Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

SULLA “SPE SALVI” DI BENEDETTO XVI

“Io ignoro completamente il giorno e l’ora in cui Tu verrai a prendermi da questo esilio (…). Tu mi hai consigliato di vegliare e pregare con la lampada accesa e con un buon rifornimento di olio per mantenerla accesa in attesa dello sposo per le mie nozze eterne. La lampada accesa è la mia fede, l’olio la speranza e la mia attesa è la carità” – alessandro emiliani

Per riflettere, confortati da un sicuro riferimento teologico, sul tema ‘Speranza’ che, confesso, mi ha letteralmente sequestrato, il Regnante Pontefice ha ‘donato’ una, direi, mappa concettuale (storico – teologico – filosofica) che conduce infallibilmente alla piena illuminazione della questione[1]. Non è mia intenzione riassumere l’enciclica, né commentarla pedissequamente; intendo, piuttosto, estrapolarne alcune provocazioni salutari. Ripensare alla Speranza cristiana è necessario, urgente, perché veniamo sempre più assaliti o da un ingenuo ottimismo per le leopardiane magnifiche sorti e progressive di scienza e tecnica, o da un esagerato pessimismo. Se i progressi nel campo della conoscenza e della produzione rispondono all’interrogativo kantiano ‘cosa posso sapere (potere)?’, eludono l’altra domanda del filosofo di Könisberg: cosa posso sperare? In atmosfera cristiana, però, la domanda va così riformulata: in Chi posso sperare? Stando all’incipit della enciclica, non si può che rispondere: nella vera speranza, che ci ‘ha salvati’ (già) nella Risurrezione di Cristo e ‘ci salverà’ – alla fine dei tempi – facendoci risorgere (non ancora). Mettiamoci in cammino con il Sommo Pontefice, estraendo dalla Sua miniera di riflessioni qualche diamante e, poi, riportando la lezione di altri maestri faremo qualche considerazione aggiuntiva sulla Speranza cristiana illuminata teologicamente ed umanamente da Benedetto XVI che, come dice l’Apostolo Paolo, davvero anche in questo scritto ha mostrato di avere la mente di Cristo.

Spe Salvi facit sumus (Rm 8, 24). Prima di ogni Sua ‘parola’, il Papa lascia parlare la Parola. Nelle Scritture, procedendo ad uno scavo esegetico, ci si accorge che ‘fede’ e ‘speranza’ sono termini interscambiabili. Scindere i due momenti (che si completano in un terzo, la ‘carità’) non è possibile. Di solito, sul piano umano, troppo umano, quando si dice ‘spero che’, in realtà, si è consapevoli che si fa riferimento a qualcosa di ondivago, di incognito e che potrebbe non essere; nella Speranza cristiana, invece, quanto si dice ‘accade’. Il Vangelo, ad esempio, dice Benedetto XVI, non comunica semplicemente qualcosa, ma è una “comunicazione che produce fatti e cambia la vita”. Speranza, allora, lungi dall’essere semplicemente ‘una parola’, indica il percorso di Qualcuno (Cristo) che ha reso vita vissuta la Promessa soteriologica di Dio.
La fede fa protendere ‘personalmente’ verso il non ancora, ma già dà qualcosa della realtà attesa; il già, dunque, funge – dice il Papa – da prova di ciò che ora non vediamo. Il presente, poi, è modificato dall’esistenza del futuro (escatologia). Cristo, dice più avanti Benedetto XVI, è sì realtà attesa, ma anche vera presenza.  Papa Ratzinger cala una domanda provocatoria ed, a mio avviso, non è salutare eluderla: “la fede cristiana è anche per noi oggi una speranza che trasforma e sorregge la nostra vita?”. Essere cristiani è per noi un fatto serio, nel quale ne va della vita (presente e futura)? Nell’enciclica ci viene ricordato che, nel rito del Battesimo, un tempo, il sacerdote chiedeva ai genitori: ‘E che cosa ti dona la fede?’ – ‘La vita eterna’ era l’immancabile, convinta risposta. Ma noi, chiede il Papa, la vogliamo ancora? Pare che, conclude il Pontefice dopo una profonda riflessione filosofica sulla questione, non si sappia davvero cosa si vuole: né morire, né un vita che mai finisca! Ad ogni modo, Benedetto XVI, richiamandosi alla teologia paolina ed agostiniana, sottolinea che sentiamo con forza “che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti”. La cosa ignota alla quale si allude è la vera speranza che, in quanto non conosciuta, fa disperare. L’errore, chiarisce il Papa, è lasciarsi atterrire dall’espressione ‘vita eterna’; infatti, non la intendiamo rettamente perché “suscita in noi l’idea dell’interminabile”. Non ci resta che spingerci “col nostro pensiero” oltre la temporalità presagendo che l’eternità è una sorta di “momento calmo di appagamento, in cui la totalità ci abbraccia e noi abbracciamo la totalità”.
Siamo ancora entro una terminologia filosofica; d’altro canto, il binomio fede – speranza ha conosciuto, soprattutto nella modernità, una lunga e complessa serie di metamorfosi ed il Papa ne ripercorre la storia (vedi dal 16 al n. 23). Dato per certo che siete andati a leggere l’argomentazione (qui non ci è dato parlarne), passiamo a dire che, quando si tratta di chiarire la vera fisionomia della Speranza cristiana, Benedetto XVI dice due cose da rubricare: la libertà è qualcosa che va sempre conquistato e per il bene, ma non si può pensare di aderire al bene fondando soltanto sulle proprie forze; l’uomo, allora, “non può essere redento semplicemente dall’esterno”. La salvezza non può venire né da una speranza allestita dal soggetto, né dalle ideologie che lo avvolgono, dall’esterno, in una rete di menzogne. Non la scienza – incalza il Pontefice – redime l’uomo, ma l’amore! Il discorso, precisa il Papa, vale anche nell’ambito intramondano: quando sperimentiamo un ‘grande amore’; la differenza si gioca, però, nel fatto – innegabile – che ‘gli amori’ sono minacciati e, ad ogni modo, inevitabilmente inceneriti dalla morte. L’uomo, invece, “ha bisogno dell’amore incondizionato”, l’amore di Dio che non si dà in un rapporto di stampo individualista, ma occorre che noi si passi attraverso la relazione col Figlio. Tirando qualche conclusione, il Papa ammette il nostro bisogno di speranze (“più piccole o più grandi”), ma esse soltanto ci “mantengono in cammino” ogni giorno e, dunque, si rivelano insufficienti per approdare al Senso. Non danno risultato staccate dalla grande speranza (Dio).
A questo punto, Benedetto XVI rintraccia e mostra quali siano i luoghi nei quali apprendere ed esercitare la speranza. Innanzitutto, nella preghiera. Se nessuno ci ascolta, Dio lo fa. La condizione è che la preghiera sia, ad un tempo, molto personale e capace di attingere alle “grandi preghiere della Chiesa e dei santi”. Si deve salvare, ad ogni costo, insegna il Pontefice, “questo intreccio tra preghiera pubblica e preghiera personale”. Un posto viene riservato all’agire ed al soffrire. In questi luoghi, di là di ogni possibile fallimento esistenziale, si deve conservare la certezza che “posso sempre ancora sperare, anche se per la mia vita o per il momento storico che sto vivendo apparentemente non ho più niente da sperare”. Al n°40, poi, consiglio di leggere integralmente le riflessioni papali sulla sofferenza. Alla fine del percorso vi troverete di fronte ad una proposta non da poco. Benedetto XVI invita a riscoprire, infatti, una forma di devozione oggi, forse, scarsamente praticata: offrire le proprie sofferenze con la convinzione “di poter inserire nel grande com – patire di Cristo” le nostre fatiche, le nostre infermità (fisiche e spirituali). Il Papa, per aumentare la già alta temperatura teologico – spirituale della Sua proposta, lancia una nuova provocazione: “Forse dovremmo davvero chiederci se una tale cosa non potrebbe ridiventare una prospettiva sensata anche per noi”. Inserire nel compatire di Cristo ogni patire è affidare al Senso donato quanto ci getta nell’angoscia e minaccia la speranza.
Un luogo per apprendere ed esercitare la speranza è finanche la Giustizia. Papa Ratzinger, al proposito, con tono perentorio e fiducioso, sentenzia:
“Dio c’è, e (…) sa creare la giustizia in un modo che noi non siamo capaci di concepire e che, tuttavia, nella fede possiamo intuire”.
Si è convinti di tornare a Cristo, alla nuova vita solo e soltanto se si è certi che è impossibile pensare all’ingiustizia della storia come parola ultima. Molti atei protestano contro Dio perché osservano le ingiustizie del mondo ma, dice coraggiosamente Papa Ratzinger, ciò non ha senso. Si pensa: se Dio giudica, come può esserci speranza? Il Pontefice risponde che è possibile in quanto Dio è sicuramente giustizia, ma è anche grazia: se ci fosse soltanto la prima, Dio non potrebbe che farci paura; somiglierebbe ad un giudice inflessibile, sottomesso alla logica del codice e distante anni luce dal caso concreto. Si desse, invece, soltanto la grazia, perderebbe di consistenza il terreno, quanto è temporale e questo ci priverebbe della risposta alla domanda di giustizia per noi “decisiva davanti alla storia e a Dio stesso”. Se ci fosse solo grazia, insisto, a che servirebbe lo sforzo (etico) di andare sui sentieri della santità?
L’enciclica chiude dando spazio a Maria. Lei ha, col Suo sì umile ed irremovibile, fatto in modo che la Speranza assumesse volto d’uomo, mani d’uomo, cuore di uomo, pur restando divina. Viene definita, la Madonna, ‘stella della speranza’. Poco prima, però, Benedetto XVI ha voluto chiarire, scrive, “ulteriormente un elemento importante del concetto cristiano di speranza”. La nostra, ecco la questione, è sempre “essenzialmente anche speranza per gli altri” e solo così può valere davvero anche per me! Si può, dunque, concludere con le parole stesse di Papa Ratzinger, in quanto lasciano comprendere – senza ombra di dubbio – che sperare è un dono, ma anche un compito; un bene personale, ma anche un dovere comunitario:
“Da cristiani non dovremmo mai domandarci solamente: come posso salvare me stesso? Dovremmo domandarci anche: che cosa posso fare perché altri vengano salvati e sorga anche per altri la stella della speranza? Allora avrò fatto il massimo anche per la mia salvezza personale”.








“Il mondo apparterrà domani a chi gli avrà offerto una speranza più grande”
P.  t. de chardin
L’enciclica apre con Paolo che ha, in tutto il Suo corpus di epistole, coniugato ‘fede, speranza, carità’. Nei Suoi scritti, poi, έλπís (speranza) ricorre 36 volte rispetto alle 53 dell’intero Nuovo Testamento. ‘Sperare’, invece, έλπísω, solo 19 volte rispetto alle 31 volte del N. T. Se ne deduce che in lui c’è una grande riflessione sul ‘concetto’. Non è questa la sede, però, per simili chiarificazioni; lasciamole agli esegeti di professione. A noi compete sottolineare come questo termine stia cadendo in disuso, particolarmente se colto nella sua accezione cristiana, nel lessico postmoderno, ma soprattutto come lo ‘sperare’ appaia sempre più un atto insensato. Cominciamo da quanto, in forma poetica, scrisse Nietzsche ne La gaia scienza:
“Qui sedetti aspettando, certo nulla aspettando/ (…) ora la luce, /ora l’ombra gustando,/interamente soltanto gioco, / (…) interamente tempo senza meta”.
L’uomo si siede! Confonde la ‘speranza’, l’‘attesa’ con l’inazione e, così, nulla aspetta. Si ‘gioca’ soltanto tra luce (momenti belli) ed ombra (momenti tristi) e li si gusta indifferentemente entrambi. Il tempo resta cronologico e, non ammettendo Télos, non lascia individuare il kairologico, il tempo opportuno, nel quale si affaccia una concreta speranza di salvezza. Tutto, oggi, congiura a smentire l’Apostolo: dice Paolo, la speranza non delude (Rm 5, 5); infatti, siamo noi a deluderla con il non attenderla più o con l’attenderla nella maniera evidentemente sbagliata.
Sulla scena tormentata della filosofia contemporanea, dal versante che declina la disperazione in tutti i tempi ed i modi possibili, alla fin troppo nota teoria serrata di voci polemiche contro la salvezza cristiana, si accoda un pensatore che è un vero e proprio spegnitoio che si cala, inesorabile, su ogni residua fiammella di attesa fiduciosa: il rumeno Cioran. A suo dire, infatti, è una forma di salvezza, anzi, precisa, è la salvezza l’esser certi che essa non si dà! In un saggio, per lo più in forma di aforismi (anche la forma del pensare è segmentata, scissa, fissata sull’istante), sostiene che si rimane nella condizione di schiavi fin quando si è ‘ammalati’ della mania di sperare. A voler essere onesti, credo che vada – pur avendone il giusto rispetto – evitato il presentare queste voci come eroiche,  elevarle, cioè, al rango di tutrici affidabili dell’ autonomia del soggetto, dell’eroismo antimetafisico dell’uomo contemporaneo; piuttosto, per dirla con le parole del filosofo Pietro Prini, va urgentemente sottolineato che la “frustrazione del bisogno di salvezza (…), di Assoluto, che ha costituito la motivazione più nascosta della esaltazione terrena nella civiltà moderna (…) è la radice più profonda della sua disperazione”.
Forse aveva ragione Blanchot: bisogna reinventare la speranza. Sì, ma il Pontefice, nell’enciclica ci ha più volte indirizzato verso la metodologia migliore da seguire: reinventarla mantenendosi – come amo spesso ripetere – creativamente fedeli alla eredità ebraico – cristiana. Si può circumnavigare la categoria ‘speranza’ quanto si vuole, ma non si potrà mai evitare (è un dato storico) di scorgere in essa elementi teologici che, sia letti in accezione negativa, sia accolti con devozione, non smettono di inquietare quanti si interrogano intorno alla ‘cosa’.
Il filosofo Salvatore Natoli, che professa un cristianesimo da non credente, ha scritto che ‘sperare incondizionatamente’ è stato reso possibile da un ‘popolo’ e dall’avvento di una ‘civiltà’: dalla tradizione ebraico – cristiana. Un pensatore ebreo del Novecento, Franz Rosenzweig, in una conferenza, citò Goethe.
Lo scrittore tedesco aveva detto, a dire del pensatore, qualcosa che un Greco e, forse, neppure un cristiano avrebbero potuto affermare se non fosse stato per gli Ebrei ed in particolare per i profeti.
Cosa aveva detto, allora, il geniale tedesco?
Seguiamo Rosenzweig:

“L’Ebreo predica una parola che noi abbiamo (…) il diritto di rendere con una celebre espressione di Goethe, perché queste parole possiedono sulla bocca del profeta un’eco che si è insinuata per la prima volta nella lingua dei profeti; nessun Greco ha mai adoperato, con questo significato, le parole che davanti agli occhi del tempo sollevano il sipario dietro il quale trova riparo l’Eternità, le parole: Noi vi ordiniamo di sperare”.
Sulla bocca del tedesco Goethe le parole che ordinano di sperare hanno un sapore antichissimo: vi si avverte l’eco della lingua dei profeti. Il lessico biblico fornisce alla parola speranza che oggi pronunciamo un sapore particolare ma, in primo luogo, ci consente di pronunciarla. Dai profeti al Nuovo Testamento, abbiamo in dote una eredità semantico – linguistica che ci dovrebbe molto responsabilizzare. Noi cristiani, in particolare, dobbiamo comprendere, anche grazie alla rilettura paolina di Benedetto XVI nell’enciclica, che appartenere a Cristo è sapere che si spera non in qualcosa (che potrebbe anche non verificarsi), ma in Qualcuno. Se provassimo a farlo davvero, forse i risultati si vedrebbero. Questa provocazione viene da un martire dei nazisti: il teologo, da loro impiccato, Dietrich Bonhoeffer. Prendere sul serio la Speranza nella quale salvi facti sumus (Rm 8, 24), il Cristo Risorto, la Risurrezione – dice il teologo e martire luterano – “può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore”. Sono d’accordo anche con il prosieguo della riflessione: “Se un po’ di persone lo credessero veramente e si lasciassero guidare da questo nel loro agire terreno, molte cose cambierebbero”.
La Speranza cristiana, presa sul serio, dunque, può modificare l’hic stans dal quale l’uomo, in fondo, e come il Pontefice nell’enciclica non ha mancato di sottolineare, vuole sempre staccarsi. L’uomo è humanum fieri, homo hominans e non hominatus (m landmann). Non c’è, in realtà, l’homo editus, ma vive ed attende di completarsi (per noi ‘escatologicamente’) l’homo absconditus, come si esprime Ernst Bloch, filosofo marxista ateo che ha trapiantato nella speranza marxista quella ebraico cristiana; non a caso, disse che quello che importa è imparare a sperare e che dove c’è speranza, ivi è anche religione. Dialogò con Moltmann; se il filosofo scrisse Il Principio Speranza, il teologo è l’autore di un saggio intitolato Teologia della speranza. Le due anime, teologiche e filosofiche, di là delle figure specifiche che le incarnano, si incontrano sempre, immancabilmente, su questo tema. D’altro canto, ‘imparare a sperare’, è sempre un compito attuabile in atmosfera comunitaria. Benedetto XVI stesso, come mostra l’enciclica, ci ha insegnato che domandarsi cosa fare per la salvezza degli altri è aver fatto il massimo per la propria salvezza perché la speranza per gli altri soltanto è veramente speranza anche per me. La questione, dunque, non si può affrontare che nell’atmosfera della sana, vera alterità. Il filosofo Roberto Mancini scrive che, fare esperienza della speranza, apprenderla e condividerla, impone di riconoscere l’esigenza di tenere vivo il senso della relazione responsabile con ‘altri’, con la natura, con Dio. Il nostro autore invita pure a riconoscere che c’è una dimensione politica che informa e sostanzia la ‘cosa’ di cui discutiamo; Mancini, in verità, ammette che questa ‘dimensione’, non è “in sé autosufficiente o assoluta”, ma “rimane imprescindibile e necessaria”. Il pensatore cattolico Marcel non rifletteva mai sulla speranza senza riferirla immediatamente alla comunione e così giustificava il suo modus pensandi: proviamo a chiederci, sfidava, se, in fondo, ‘disperazione’ e ‘solitudine’ non siano identiche. Come dargli torto?
Mi ha fatto molto pensare che il Papa abbia voluto rintracciare ed indicare luoghi (direi, concreti) nei quali apprendere ed esercitare la speranza. Alla fine, però, noi stessi dobbiamo divenire luogo di accoglienza per essa rimanendo, come dice la prima lettera di Pietro, sempre pronti a fornire a tutti le ragioni della nostra speranza cristiana. Maritain, nella prefazione ai Ricordi e appunti, volle rispondere ad una domanda difficile: chi sono? Si definì un rabdomante teso tutto nello sforzo di “captare il mormorio delle sorgenti nascoste, l’impercettibile fruscio delle germinazioni invisibili, con l’orecchio incollato per terra”. Il ‘rabdomante’ è una persona dotata della capacità di scoprire vene sotterranee di acqua, o metallifere utilizzando soltanto una bacchetta biforcuta tenuta con le mani per le due estremità e che, nel caso vi fossero sotterraneamente acqua o metallo, oscilla. Il cristiano pieno di speranza ha una sensibilità particolare nello scovare, anche nei sotterranei della storia, bui e che non promettono certo il ‘senso’, l’acqua del rinnovamento, il metallo spirituale per rafforzarsi nella costruzione del futuro. Il già, per chi connette ininterrottamente ‘fede e speranza’ (il Pontefice ci ha detto che la Bibbia procede proprio così), è sempre un valido riferimento per intuire fiduciosamente cosa sia il non ancora. Siamo tesi tra passato e futuro in maniera positiva se nel presente, accompagnati dalla Speranza cristiana, sappiamo leggere germi di futuro. Il teologo, che vive ed insegna a vivere in questo modo, deve essere davvero, come diceva Congar, l’uomo impossibile: sì, perché corre su strade nuove senza potere e dover dimenticare da dove è partito.
Innegabile: l’uomo è un essere che progetta (husserl); certo, ma non è inutile chiedersi in riferimento a quali elementi e con quali finalità. Sia che le si contesti (e, forse, proprio attraverso la furia polemica), sia che le si ossequi, appare chiaro che le radici ebraico – cristiane (ma anche arabo – islamiche ed illuministe), informano inesorabilmente i progetti politico – ideologici europei.  Natoli ha onestamente ammesso che “le promesse escatologiche del cristianesimo hanno inoculato nella cultura e nella storia dell’occidente un bisogno di salvezza talmente incoercibile da mantenersi vivo oltre la dissoluzione della stessa cristianità”. Le cosiddette soteriologie laiche, le pasque intramondane, per lo più di stampo marxista, non traggono il loro vocabolario e la loro struttura dal dettato biblico? Rendere immanente la Trascendenza, in fondo, è il solo modo per dotarsi di argomenti e parole suadenti per muovere gli uomini verso certi orizzonti. Gli uomini non si muovono se non si riconoscono all’interno di un orizzonte comune; non a caso, nella Lettera ai Filadelfesi, il martire Ignazio definiva la fede in Cristo la nostra comune speranza. Sono caduti in miseria, alla verifica storica dei loro presupposti teorici, i grandi racconti delle liberazioni laiche e, se Cristo (come crede la Alberoni), Lo si vuole ‘cacciare’ dall’Occidente e non è più, dunque, la nostra ‘comune speranza’, che fare? Siamo orfani (di riferimenti orizzontali e verticali), viaggiatori senza bagaglio (privi di elementi sui quali progettare il futuro). Non cadiamo nella trappola di ritenere il Vangelo un testo sganciato dalla storia contemporanea; esso, come dice Benedetto XVI al n. 2 della Spe Salvi, contiene un ‘messaggio’ non solo informativo, bensì performativo.
Il Pontefice tocca appena la questione, ma il termine, mi preme chiarirlo, viene dalla linguistica contemporanea. Lo si deve a J. Austin, che parla degli speech acts, atti linguistici. In alcuni enunciati, dire qualcosa è fare qualcosa. L’enunciato performati vo – Austin ne studia anche altri – ha la specifica funzione di ‘compiere un’azione’. Se dico: il sole tramonta ad ovest, è un enunciato constatativo; si limita, cioè, a dare una informazione (vera) e descrive uno stato di cose. Se dico giuro che sarò fedele, si trasforma una frase in un giuramento ed il verbo ‘fa’ ciò che dice: come giurare senza dire giuro? Così il Vangelo secondo Papa Ratzinger: comunica producendo fatti e cambia la vita. Siamo, allora, di fronte ad un testo che è, non soltanto realmente compromesso con la concretezza del vivere, ma lo è sempre. Paolo VI, nella Pasqua del 1971, tenne a precisare che dire ‘la speranza non morirà’ non è avere un sogno o semplicemente utopia, mito: è possibile dirlo, piuttosto, fidando su quello che definì il realismo evangelico.   
Il cristiano spera perché guarda sempre oltre l’orizzonte storico, senza disimpegnarsi nel mondo della vita, quando pensa alla salvezza propria e di tutto il creato che, come insegna Paolo, pure geme in attesa di riscatto escatologico. Moltmann, anzi, nel già richiamato saggio Teologia della speranza, ci ricorda che, ‘dal principio alla fine’, il cristianesimo è escatologia; infatti, conclude, “la fede cristiana vive della risurrezione del Cristo crocefisso e si protende verso le promesse del futuro universale di Cristo”. Per questo, sui momenti bui, il Pontefice nell’enciclica ha parole di immenso spessore umano e teologico: nei momenti notturni dell’esistenza, ci si deve abbandonare a Dio.
Il poeta Péguy disse che chi non dorme è infedele alla Speranza. Dormire è esprimere serena fiducia perché ci si sa custoditi bene. Una antichissima preghiera ebraica del mattino fornisce le parole con le quali potremmo rinnovare, ogni giorno, la nostra fiducia nel Signore: Dio rinnova nella sua bontà, giorno per giorno e continuamente l’opera della creazione. Benedetto XVI ha ricordato che la preghiera è un altro di quei luoghi nei quali apprendere ed esercitare la speranza e, mi permetto di aggiungere, mai come nella preghiera che ci ha insegnato Gesù stesso, ciò è vero! Tommaso d’Aquino faceva notare che, riguardo al Padre Nostro, se ne esaminiamo le domande (dacci, rimetti, non ci indurre…), apparirà chiaro “tutto ciò che può rientrare nella speranza cristiana (…) in chi dobbiamo riporre la nostra speranza, per quali motivi, e quello che dobbiamo sperare”. Il pensiero dell’Aquinate, dunque, coincide (come potrebbe essere diversamente?) con quello del Papa: la preghiera non è un insieme di parole prive di referente empirico e, perciò, vane; in esse, ed in particolar modo nel ‘Padre Nostro’, si ha, come nel caso del Vangelo, un linguaggio performativo: si dicono cose che incidono davvero sul nostro essere.
Anche se non cristiano, Seneca, in una lettera, sostenne che da ogni angolo della terra è lecito slanciarsi verso il cielo. Si tratta di radicare le nostre attese di nuovo in un riferimento Trascendente; anzi, nell’unico affidabile: Cristo. Una lezione cristiana antica per rinnovare un modo di credere che rischia di apparire improponibile all’uomo che, mai come oggi, cerca il Senso. Non so quanti di voi sanno che, nel cristianesimo antico, era molto diffuso il simbolo dell’àncora inciso o dipinto sulle pietre tombali arricchito dalla scritta, desunta da Paolo (Eb 6, 19), Spes in Deo, spes in Christo. Sperare in Dio, in Cristo era la posizione immodificabile che il vero cristiano assumeva anche di fronte al ‘limite dei limiti’, la morte! Con la modernità (e si può avere della questione visiona ampia nell’enciclica, dal n 16 al 23) le cose mutano radicalmente. Il razionalista – eppur credente – Cartesio, nel trattato Les passions de l’âme (§ 165), riduce la speranza ad una disposizione dell’anima tesa tutta e solamente “a convincersi che i suoi desideri si realizzeranno”; nella ‘configurazione’ potremmo dire (riduttiva) psicologistica della speranza, si parla di ‘desideri’ la cui realizzazione non è assicurata da una garanzia Trascendente, bensì, da una – anche un po’ ingenua – autorassicurazione del soggetto. Possiamo andare anche molto indietro rispetto alla modernità per dibattere, in questi termini, la questione. Il latino Terenzio, ad esempio, affermava che, non potendo realizzare ciò che vogliamo, non ci resta che desiderare ciò che possiamo. Agostino, non senza ironia, giudicava ‘bella’ questa posizione ma, in realtà, la riteneva un consiglio dato ad un infelice per salvaguardarlo da una infelicità maggiore. Il cristiano, infatti, prende innanzitutto sul serio il desiderio d’immortalità e – sapendo che è dono – “aspetta, concludeva il santo vescovo d’Ippona, con pazienza la felicità che ancora non possiede” e sperimenta la gioia radicato in questa speranza. Nel già, per quanto tormentato e maculato da mali, il cristiano riesce a scorgere più ‘segni’ di gioia che di disperazione. Pensate solamente ad Ignazio di Antiochia che, sapendo per certo che stava avviandosi al martirio, non trovò di meglio da dire – nella Lettera ai romani – che nulla era più bello del “tramontare al mondo per risorgere in Dio”.
Platone, che per alcuni antichi teologi era quello che Rahner chiamerebbe un cristiano anonimo (oppure, cristiano ante litteram), disse che le speranze sono “sogni di uomini che vegliano”. Il cristiano deve sperare nel non ancora, nel compimento escatologico delle promesse divine, ma ‘vegliando’ attentamente e senza pause sulla realtà. Certo, anche il cristiano sa che sperare non è mai un occupare comoda posizione. Bernanos, scrittore dalla fine anima cattolica, pure sostenne che la speranza è un rischio che dobbiamo correre; correggendosi, poi, aggiunse che è, anzi, il rischio dei rischi. Secondo il filosofo ebreo E. Jabès, il fatto che l’uomo sia speranza e di essa viva è reso necessario dal fatto (inconfutabile) che non possiamo né dare, né ricevere tutto. Qui, però, pare quasi che sia per una illusoria compensazione di una incapacità ontologica che l’uomo speri; il cristiano, invece,  spera perché v’è un sovrappiù di senso che lo attende, e che si è già mostrato (e lo farà ancora) nella Risurrezione di Cristo. Se dipendenza c’è da Dio è improntata alla gioia della relazione e non alla convenienza o per garantire la compensazione di qualche tara ontologica: questo è Freud, non il Vangelo! Non dobbiamo indagare, potrei dire, il ‘sottosuolo’ quando riflettiamo sulla speranza, ma dobbiamo imparare ad alzare lo sguardo al cielo. Anna Frank che conobbe la crudeltà nazista, sebbene confessasse di vedere il mondo trasformarsi, un po’ alla volta, in un ‘deserto’, pure non mancò di affermare che ‘sentiva’, guardando il cielo, che tutto si sarebbe nuovamente volto al bene. Aveva ragione, dunque, Rabbi Leb di Sasovo nel dire che è sotto la cenere che bisogna cercare il fuoco, se la gran fiamma più non è! Sotto la cenere della storia, molte esistenze addolorate hanno alzato, contro ogni scoraggiamento, lo sguardo al cielo e sono fuoco ancora vivo. Credo che andrebbe evitato un altro errore: confondere la speranza con l’ottimismo. La questione è talmente seria che, non per niente, Benedetto XVI se ne occupò. L’ottimismo, spiegava l’allora cardinale, per lo più, è un atteg giamento psicologico che tende ad occultare i problemi; la speranza, all’opposto, è strettamente, intimamente connessa al realismo ed accetta, concludeva Ratzinger, “i dati empirici come sono”. 
La Speranza cristiana – questo tentiamo di dire ed è quanto l’enciclica enuncia senza mezzi termini – è reale, concreta e non un rifugio per anime pavide. Il Vaticano II, d’altro canto, al n. 39 della Gaudium et spes elimina, semmai ve ne fosse stata necessità, la patina di sospetto che tende a sovrapporsi alla escatologia malamente intesa: che sia, in fondo, un comodo limbo nel quale assidersi per non fare i conti con la realtà. Dice il Concilio: “L’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente”. Attesa ed impegno devono coniugarsi armonicamente. Il filosofo tedesco Pieper ritiene la speranza la virtù che, per prima, si salda allo status viatoris; sì, perché se non c’è una – fosse pure intima e segreta – certezza riguardo alla Meta, chi si metterebbe, tra rischi e difficoltà, in cammino? Il filosofo francese Alain diceva che non esiste una speranza tanto saggia che si contenti di restare solo speranza. Occorre insistere nello status viatoris ma, spesso, alzando lo sguardo e fissando la Meta; non basta camminare soltanto guardandosi i piedi…Un proverbio orientale recita: molte volte, sognando un fiore, lo si fa nascere. Se non sogniamo – da svegli – la Meta, non la raggiungeremo! Non basta rendersi consapevoli – pur essendo un momento necessario – del mondo come è, ma anche di come potrebbe essere. Il commediografo ed umorista G. B. Shaw, non si riconosceva in quanti, vedendo come stanno effettivamente le cose, si chiedono perché? Egli, piuttosto, preferiva sognare le cose come ‘potrebbero essere’ e, dunque, la sua domanda preferita era perché no? Sì, nelle difficoltà, sperare significa chiedersi perché il mondo non potrebbe essere migliore di come è adesso; d’altro canto, recita una lezione platonica, il credere nella luce è di notte che è bello! L’attesa di chi spera è paziente e non è affatto passiva. Il 12 maggio 1967, alla radio tedesca, E. Bloch e G. Marcel dialogarono proprio sulla speranza. Il filosofo francese, cattolico, rivolse queste parole al collega ateo – marxista: “Credo che la speranza sia un’attesa (…) attiva e che suppone la pazienza (…) che non ha nulla a che vedere con la pigrizia”. Se diventa tale, disse, da ‘virtù’ si converte in ‘vizio’. Per lui la speranza deve respirare non nell’atmosfera asettica del concetto, bensì in quella dell’esperienza vissuta.
Il compianto Giovanni Paolo II partecipò, il 18 novembre 1999, al la XXX sessione della Conferenza dell’ONU per l’Alimentazione e l’Agricoltura, ed alle politiche che, a Suo dire, aggravavano le condizioni di vita dei popoli sottosviluppati, oppose il bisogno della forza della speranza, che si rivela essere, aggiungeva, più profonda e infinitamente più creativa. Lo è, in quanto, la Speranza cristiana è, in primo luogo, la certezza che ogni uomo può riprendere il dialogo con Dio se vuole! È, diremmo con la bella espressione di Buber, la grazia di poter – iniziare – di nuovo. Non che i cristiani siano ingenui o pecchino in materia di realismo quando parlano così; non sfugge alla Chiesa che parlare di Speranza è un compito arduo. Nel 2001, molto prima che Benedetto XVI si esprimesse con la Spe Salvi, la Conferenza episcopale italiana, in Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia, al n. 2, ammise onestamente che “non è cosa facile, oggi, la speranza (…): è offuscata se non addirittura scomparsa nella nostra cultura l’orizzonte escatologico, l’idea che la storia abbia una direzione, che sia incamminata verso una pienezza che va al di là di essa”. Ma questa lettura, potrei dire, fenomenologica della realtà non deve far dimenticare che la storia sfigurata contiene la Promessa di Dio di una sua Trasfigurazione: la disastrata fenomenologia verrà redenta in una riscattante escatologia. Nel II° Libro del De libero arbitrio, Agostino (e l’invito è sempre attuale) esorta ad attendere, a desiderare “la mano di Dio tesa a noi dall’alto, cioè il nostro Signore Gesù Cristo”. Più che la speranza, fa compagnia la certezza che Dio ci ha definitivamente teso la mano in Gesù Cristo. Questo faceva dire al vescovo africano che né amore senza speranza, né questa senza il primo si danno e, infine, amore e speranza non stanno senza la fede.
Il nostro sguardo punta al Trascendente: “siamo sempre, anche senza saperlo e magari senza volerlo talvolta, oltre l’istante attuale dell’esistenza. Ci riversiamo sempre oltre noi stessi, quando ci facciamo portatori della speranza, intrisi di essa”, dice il poeta Claudel. Uno sguardo che non si stanca perché, come diceva finanche Platone nel Filebo (39e 5 – 6), “noi per tutta la vita siamo colmi di speranze”. Sì, ma noi non ci fermiamo, in quanto cristiani, alle speranze che, più piccole o più grandi”, come dice Benedetto XVI, hanno una sola funzione: ci “mantengono in cammino” ogni giorno.
Il Logos che rende ragione della nostra Speranza, tuttavia, non è quello dell’argomentazione logica, ossequiante il principio di non contraddizione, asservito alle necessità della dialettica. Lo chiarisce Moltmann richiamando alla nostra attenzione il fatto indiscutibile che la rivelazione cristiana “non ha il carattere di qualcosa che illumina, in conformità con il ‘logos’, la realtà esistente dell’uomo e del mondo; ha invece il carattere costitutivo e fondamentale della promessa”. Il Dio della promessa ci ha già dato, per dirla con San Giovanni della Croce, la Sua Parola definitiva: Cristo!
La Speranza cristiana è la certezza che in essa siamo stati salvati, ma anche la consapevolezza che Dio non è mai un possesso stabile, certo…occorre sempre lavorare al mantenimento della relazione con Lui e la Speranza forte è che Lui stesso vuole relazionarsi a noi. Sempre è il secondo nome della Speranza cristiana: sia se si riferisce al nostro cercare Dio, sia se si riferisce al Suo cercarci. Speranza è certezza di una relazione vitale con Dio. Benedetto XVI, quando era ancora un giovane professore, tenne, il 24 giugno 1959, una prolusione all’Università di Bonn. Aveva ricevuto la nomina alla cattedra di Teologia Fondamentale. Trattò una questione datata, eppur sempre meritevole di approfondimento: la differenza che intercorre tra il Dio dei filosofi e quello della fede. Concluse il Suo intervento notando che fare teologia è aderire – seminando nei solchi tracciati da Riccardo di San Vittore ed Agostino – all’invito di un noto salmo: quaerite faciem eius semper (cercate sempre il Suo Volto). Il futuro Benedetto XVI, allora, donò una tesi che, dopo quasi mezzo secolo, non perde valore:
“qualunque cosa si acquisterà in nuove conoscenze, con questo non saranno e non dovranno essere cancellate le parole con le quali Agostino commenta questo versetto del salmo: ‘Questo è senza dubbio il ‘cercate sempre il suo volto’, cioè che non il trovare pone fine a questa ricerca che caratterizza l’amore, ma insieme all’amore crescente cresce anche la ricerca dell’amato’. Il compito della teologia rimane nel tempo di questo mondo necessariamen te non concluso. Esso consiste precisamente nelle ricerca sempre nuova del volto di Dio ‘fino a quando egli viene’, ed egli stesso è la risposta ad ogni domanda”.
Siamo in attesa che Egli risponda alla nostra dolorosa ed appassionata ‘domanda sul Senso’ e, con ed in Cristo, ci ha dato la Parola definitiva che pure, alla fine, farà nuove tutte le cose. Sia chiaro: non può morire la speranza che è riposta in Colui che non muore.  



Piccola bibliografia sulla speranza


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[1] lettera enciclica  Spe Salvi del Sommo Pontefice benedetto XVI ai vescovi ai presbiteri e ai diaconi alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici sulla speranza cristiana, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2007.

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