gli ispirava delle azioni. Comprendere chiaramente, in primo luogo, ciò che Dio voleva che lui facesse: ecco lo scopo della sua vita! Kierkegaard, di lui si tratta, aggiungeva: cerco una verità per me; cioè, «l’idea per la quale voglio vivere e morire… Soltanto quando l’uomo ha compreso se stesso in questo modo intimo e si vede ormai in cammino sulla propria strada, solo allora la vita si placa e prende un senso» [44].  L’uomo deve comprendere se stesso in modo intimo perché, se davvero riesce a veder chiaro in se stesso, se comprende per cosa (chi) vivere e morire, ha la speranza fondata di incontrare il Volto di Dio mentre è in cammino sulla propria strada (la fede esige che ognuno tracci il suo personalissimo cammino). La vita, non più dilaniata dalla frenesia che realizza i disegni della retorica dell’innovazione, dice Kierkegaard, si placa e prende un senso: sì, quello offerto dall’alto per mezzo della Redenzione, della Risurrezione. Solo così, grazie alla fede, l’uomo non sarà più (realizzando l’aspirazione di Wittgenstein) perduto.

Conclusione

da due secoli in qua, possiamo in generale affermare che l’uomo pare aver perduto ogni riferimento al divino: egli non si pone più davanti a un Dio del quale sarebbe creatura e immagine (G. Marcel)

Dopo secoli di Cristianesimo è definitivamente chiaro che l’uomo va sì educato alla fede ma, ancor più, continuamente ri – educato ad essa (è un work in progress). Troppo a lungo, ahimé, il nostro “sguardo” (anche quello ‘interiore’) è restato, spaesato e confuso, confitto su di una “disperante finitezza”. Nel frattempo, però, discreto e silente (non muto), il Padre non ci ha fatto mancare il Suo “sguardo”: «Come una madre, Egli spia il suo neonato» [45].  Ri – educare alla fede significa ri – orientare lo sguardo a Dio e su di Lui ri – focalizzare l’attenzione portandosi sempre l’umanità ed il mondo nel cuore per impedire che si configuri, nell’aver fede, il rischio di una fuga mundi. Fondamentali, dunque, le categorie “sguardo” ed “attenzione”! «Una delle verità capitali del cristianesimo, oggi misconosciuta da tutti – argomenta una filosofa ebrea del Novecento –, è che la salvezza sta nello sguardo… Lo sforzo grazie al quale l’anima si salva è simile a quello di colui che guarda […]. È un atto di attenzione, di consenso» [46]. La Storia è il “luogo” in cui ‘Dio’ ed ‘uomo’ si son dati appuntamento. Il rischio è che si può, da parte nostra, non capire bene dove è fissato l’incontro [47]. La Weil esemplifica la intricata questione con una bella metafora: «Dio e l’umanità sono come un amante e un’amata che si sbagliano sul luogo del loro incontro. Ciascuno è là, prima dell’ora, ma ciascuno a un diverso indirizzo. Essi attendono, attendono, attendono. L’amante è in piedi, immobile, inchiodato sul posto per un tempo senza fine. L’amante è distratta e impaziente. Guai a lei se si infastidisce e se ne va» [48].  L’umanità, l’amata, si ‘distrae’:  ci si annega, per sedare l’angoscia suscitata dall’attesa prolungata, nel divertissement pascaliano. L’impazienza agita il sangue ed espone al rischio di rinunciare all’incontro! Si dimentica che anche Dio, l’Amante, vive la stessa attesa e, dopo tutto, siamo stati noi di certo ad aver compreso male l’indirizzo al quale avremmo dovuto incontrarLo.
Aver fede significa vivere con gioia, non con fastidio, il tempo; viverlo come paziente e gioiosa attesa di Dio prova che la nostra fede è salda! Come l’Amatoin piedi, immobile, inchiodato sul posto per un tempo senza fine (Weil) – pazientemente “attende”, così noi dobbiamo imparare a non infastidirci di fronte al temporaneo “silenzio di Dio”, perché i Suoi tempi non sono i nostri.  Il Suo “tacere” non è “mutismo”.
Sintetizza Weil: «Il tempo è l’attesa di Dio, che chiede l’elemosina del nostro amore… L’umiltà nell’attesa ci rende simili a Dio» [49].

Dio veglia a lungo sull’uomo, addormentato nella “dimenticanza del Trascendente”, come la madre sul neonato (P. Teilhard de Chardin) fino a che, svegliatosi, si accorga, liberamente, di aver goduto comunque di uno sguardo “custode fedele” e “salvifico”. Il Creatore educa, con materna dedizione, lo ‘sguardo’ della creatura a volgersi nella giusta direzione irrorandolo di attenzione continua, ma discreta.
Sì, l’amore non si esprime – come tanti sono portati a credere – nella violazione repentina e brutale del pudore e dell’intimità; al contrario, volendo aprirci alla fine appercezione dell’eterno nel tempo (T. S. Eliot), l’Amore vigila su di noi costantemente in silenzio, che, insisto, è altra cosa dal mutismo. L’eternità non si raggiunge con un salto spiccato con superba ed immotivata fiducia nei propri mezzi, bensì pazientemente salendo i gradini costruiti con la ripetuta serie di amorevoli e discreti sguardi che il divino posa su di noi.
La creazione è la costante di Dio: la Sorgente rimane aperta anche se noi, dove attingiamo l’acqua, non la vediamo nell’esercizio di amorevole ininterrotta donazione. Se, poi, fossimo ancora troppo lontani dal luogo in cui è possibile abbeverarci, non per questo sarebbe giustificato giudicare inattiva la Sorgente!
L’attesa dell’acqua viva, che Gesù donò alla Samaritana affinché non si affannasse più a vuotare e riempire invano la brocca delle proprie insoddisfazioni, per chi ha fede, è sufficiente ristoro mentre si avvia alla fonte.
L’attesa è lo “spazio di necessaria libertà” che Dio concede perché, nel frattempo, conoscendo e rigettando le improduttive consolazioni mondane, la creatura impari che la fede in Dio è la soluzione al proprio enigma, la risposta alla propria fragilità. La pazienza porta in se stessa una promessa nuziale: la “comunione eterna con il Padre”! Pazienza significa aspettare con fede che l’equivoco di cui parlava la Weil si chiarisca e, così, si raggiunga la certezza sul luogo deputato all’incontro con Dio. Solo l’attesa animata dalla certezza che “incontreremo Dio” infarcisce d’eterno il tempo che, altrimenti, passarebbe invano; sarebbe, cioè, appena uno scialo insensato di ore! La relazione con Dio necessita di un intenso fidanzamento, di un lungo tempo di conoscenza prima di essere piena, definitiva; un amore frettolosamente e superficialmente acceso, anche sul piano umano, rimane ostaggio dell’amara possibilità di subire una inter ruzione che può, da un momento all’altro, convertirsi in addio definitivo.
In conclusione: il luogo dell’appuntamento con Dio è la Storia; la fede, poi, è il gusto, piuttosto che la disperazione dell’attesa. Il “gusto di Dio” maturato nell’“attesa” modella una “figura nuziale” per l’anima che vuole congiungersi eternamente con l’Amato.  La fede autentica unisce inscindibilmente il sì dell’uomo all’Amen di Dio.
       
   


[1] Cfr., c. carretto, Padre mio mi abbandono a te. Un commento alla preghiera di Charle de Foucauld, Roma 1975.
[2] La “fine della religione”, profetizzata nel Novecento, si è realizzata, nella maggioranza dei casi, come un’opera di positivo alleggerimento da zavorre di preconcetti: molte critiche degli atei pensanti hanno rivelato che le mistificazioni non portano a credere. «Perché non lo si ammette apertamente – da parte sia della sinistra critica che della destra positivistica? La morte della religione attesa nella tarda modernità – a partire dalle diagnosi e prognosi di Feuerbach, Marx e Nietzsche – non si è verificata, per quanto la non illuminata fede infantile di moltissime persone sia stata (giustamente) messa in questione. Non la religione, ma la sua morte era la grande illusione» (h. küng, Teologia in cammino. Un’autobiografia spirituale, Milano 1987, p. 14).  
[3] Su questo tema ho già ragionato in altri miei lavori. In questo spazio, tuttavia, può trovare accoglimento una annotazione di un pensatore cattolico del Novecento: «Nietzsche […] non si limita a dire “Dio è morto”, nel senso con cui Pascal, ricordando un passo di Plutarco, diceva: “Il gran Pan è morto”. L’affermazione di Nietzsche è infinitamente più tragica, perché vien detto che siamo noi, noi stessi, ad aver ucciso Dio, ed è questa l’unica cosa che possa spiegare il sacro terrore con cui Nietzsche si esprime […]. Jean-Paul Sartre […], al momento di essere accolto dai giornalisti a Ginevra, all’indomani della liberazione, dichiarò loro di punto in bianco: “Signori, Dio è morto”. Come non vedere che il tono esistenziale di quest’affermazione è assolutamente diverso proprio perché il sacro terrore è scomparso ed è stato sostituito dalla soddisfazione di un uomo che pretende di fondare la propria dottrina sulle rovine di qualcosa a cui non ha mai creduto?» (g. marcel, L’uomo problematico, Roma 1992, pp. 25 – 26).
[4] Cfr., m. blanchot, L’infinito intrattenimento, Torino 1969, p. 334.
[5] i. mancini, Teologia dei doppi pensieri, in l. sartori (ed.), Essere teologi oggi. Dieci storie, Casale Monferrato 1986, p. 82.
[6] ibid., p. 83.  La storia recente, infatti, impone di pensare il mondo come non più garantito, riguardo al Senso, da patrocini metafisico – teologici; se, tuttavia, si vuole “pensare la fede”, occorre farlo stando ben saldi nel mondo e prendendo in cura categorie teoretiche un tempo disprezzate. Non vi è più separazione tra l’amore per la terra al quale esortava Nietzsche e le aspirazioni religiose. È stata la filosofia contemporanea a costringere, dovendo essa fare i conti con una nuova realtà assai difficile, la teologia a compromettersi maggiormente con le realtà terrestri: «la Seconda Guerra Mondiale ha rappresentato uno spartiacque anche per la filosofia. La realtà di ciò che avevamo vissuto e i compiti ereditati si fecero sentire. Al pensiero abituato a vivere in alto, nel cielo, sopraggiunse la visione sconvolgente delle forze che lottavano in basso, sulla terra, ed esso fu costretto a mescolarsi al corso delle cose. Ogni nobile distanza dai fatti del giorno svanì. La politica e la società divennero temi fondamentali di interesse filosofico» (h. jonas, La filosofia alle soglie del Duemila. Una diagnosi e una prognosi, Genova 1998, p. 42). 
[7] ibid., p. 86.
[8] i. mancini, Tornino i volti, Genova 1989, p. 8.
[9] ibid., p. 9.
[10] Cfr., a. cozzo, Conflittualità non violenta. Filosofia e pratiche di lotta comunicativa, Milano 2004, p. 51. Cozzo, dunque, può felicemente concludere che la filosofia è «ecumenica nel senso più pieno del termine» (p. 52).
[11] ibid., p. 41.
[12] i. mancini, Scritti cristiani. Per una teologia del paradosso, Genova 1991, p. 91.
[13] Cfr., r. sennet, Il declino dell’uomo pubblico. La società intimista, Milano 1982.
[14] Cfr., s. natoli, Dio e il divino. Confronto con il cristianesimo, Brescia 1999, p. 38. È necessario credere che il negativo dell’esistenza, a livello storico/fenomenico/ontologico, sta davvero a cuore a Dio che, pertanto, lo redimerà. Privi di questa certezza siamo ancora più soggetti al rischio di vivere la finitezza come un incomprensibile ed inaccettabile tradimento. La verità da riattivare in ambito cristiano è stata lumeggiata da un poeta francese: «Gesù, per nascere si è scelto/ Maria, la piena di grazia;/ ma per risuscitare si è scelto/ Maria (di Magdala), la piena di colpa» (p. emmanuel, Sophia, Seuil 1973, p. 154). È ad una peccatrice, che sperimenta ontologicamente la morte pur essendo biologicamente in vita, che Gesù mostra che la morte non è l’ultima parola.
[15] i. mancini, La ragione contro il sacro, in g. vattimo et al., Filosofia al presente, Milano 1990, pp. 78 – 79.
[16] Cfr., r. panikkar, Concordia e armonia, Milano 2010, p. 23.
[17] ibid., p. 76.
[18] Mi pare appropriato e fruttuoso invitare i neopositivisti più intransigenti, a meditare sulle parole di uno studioso rumeno: «la vita dell’uomo moderno è tutta un brulichio di miti semidimenticati, di ierofanie decadute, di simboli abbandonati. La dissacrazione ininterrotta dell’uomo moderno ha alterato il contenuto della sua vita spirituale, ma non ha infranto le matrici della sua immaginazione: in zone mal controllate sopravvive tutta una scoria mitologica […]. L’uomo moderno è libero di disprezzare le mitologie, tuttavia ciò non gli impedirà di continuare a nutrirsi di miti decaduti e di immagini degradate» (m. eliade, Immagini e simboli, Milano 1984, pp. 20 – 21).   
[19] Cfr., j. habermas, Teoria dell’agire comunicativo, II, Bologna 1986, pp. 648 – 649.
[20] j. habermasj. ratzinger, Ragione e fede in dialogo, a cura di g. c. bosetti, Padova 2005, pp. 62 – 63.
[21] Cit. in p. bergerg. daviee. fokas, America religiosa, Europa laica? Perché il secolarismo europeo è un’eccezione, Bologna 2010, p. 90.
[22] Cfr., e. lévinas, Totalité et infini, La Haye, Nijhoff 1980, p. 30.  
[23] e. severino, Pensieri sul Cristianesimo, Milano 2010, pp. 50 – 51.
[24] Cfr., m. gauchet, Il disincanto del mondo. Una storia politica della religione, Torino 1992, p. 292.
[25] h. waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Cinisello Balsamo 1988 (19962), p. 83.
[26] ibid., p. 84.
[27] ibid., pp. 102 – 103. Il teologo deve stare su di una soglia: getti uno sguardo su ciò che crede ed un altro su ciò che si oppone alla sua credenza! Waldenfels, precisa: «Il cultore di teologia fondamentale può essere paragonato ad uno che sta sulla soglia di una casa. Chi sta sulla soglia si trova per così dire contemporaneamente dentro e fuori. Ode gli argomenti di coloro che stanno davanti alla porta e di coloro che sono in casa. La cosa che gli sta a cuore è però l’ingresso nella casa. Da un lato fa suo quello che gli uomini di fuori sanno e vedono – nel campo della filosofia, delle scienze storiche e sociali -, quel che essi pensano di Dio, di Gesù di Nazaret e della Chiesa, di se stessi, del mondo e della società in cui vivono. Dall’altro si presenta col sapere che viene dal di dentro come un invito rivolto a tutti coloro che sono dentro e fuori» (pp. 101 – 102).
[28] Cfr., w. hamilton, Morte di Dio e ateismo nel pensiero religioso americano, in aa. vv., Dibattito sull’ateismo, editoriale di enzo giammancheri, gdt 15, Brescia 1979, pp. 75 – 94, qui, p. 89. Hamilton rivolge a quanti si rendono refrattari alle provocazioni della fede una domanda inquietante: «Gli uomini sono davvero forti abbastanza per perdere non solo la paura dell’inferno e la consolazione della vita futura, ma la stessa realtà di Dio?» (p. 92).
[29] I “pensatori atei” del Novecento esaltano, per colpire a morte le basi filosofiche (metafisiche) della teologia, la contingenza e coprono di ridicolo il permanente. Un esponente francese dell’ateismo militante, scrisse: «l’essenziale è la contingenza. Voglio dire che, per definizione, l’esistenza non è la necessità». Ancora: «la contingenza non è una falsa sembianza, una apparenza che si può dissipare; è l’assoluto» (j p sartre, La nausea, Milano 1965, p. 187). Il capovolgimento è radicale, totale: l’essenziale, l’assoluto è la contingenza!
[30] j. moltmann, Il Dio crocifisso, Brescia 1974, p. 278.
[31] Cfr., a. finkielkraut, La sconfitta del pensiero, Roma 1989, p. 31.
[32] Un filosofo marxista espone quella che, secondo lui, è la humana conditio moderna: «Economicamente, politicamente, moralmente, la vita quotidiana di ogni uomo risente delle tempeste più lontane […]. Come le guerre, le crisi riguardano ormai tutto il mondo… Nessun conflitto ha carattere regionale. Nessuna responsabilità è limitata. Nessuna libertà è isolata. Possiamo […] dire di essere tutti implicati nella grande contestazione che investe il mondo» (r. garaudy, Prospettive dell’uomo, Torino 1972, p. 11). In questa grande contestazione la fede deve mostrare la plausibilità delle proprie pretese.
[33] Cfr., a. finkielkraut, L’umanità perduta, Roma 1977. La crisi prodotta dal Novecento è globale: mette in gioco patrimoni secolari di sapere, la fede in Dio e la fiducia nella inesorabilità del progresso. Un pensatore ebreo, sintetizza: «La storia moderna dell’Europa è una permanente tentazione di razionalismo ideologico e di esperienze condotte attraverso il rigore della deduzione, dell’amministrazione e della violenza. Una filosofia della storia, una dialettica che conduce alla pace tra gli uomini è ancora possibile dopo il Gulag e dopo Auschwitz?» (e. lévinas, Nell’ora delle nazioni, Milano 2000, p. 155). La “proposta cristiana” deve saper stare tra queste domande: il XX secolo è stato inutile? La fede sarà un valido aiuto per estrarre dai frutti marciti del Novecento semi buoni? La storia può avere ancora un senso, una direzione – soprattutto verso la “pace tra gli uomini” – dopo la barbarie nazifascista e non solo? La fede saprà mostrare che la tensione escatologica porta al riscatto dal “pessimismo storico” facendo vivere al meglio l’oggi in prospettiva dell’eternità?
[34] Cfr., m. bucchi, Scientisti e antiscientisti. Perché scienza e società non si capiscono, Bologna 2010, p. 40.
[35] ibid., pp. 52 – 53.
[36] h. küng, Ciò che credo, Milano 2010, p. 115. 
[37] g. agamben, Infanzia e storia, Torino 1978, p. 7.
[38] Cfr., r. guardini, Religione e rivelazione, Milano 2001, p. 41.
[39] id., Ciò che credo, cit. p. 87.
[40] r. panikkar, in una intervista concessa a Henri Tincq per Missione oggi, 2001, n. 4, pp. 37 – 40.
[41] khaled foud allam, in «la Repubblica», 23 settembre 2003.
[42] Cit. da j. prades, Nostalgia di Resurrezione. Ragione e fede in Occidente, Siena 2007, p. 30.  
[43] Cfr., h. küng, Ciò che credo, cit. p. 306.
[44] s. kierkegaard, Diario, Brescia 1962, n. 48.
[45] Cfr., p. teilhard de chardin, La mia fede. Scritti teologici, Brescia 1993, pp. 125 – 126.
[46] s. weil, Attesa di Dio, Milano 1974, pp. 149 – 150.
[47] La relazione Dio/uomo non è mai governabile evitando a priori la “possibilità del fallimento”; cfr., c. fabro, L’uomo e il rischio di Dio, Roma 1967.
[48] Cfr., s. weil, Quaderni, vol. IV, Milano 1993, p. 178.
[49] s. weil, Pensieri disordinati sull’amore di Dio, Vicenza 1983, p. 54. 

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