È certo e penso
che siamo d’accordo sul fatto che il tipo di vita religiosa determinato
dall’ambiente e dalla tradizione […] va scomparendo […] oggi esistono problemi
e tentazioni che non derivano solo dal rifiuto peccaminoso del singolo, ma
dalla struttura del mondo contemporaneo, che intacca sempre più tutti gli
strati della comunità religiosa. Così lo sforzo della teologia di giustificare
la fede, non è più un elemento supplementare, che si aggiunge dal di fuori a
un’esistenza religiosa appagante, ma è in un senso decisivo un momento della
situazione del credente
(johann baptist metz)
In questa riflessione tenterò di
fornire elementi per un dibattito che sente l’urgenza di collocare ai primi
posti, nell’agenda delle questioni teologiche, lo stato di salute nel quale
versa, appunto, la teologia a partire dalla modernità; in verità, farò anche
qualche incursione nel postmoderno.
Il testo che presento è uno
stimolo ad aprire ben più ampie piste di ricerca e, dunque, si presenta non
“rigidamente sistematico” e “necessariamente lacunoso”; eppure, qualche
inquietante momen to riflessivo credo riesca ad attivarlo.
Entro subito in argomento
richiamando l’opinione (condivisibile senza sforzo) di un teologo che mostra
come la teologia moderna e, per molti aspetti, quella contemporanea
«ha fatto fronte
ad una prodigiosa evoluzione delle mentalità e delle conoscenze, a una
impressionante ondata di fondo di incredulità che ha scosso il cristianesimo
dalle sue fondamenta, una teologia che si è fatta l’interprete delle esperienze
e delle aspirazioni dei cristiani e delle cristiane del nostro tempo. Nel
‘secolo del martirio’, come è stato definito il Novecento cristiano, anche la
teologia europea ha pagato il suo tributo: basterà ricordare i nomi del teologo
ortodosso Pavel Florenskij, vittima del gulag staliniano; di Edith Stein,
martire dell’antisemitismo ad Auschwitz;
di Dietrich Bonhoeffer, martire della resistenza alla barbarie nazista a
Flossenbürg» (J. Moingt).
Da queste considerazioni si
evince, senza ombra di dubbio, come il pensiero teologico del nostro tempo sia compromesso
con gli eventi cruciali che lo hanno caratterizzato; si può dire davvero – per
riprendere una significativa espressione di Padre Chenu – che la teologia è la
fede che si fa solidale con il proprio tempo.
Le poche parole rubricate come
introduzione, così, fanno intravedere il senso del discoro che intendo
sviluppare:
fare teologia è esercitare
un’attività teoretico – pratica che innesti nel tempo nel quale si vive la Parola perché sia autentica contraddizione. Il gulag staliniano, l’antisemitismo
e la barbarie nazista, non hanno avuto l’ultima parola proprio perché la Parola,
testimoniata da martiri, ne ha rivelato l’insufficienza, l’inanità e la
pericolosità.
Pensare teologica – mente, dunque, significa fare della “fede” non il
porto di pace nel quale ripararsi dai venti della storia ma, piuttosto, una
forza che consente di essere solidali con le vittime delle prepotenze dei
poteri mondani.
Il problema
della teologia non è un problema puramente teorico: non richiede la semplice
interpretazione e l’astratta conciliazione tra fede e realtà, ma impone la
chiarificazione e l’attuazione del rapporto ‘teoria’ e ‘prassi’. La teologia
deve […] ottenere nuovi elementi base, che rendano più facile la sua
comprensione dogmatica. Infatti la teologia dev’essere eminentemente ‘teologia
pratica’. Solo allora, nella continua riflessione critica, non si perderà in un
vuoto formalismo senza seguito
(johann baptist metz)
***
Parlando
ai Professori di Teologia di Altötting, Germania, il 18 Ottobre del 1980,
Giovanni Paolo II, disse: «Tutto l’entusiasmo del sapere teologico deve, alla
fine, portare a Dio stesso». In primo luogo, l’entusiasmo; letteralmente, avere
un dio dentro di sé. Un termine, dunque, già semanticamente compromesso con
il pensare inclinato verso l’Oltre;
in secondo luogo, la finalità: fare
teologia deve portare a Dio e non
soltanto ad occupare posti in accademia o a collocare sul mercato libri
accattivanti. Da dove viene, poi, la lezione fondamentale a chi si occupa di
queste cose? Da chi attingere modelli, indicazioni?
Il
21 Ottobre del 1995, sull’Osservatore
Romano, sempre Giovan ni Paolo II, fornì la sola risposta che ci sentiamo
di sottoscrivere: «Cristo è il Maestro e noi i discepoli. Tutti: professori e
studenti. Anche il Vescovo di Roma: tutti siamo suoi discepoli» [1].
I
due segmenti di riflessione estrapolati da interventi del papa polacco, allora,
vanno saldati:
la teologia va vissuta con
entusiasmo (come se, facendo fede l’etimologia del termine, un dio ci abitasse)
e ha come scopo quello di condurci a Dio stesso; il solo Maestro che può
metterci sulla “strada” giusta è Colui il quale è la Via, Cristo!
In
questo percorso, tuttavia, non restano inattive le possibilità della ragione;
hanno, magari, un determinato e ben identificato ruolo, ma necessitano ad una
teologia che voglia incidere sul nostro tempo. Il problema, semmai, è che certa
filosofia rinuncia a fare i conti con le questioni fondamentali e si configura,
al più, come sforzo per revocare in dubbio quanto eredita dal passato. È
accaduto che il tipico filosofo
postmoderno ha «demolito un tale numero di appigli da non averne più
nemmeno uno al quale sostenersi» [2].
Se
il terreno arrischiato e tremante dei saperi odierni può preoccupare filosofi,
scienziati, il momento di incertezza che coinvolge, a livello epistemico, anche
la teologia non fa paura. Il teologo è un credente! Da questo punto di vista,
si è pienamente d’accordo con l’esclamazione platonica il rischio è bello! Una “mente – teologica”, infatti, nel pensare
la fede solidale con il suo tempo, sa bene che non sta affrontando una
questione meramente teoretica, ma svolge una attività nella quale ne va del Senso: deve mantenere viva, credibile la
fede in Gesù, il solo maestro da riconoscere. Cos’è, però, questa fede che ci
ispira?
Un
“fondamento epistemico” garantito da un “impianto teoretico” sapientemente reso
impermeabile a critiche o una sfida nella quale ne va della vita? La risposta
l’ha data un teologo protestante del Novecento:
«La
fede in Gesù è il rischio di tutti i rischi […]: […] questo atto inaudito,
questo rischio è la via che additiamo» [3].
Ecco
il punto: il teologo addita una via;
anzi, la Via (Cristo) che è un percorso rischioso! La fede è la via del
rischio. C’è chi, tra i sociologi, parla del nostro tempo come dell’età del rischio (U. Beck). L’epistemologia non ha più riferimenti
certi; la scienza sa di poter procedere solo per mezzo delle popperiane
“congetture” e “confutazioni”; non si parla più di “matematica” o di “geometria
euclidea”, ma, piuttosto, delle matematiche e delle geometrie non euclidee…
Complessità,
incertezza, incompletezza, indeterminazione… sono soltanto alcune delle parole
stampate a fuoco sul frontone del nostro tempo! Benedetto XVI, da teologo,
scrisse che «oggi non ci troviamo di fronte ad una crisi isolata della teologia
che non riuscirebbe più a trovare posto in un mondo che basta a se stesso. Noi
ci troviamo piuttosto di fronte ad una crisi fondamentale del rapporto in
genere con la realtà» [4].
Rapportarsi alla realtà è assai problematico per la filosofia, la scienza…
Sono
non poche, tuttavia, le discipline, molti i guru, i personaggi non credibili,
che pretendono di sapere dov’è che stiamo andando; la teologia, invece, sebbene
viva e si alimenti delle promesse escatologiche alle quali la fede aderisce
sinceramente convinta, non ha, per la parte umana,
troppo umana che pure la costituisce,
alcuna presunzione di dire parole inequivocabili sul futuro:
«Il
teologo non è un indovino […] neppure un futurologo […]. Siccome la fede e la
chiesa scendono in quelle profondità dell’uomo, dalle quali sempre di nuovo
proviene il creativamente – nuovo, l’inatteso […], ne risulta che il loro
futuro rimane nascosto anche nell’epoca della futurologia» [5].
La
fede e la Chiesa, interessano le profondità
dell’uomo che non sono strutturate per lasciarsi definitivamente
sequestrare da un immobilismo pacificante; piuttosto, in queste dimensioni,
primeg gia il creativamente nuovo, l’inatteso e, così, fede e futuro si tengono
nell’ottica del rischio e non del tempo “totalmente amministrato” da una
categoria di senso egemone!
Il
teologo non è – scriveva il futuro
Benedetto XVI – un futurologo: fede, Chiesa sono aperte a
sviluppi non preventivabili o prescrivibili dal “sapere teologico”. Vi è
qualcosa di più vicino al pensare postmoderno? Ai nostri giorni, rileva uno
studioso, la «frammentazione dell’esperienza induce la persona a percepire lo
scorrere della vita come un flusso privo di direzione e di destinazione» [6].
La
teologia qui deve apportare un correttivo: se anch’essa ammette che la vita si
da come flusso del “creativamente nuovo” (Ratzinger), alla mentalità anti – teleologica postmoderna mostra
come il flusso ha direzione e destinazione: Dio. Sì, come dicevamo sopra con Giovanni Paolo II, la teologia
deve, alla fine, portare a Dio stesso; indicare al mondo in cammino privo di
punto d’arrivo la meta Trascendente!
Oggi, dicono i critici della Globalizzazione, del liberalismo, il trono
lasciato vacante dal Dio ebraico – cristiano
viene occupato da quella sinistra entità che è il Mercato [7].
Il
lavoro del teologo consiste nel mostrare, annunciando fedelmente e
sapientemente la Parola, che ci si è affidati, invece, ad un idolo. Il “Mercato” può avere
meccanismi nascosti, una “mano invisibile” che lo manovra illudendoci di essere
di fronte ad un vivente, ma la teologia cristiana spiega la differenza tra l’idolo – Mercato ed il Dio – Persona. Differenza rintracciabile,
insomma, nel mistero del Dio ebraico – cristiano: «il mistero sta proprio in questo: Dio ama quelli che
non lo amano tanto più si manifesta a quelli che se ne allontanano quanto più
se ne allontanano» [8]. Il
Mercato, al contrario, non ama, non tiene in considerazione quelli che ne
stanno fuori; non manifesta alcun beneficio per quanti, malgrado loro, se ne
allontanano. Mantiene a distanza quanto è fuori dalle sue regole perché, come
dice il titolo del saggio di Marion (qui, nota 8), l’idolo e la categoria della distanza
si appartengono.
Le
rivoluzioni ispirate da progetti soteriologici esclusivamente di natura mondana
sono contro la Trascendenza perché,
dopo averla violentemente capovolta, mascherata, la chiamano immanenza pur riferendosi ad essa nello
stesso modo con il quale i credenti usavano appellare all’antica Trascendenza. Il grande progetto che ha
iniziato a prendere fisionomia in certe derive filosofico – politiche della
modernità è stato allestito per gradi. In primo luogo, nell’età moderna «l’antropologia di fatto, ma
anche per effettiva necessità, è ormai diventata il terreno sul quale la
teologia dovrà motivare le pretese di validità universale per i suoi enunciati»
[9].
Per i più avvertiti riguardo alla materia che qui entra in gioco, inutile
richiamare l’operazione – Feuerbach: la teologia
si capovolge in antropologia! È
questo uno dei capisaldi di discussione per chi volesse affrontare, in
generale, la intricata questione dell’essenza della modernità. La “parabola
involutiva” è presto tracciata: dal solo
Dio al solo uomo per finire all’uomo solo. L’ubriacatura egologica
raggiunge vertici irradianti veleno quando alla Redenzione (iniziativa di Dio in collaborazione con l’uomo che la
deve consapevolmente e liberamente accettare) si sostituisce la Rivoluzione (iniziativa esclusivamente
umana). In un dialogo immaginario uscito dalla penna di un grande scrittore
dell’Ottocento, dei rivoluzionari rivolgono a Dio queste parole: «Tutto ciò che
esiste ci spiace perché il tuo nome è scritto su tutto ciò che esiste. Vogliamo
distruggere tutto e rifare tutto senza di te» [10].
Il male è che il distruggere tutto è
riuscito bene nel Novecento ed il rifare
tutto si è rivelato un fallimento! Gli “idoli” che hanno sostituito “Dio”
non si sono rivelati amici dell’uomo. Le vicende legate ai nomi degli acerrimi
nemici di Dio sono tutte tinte di sangue e stanno lì, ferite aperte nella
memoria, a ricordarci che «là dove l’esperienza di Dio e con ciò l’esperienza
religiosa in genere vengono a mancare, al loro posto è subentrata l’esperienza
del nulla» [11].
Qual
è, insomma, la condizione nella quale si trova, oggi, la teologia scaturita
dalla modernità? La spinosa questione merita accorti rimandi bibliografici [12].
Esaminiamone,
tuttavia, qualche segmento problematico qui irrinunciabile. Si è parlato di teologia in esilio. Il termine non va
inteso come una damnatio; piuttosto,
è l’opportunità che la teologia ha di prendere le distanze da molte cose, una occasione
di calma meditazione. Se il teologo è preso in una congiuntura inospitale nel clima rovente dell’epoca della
complessità, emerge pure una convinzione: egli aderisce ad una speranza, abita
un modo di essere impermeabile all’ovvio!
L’estraneità della teologia alle proposte dei “saperi contemporanei”, dunque, è
“feconda diversità” da mettere in gioco, una sana provocazione a quanto si
ritiene sistemato – direbbe Wittgenstein – su di un binario morto. La teologia si configura come realtà fuori stagione e lo stesso dicasi per il cristianesimo. L’esilio,
insomma, oltre a rivendicare, più che escludere, il “dialogo” con la cultura
egemone, «costringe a non pretendere di avere un posto privilegiato […],
stimola la produzione di opere che mostrino una complicità senza compromessi
con ciò che si trama nella nostra cultura».
Il
teologo non è “osservatore privilegiato” delle complesse trame del postmoderno,
né deve fare compromessi con esso, pur mostrandosi all’altezza di dialogarvi. Su
nulla accampa pretese e deve preoccuparsi anzitutto di «non tradire la rivelazione
biblica». Molto della produzione editoriale odierna tenta di fare i conti con
le intricate e complesse situazioni esistenziali alle quali i rimedi secolari (politica,
divertimento, droghe) nulla di salutare riescono ad opporre. L’interrogativo sul senso si rivela
insopprimibile ed il teologo «non ha il compito di attenuarlo con delle
risposte frettolose e convenzionali» ma, anzi, deve rafforzarlo. Parlare
dall’esilio è una condizione non agevole, ma può essere, per la teologia, una
situazione da volgere, seguendo le indicazioni ora rubricate, in occasione
favorevole [13].
La
teologia compromessa con le infuocate provocazioni della modernità e del
Novecento: ecco il tema che ci inquieta. Va detto, per ampliare lo spettro
delle possibilità di dibattito, che, un pensatore e teologo italo – tedesco,
rintraccia nell’uscita dalla Prima Guerra Mondiale il dovere di ricordare il senso di smarrimento patito dalla volontà
di promuovere ‘cultura’ e ‘civiltà’.
In
tutto quanto è accaduto prima dell’epoca postmoderna, resta in primo piano, visibile
a tutti, che il credo dell’idealismo, del positivismo si è rivelato
‘infecondo’: «la scienza non è […] colei che succede alla fede, e […] non è in
condizione di governare il corso della vita umana» [14].
Il sapere che aveva preteso di
rendere l’uomo adulto e dissequestrato
dalle tutele Trascendenti ha fallito. La storia non è fattibile more geometrico e gli schemi hegeliani
sono alchimie teoretiche sconfessate dal morso duro della realtà che ha
mostrato come il negativo storico non
precipiti affatto nella quiete calma del pensiero. Le asperità,
il negativo, le ingiustizie non vengono riscattate dal trionfo dello Spirito. La situazione reale è (la teologia la
denuncia) ben altra:
«Non
essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè
la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità la
si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella
giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene. Tale è la situazione del nostro
tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza» [15].
La
posizione dominante che ha prodotto i guasti denunciati da Bonhoeffer, è
questa: i sistemi funzionali della società moderna, non hanno (ma è una fideistica convinzione) «bisogno per le loro
operazioni di alcun sussidio religioso» [16].
La società, ormai, si affida – dice il sociologo dal quale attingiamo – alle contingenze. La religione, in generale,
così, «non cambia nulla di questo stato di cose. Essa non determina quali
prezzi siano politicamente opportuni o giusti e contribuiscano alla felicità
familiare o quali teorie possano venire usate militarmente o industrialmente o
siano adatte a rendere interessante la didattica educativa. Tutto questo deve
essere lasciato alle coincidenze del momento» [17].
La teologia, la religione vengono mandate in esilio dal trionfo delle contingenze
e dalle coincidenze del momento.
Nessun quadro assiologico è inossidabile, né gode di garanzie Trascendenti. La teologia, però, proprio in questa
situazione può mostrare che vive in esilio perché ha una Parola altra da proporre e da opporre a tale appiattimento. In fondo,
continua il sociologo, il richiamo della Trascendenza, l’ammiccamento
all’escatologico, pur curvati in sinistre caricature, continuano a lampeggiare
tra le ceneri della società moderna e, ancor più, tra quelle del postmoderno:
«Metaforicamente si parla […] ancora di prospettive apocalittiche – il sole
calante della teologia proietta lunghe ombre – ma […] il futuro della società è
un problema che può essere formulato solo nella società» [18].
La
teologia, ridotta ad un sole calante,
non può che proiettare lunghe ombre
su di un mondo che vuole amministrarsi facendo a meno di Dio; eppure, qualsiasi
riferimento all’Oltre va indagato per
vedere se, opportunamente connesso ad un genuino messaggio di fede, non possa
dire qualcosa di diverso, di nuovo allo stato di profonda scristianizzazione
nel quale versa ormai l’Occidente.
Un
biologo teorico ha scritto di recente un corposo saggio nel quale ci informa che,
quasi a nostra insaputa, la moderna
società laica patisce quattro
lacerazioni che minacciano seriamente l’integrità dell’humanum e superano, in gravità, ampiamente la scissione che colloca
agli antipodi ‘laico’ e ‘religioso’.
La
prima lacerazione si dà con la
«divisione artificiale tra scienze naturali e scienze umane». Viene richiamato
un fondamentale scritto di Charles Percy Snow, del 1959, Le due culture. Se un tempo le scienze umane dominavano, ormai
dedicarsi ad esse pare quasi una colpa della quale scusarsi: «Einstein o
Shakespeare, ma non entrambi nella stessa stanza».
Seconda lacerazione: lo scientismo, il riduzionismo,
predicano, per lo più, un “mondo di fatti” privi di “valori”. È necessario,
pertanto, allestire «una concezione del mondo in cui i nudi fatti generano
valori».
Terza lacerazione: gli umanisti ‘laici ed
agnostici’ considerano la spiritualità,
al più, come una sciocchezza. «L’uomo – dice con amarezza il biologo – ha
condotto una vita spirituale articolata e pregna di significati per migliaia di
anni e molti umanisti laici ne sono privi».
Quarta lacerazione: i credenti ed i non credenti patiscono egualmente
l’inesistenza di un’etica globale;
una cornice condivisa e mondiale dei
valori, dunque, pare improponibile [19].
La teologia, pur patendo l’esilio, deve fare di tutto per dialogare, senza
compromessi, con le lacerazioni inferte al cuore del nostro tempo. Viene in
mente uno slogan: o la morte o il dialogo! Dobbiamo uscire dalla mentalità del monologo ed entrare nella
mentalità del dialogo [20].
Sviluppare
in teologia la mentalità del dialogo significa
procedere ad una sua salutare de –
occidentalizzazione: rivederne o almeno ampliarne le forme – senza
snaturarne i momenti fondanti e fondamentali – all’insegna del paradigma dell’interculturalità. È bene,
perciò, iniziare col non confondere più le premesse
della ‘nostra’ teologia con i presupposti
che essa, non sempre disinteres satamente, si è data. Raimon Panikkar ha
parlato, correttamente, di crisi dei
presupposti. Spiega che una premessa
è «un principio che io pongo alla base del mio processo raziocinante in modo
più o meno esplicito»; al contrario, un presupposto,
è ciò che «do per scontato in modo acritico e irriflessivo».
Da
quale errore la teologia tradizionale e buona parte di quella moderna devono
uscire?
«Sia
la teologia che la teologia fondamentale […] davano per scontati i presupposti
del mondo occidentale» [21].
Una volta scoperti, però, perdono il potere di incantarci e l’invisibilità che
li contrabbandava per naturali, intoccabili! Resta, per il nostro autore, che
«la base su cui si fonda la teologia è divenuta più problematica dello stesso
contenuto cristiano» [22].
È impossibile pensare la “nostra fede” prescindendo dalle categorie risalenti
alle origini della filosofia occidentale? «È essenziale conservare lo schema
aristotelico – tomistico per poter accettare il messaggio cristiano?»[23].
Solo
rinchiudendosi entro torri d’avorio terminologiche, concet tuali, rese
malignamente impermeabili ai modus
pensandi “altri”, si uccide nella culla la possibilità di “dialogare” con
le “altre” modalità di espressione di quella che un filosofo chiamava la dimensione teologale dell’uomo [24].
La lezione di Panikkar che può di molto migliorare lo “stato attuale” della
teologia, è questa:
«il
dialogo non è semplicemente un espediente per discutere o chiarire opinioni
differenti, ma è esso stesso una categoria religiosa […]. Se io devo scavare
delle fondamenta su cui anche l’altro possa reggersi, ho bisogno del suo aiuto
così che egli possa almeno essere in grado di dirmi se il terreno che ho
trovato va bene anche per lui. Ho bisogno della sua interpretazione di me
stesso e della mia teologia per poter comprendere me stesso e la mia teologia» [25]
Cosa
può in tutto questo la teologia? A parte le considerazioni già svolte,
inviterei a pensarla come Karl Barth; a suo dire, infatti, una buona teologia
non richiede l’assistenza di capaci avvocati, poiché sa difendersi da sola!
Importante anche la lezione dello scrittore Chesterton: l’unico buon argomento
contro il cristianesimo sono i cristiani e, parafrasando, potremmo dire che l’unico argomento contro la teologia sono i
teologi.
Dobbiamo
davvero limitarci a sottoscrivere l’affermazione apodit tica di chi sostiene
che la tecnica ha portato la religione al
suo crepuscolo (U. Galimberti)? Credo avesse ragione Emmanuel Mounier a
dire che, quando sbaglia, il cristianesimo deve farlo con grandezza: mostrando, cioè, audacia, sfidando e mantenendo acceso
il “senso di avventura”…
Per
il filosofo francese, non rimane che dare ragione a quanti sostengono che il
cristianesimo deve ritrovare le strade
della terra e le preoccupazioni quotidiane degli uomini [26].
Il teologo, dunque, deve essere un compagno
di viaggio per l’uomo contemporaneo e, lungo il percorso, come Cristo fece
con i discepoli delusi di Emmaus nel vangelo lucano, narrare il cristianesimo
rileggendolo alla luce delle antiche Scritture. La via è il solo “metodo della teologia” perché, nello stesso vocabolo
c’è il “senso dell’erranza”, del “camminare assieme” per andare più lontano. Teologia è meta – odos: andare “oltre” le strade sulle quali ci si sta
muovendo e lo si può fare soltanto sporcandosi le scarpe sui sentieri
accidentati della vita postmoderna comuni a credenti ed a non credenti.
È
questo il senso che abita l’espressione di Chenu: teologia è la fede che si
fa solidale (non complice) con il proprio tempo. Il teologo
«è colui che osa parlare umanamente la Parola di Dio. Avendola ascoltata la
possiede o più esattamente: essa lo possiede, al punto che egli tende a pensare
con essa e in essa, tende a pensarla […]; tutte le tecniche della ragione
saranno messe all’opera all’interno e a beneficio della percezione mistica del
credente» [27]. Si era
perso, continua il maestro francese, il “senso religioso” della teologia che è,
invece, un fattore di vita spirituale:
«Non si fa teologia aggiungendo corollaria
pietatis a tesi astratte, recise dal loro dato oggettivo e soggettivo» [28].
Informa la “vita spirituale” certo ma, fare teologia, non significa rivestire di
“orpelli pietistici” elaborazioni teoretiche.
Essa
“pensa” la fede che è vita espressa in maniera comunitaria e la Parola, calatasi
nella storia, sottoscrive definitivamente l’adesione del pensiero teologico al
proprio tempo: «Se la parola di Dio si esprime incarnandosi nella storia se
trova il suo soggetto portante nell’uomo come essere storico, ne consegue che
l’intelligenza di questa parola – la teologia – non si elabora più partendo
anzitutto da testi […], ma […] dalla fede attualmente vissuta nella comunità
cristiana e dalla problematica suscitata oggi da quei testi» [29].
Lo
stato attuale della teologia, a partire dalla modernità, lascia comprendere che
essa è ufficio(non solo accademico, intellettuale) che pretende il “saper
attendere”, il “pazientare”. Il teologo Heinrich Ott, celebrava la capacità del
filosofo Heidegger di scendere alla radice delle cose; ne esaltava la capacità
di rivedere, metodicamente, ogni momento del pensare. Heidegger procedeva con
lodevole circospezione, sapeva attendere,
anche per anni, che un pensiero maturasse.
I
teologi sono maggiormente tenuti a procedere in questo modo perché, spiega Ott,
«nell’ambito
della nostra scienza, non possiamo presentare alcun risultato sperimenta le,
nessuna statistica che abbia in sé forza dimostrativa. Noi non possiamo porre
nulla sul tavolo e perciò siamo
chiamati ad attenerci a questa metodica severità
della riflessione. E ciò che
Heidegger dice […] dell’autentico dialogo […]: esso “né pone in risalto un
conflitto di opinioni, né tollera un arrendevole acconsentire”. Esso “rimane
liberamente esposto al soffiar dei venti, alla forza del reale” […] vale né più
né meno, allo stesso modo, che per una teologia onesta» [30].
Una
teologia onesta, dunque, non può che
essere quella capace di non speculare sui conflitti di opinione, né può pacificarsi,
in maniera vile, in facili irenismi; deve essere, piuttosto, pronta a lasciarsi
minacciare dai venti e dalla forza del reale e, in tutto questo, pazientemente
elaborare il metodo migliore per far comprendere
che la Parola di Dio è altra (inquieta
lo status quo), ma non estranea (indifferente alle sorti della
storia perché atemporale)! Una ricerca
lunga, appassionata, ma non dei “fondamenti indiscutibili” da eleggere a
sostegno delle proprie argomentazioni; la teologia, piuttosto, deve indugiare,
sostare presso il “momento della Croce”. La Risurrezione
non va affrettatamente annunciata, ma letta “attentamente” attraverso l’evento della Croce! La fioritura del
pensiero è autentica, piena, solo se ne attendiamo per anni la maturazione
(Heidegger); una teologia è onesta, autentica, se sa indugiare presso la Croce
prima di annunciare trionfalmente la Risurrezione. Gli uomini del nostro tempo ascolteranno
i teologi soltanto se gli annunciatori della Spe Salvi sosteranno presso le “croci” dei “poveri cristi”
prendendo, così, sul serio i “dolori del mondo”. Non è più tempo di
architetture teologiche sontuose: urgente è scendere tra le pieghe e le piaghe del “mondo contemporaneo” attualizzando il gesto di
abbassamento verso gli altri (kenosis)
già operato dal Dio che si fa crocifiggere per amore nostro! Dice un autorevole
studioso:
«La
teologia cristiana è […] sempre fissata nella ricerca di continuità, di unità,
di fondamenti […]. È questo necessario, legit timo, utile? Non sarebbe più vero
teologicamente, umanamente e fenomenologicamente indugiare più a lungo nel
luogo […] della rottura, della croce, senza appellarsi subito alla risurrezione
[…]? […]. Appena pensabile è sinora […] una teologia che lasciasse aperto
molto, leggesse proprio la Scrittura, la croce e la storia della Chiesa con
diverse ottiche e garantisse anche la perplessità, la quale conviene al teologo
più che a chiunque altro» [31].
La
teologia che vuole risultare feconda nel nostro tempo deve essere onesta: indugiare, pazientare più a lungo nel luogo della rottura della
Croce; operazione che si rivela credibile soltanto se il teologo sosta, si
trattiene “pazientemente” (“patire”) più
a lungo nel luogo della rottura delle croci dei poveri cristi.
Cosa
“rompono”, “spezzano” queste “croci”? Le granitiche certezze di quelle che
Leopardi chiamava le magnifiche sorti e
progressive del moderno mito del Progresso! Si dice che, a partire dalla
modernità, è diventato assai difficile (qualcuno parla di “impossibilità”)
proporre la fede cristiana zavorrata di dogmi e contenuti dottrinari. Un
pericolo? Una minaccia? Dipende dal luogo nel quale ci collochiamo per
osservare il fenomeno.
Se
muoviamo dall’urgenza di donare all’uomo contemporaneo almeno il gusto per la “ricerca
del Senso”, nell’esilio della teologia cogliamo una occasione preziosa. Si tratta,
infatti, di tentare, come vedremo tra poco, malgrado il fastidio che tale proposta
genera in molti, la strada indicata da un esponente della “Scuola di
Francoforte”. L’elaborazione di una teoria
critica della società non può non partire, nel Novecento, da un inquietante
ed inesausto interrogarsi intorno allo scempio dell’Olocausto. Dopo Auschwitz, ci si chiede, è ancora possibile fare
teologia, poesia, narrativa, scienza, nei modi conosciuti e patrocinati agli
albori della modernità? Il campo vastissimo del dibattito, ora, si allaga di aporie scottanti.
Si
ha l’impressione, tuttavia, che l’uomo postmoderno stia con leggerezza proprio tra
aporie e disorientamento: si elaborano, compiaciuti, in questo cerchio di
fuoco, delle filosofie (pensiero debole, decostruzionismo…).
È
la tesi degli apologisti del disastro!
L’uomo postmoderno, in realtà, in tal guisa atteggiandosi, appare – ad uno
sguardo critico attento ed onesto – simile ad un «prigioniero che ama la sua
cella perché non gli viene concesso altro da amare» [32].
Dopo
le mattanze che hanno deturpato il volto del “secolo breve”, resta in piedi una
domanda con la quale anche (se non soprattutto) la teologia deve fare
seriamente i conti: «perché l’umanità invece di entrare in uno stato veramente
umano, sprofonda in un nuovo genere di barbarie?» [33].
Secoli
di civiltà cristiana, letteraria, artistica, finiscono in frantumi sotto i
colpi di una barbarie che non si sa se definire il risultato di una “ragione
esaltata” o di una “ragione andata a male”; nel primo caso, la barbarie è la
conseguenza di una ragione che si è pretesa unica, universale, assolutamente
normativa; nel secondo caso, invece, deriva dal decadimento di una ragione che
avrebbe potuto costituire, opportunamente controllata, la nostra fortuna! La
teologia, che pure si giova delle “tecniche”, delle “procedure” della ragione,
non può sottrarsi al dibattito: il futuro della ragione la interessa non poco. Quando
muore o manca di nascere una civiltà benefica verso la nostra piena
umanizzazione, anche gli interessi teologici, religiosi, patiscono letali
ridimensionamenti. Se, allora, per il marxismo il problema era la Rivoluzione mancata, per noi, oggi, la
questione dominante è quella della civiltà
mancata [34] ? Un “anelito
di giustizia” sale dalle voci lamentose delle vittime compresse sotto le
macerie della “civiltà mancata”; se la teologia deve presentarsi alleggerita (inizialmente)
delle zavorre dogmatiche (ritenute, in verità, tali da uomini non educati
cristianamente), può inserirsi proficuamente nei disastrati luoghi del non
senso, soltanto raccogliendo tali voci ed assumendosi l’onore e l’onere di
tentare risposte.
È
qui che assumono valore le provocazioni di un esponente della “Scuola di
Francoforte”.
Max
Horkheimer, infatti, sosteneva che le “confessioni religiose” possono e devono
continuare ad esistere, ma non più come “dogmi”, bensì, come espressione di un anelito (di giustizia,
Salvezza, Redenzione)!
Le
religioni hanno sviluppato un irrinunciabile concetto di infinito e, per questo, non possono pietrificarsi del tutto in
“apparati dogmatici”. Aggiungeva: alcuni usi religiosi del passato vengono
conservati proprio allo scopo di elargire ossigeno all’anelito degli affitti. Credere di poter agire e pensare nelle cose
religiose con atteggiamento da proprietario, inoltre, è insensato. Horkheimer,
a tal proposito, citava una frase dell’Antico Testamento: “Tu non devi farti
immagine di Dio!”. Intendeva dire: pur potendo dare una definizione dei mali, siamo impossibilitati a spiegare
cos’è giusto in assoluto.
Non
potersi fare immagini di Dio è comandamento riscrivibile in questi termini: “Tu
non puoi dire che cos’è il bene assoluto, non lo puoi rappresentare”. In un
saggio, muovendo ancora nel solco di queste riflessioni, si chiedeva se non si
debba innanzitutto sottolineare
«come
tutti i sistemi e i concetti teologici, nel loro senso positivo, non siano più
sostenibili. Alla base delle religioni, compresa quella ebraica, sta l’idea di
un essere eterno, la sua onnipotenza e giustizia. Ma ciò che gli organi umani
sono in grado di conoscere è la finitezza di tutto ciò che esiste, compreso
l’uomo stesso […]. Che in tanti luoghi della terra regnino l’ingiustizia e
l’orrore […] è evidente […].Se la tradizione, le categorie religiose, in
particolar modo la giustizia e la bontà divina, non vengono presentate come
dogmi, come verità assoluta, bensì come l’anelito di chi è capace di vera
afflizione, ebbene, proprio perché le dottrine non possono essere dimostrate ed
implicano il dubbio, la convinzione teologi ca, […] potrà essere preservata in
forma adeguata […]. Mi limito ad osservare che la religione dovrà comprendere
il dubbio: la sua salvezza è possibile solo a questa condizione» [35].
Abbiamo
già detto, con Pareyson, che, se il cristianesimo vuole rimanere attuale, deve
guardare in faccia alla possibilità
presente della sua negazione. Con Horkheimer, poi, viene in chiaro che la
religione si salverà unicamente se saprà comprendere
il dubbio. I due corni del dilemma, saldandosi, a mio avviso, costituiscono
le prime e fondamentali preoccupazioni che tengono desto il pensare teologico.
La teologia, infatti, è, da molto, in uno stato
di tensione tra i poli minacciosi
della negazione del cristianesimo e
della generale insidia del dubbio
riguardo alle religioni.
Si
spiega, dunque, perché avesse ragione Heinrich Ott (citato sopra) a sostenere
che una teologia onesta deve – per
riprendere parole che egli assume da Heidegger – non “porre in risalto un
conflitto di opinioni”, né “tollerare un arrendevole acconsentire”, bensì sforzarsi
di rimanere liberamente esposta al soffiar dei venti, “alla forza del reale”. Il
“rischio della fede” cresce e porta frutto quando non rinuncia all’urto con la realtà. Il solo schianto che
incenerisce gli sforzi del teologo è la rinuncia a pensare strutturando, per sé
ed a beneficio di tutti, una mente –
teologica in grado di comprendere e far comprendere l’irrinunciabile dovere
di pensare “anche” teologica – mente.
Un simile ufficio, poi, si svolge con gli occhi rivolti all’escatologico e con i piedi ben piantati
nella storia.
Volendo
modificare ad usum Delphini una
celebre affermazione di Kant:
la
fede senza il tempo è cieca ed il tempo senza la fede è vuoto!
[1] Ha notevole importanza, qui,
dedicare del tempo ad una “cristologia fenomenologica” in quanto è solo «la
storia di Gesù» che «realizza la verità di Dio che manifesta» (a. bertuletti, Il significato di una formula inconsueta, in «Teologia», XXIII
(1998) n. 3, pp. 241 – 247). Un altro autore, poi, sempre nella stessa rivista,
sostiene che occorre «far valere la storia di Gesù come forma effettuale della verità ontologica di Dio» (p. a. sequeri, L’interesse teologico di una
fenomenologia di Gesù: giustificazione e prospettive, in «Teologia», cit.
pp. 289 – 329).
[2] Cfr., a. g. gargani, Episteme
e azione: verso una filosofia post –
analitica, in f. bianco – g. di bernardo (a cura di), Episteme e azione, Milano 1991, p. 190.
Non è questa la sede per dibattere intorno al postmoderno, ma sento di dover
precisare che si è davanti ad una materia complessa, fluida… Il termine postmoderno, detto altrimenti, «unifica
fenomeni eterogenei e ha […] uno spettro semantico tanto ampio, quanto equivoco
[…], infatti, l’odierno discorso sul “postmoderno” esprime più una tendenza che
non i suoi esiti definitivi dicendo qualcosa sul distacco rispetto al “già”
della precedente fase […], ma tacendo sulla portata del “non ancora”» (p. vanzan, Quali linee e soggetti per una nuova evangelizzazione del mondo post-moderno, in «La Civiltà Cattolica»
139 (1988), II, pp. 245 – 258, qui p. 247).
[3] k.
barth, L’Epistola ai Romani,
Milano 1974, p. 73.
[4] Cfr., j. ratzinger, Fede e
futuro, Brescia 1984, p. 79.
[5] Ibid., p. 101.
[6] Cfr., v. cesareo – i.
vaccarini, La libertà
responsabile. Soggettività e mutamento sociale, Milano 2005, p. 172. Le
identità sono fluide, sempre riscrivibili. L’argomento è ben studiato in f. alfano miglietti, Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni
contemporanee, Milano 2008
[7] «Fin dai primi stadi della
storia umana – scrive H. Cox – […] ci sono stati bazar, negozi, luoghi di
scambio commerciali – tutti mercati. Mai però il mercato era Dio, perché
c’erano altri centri di valore e di significato, altri déi […]. Solo negli
ultimi due secoli il Mercato si è innalzato al di sopra di questi semidei […]
per diventare la Causa Prima di oggi» (Cit. da mary
grey, Dalle “fondamenta scosse” ad
una diversa integrità. La spiritualità come risposta alla frammentazione in «Concilium», 2/2006, pp. 94 – 105, qui p.
97).
[8] j.
– l. marion, L’idolo e la distanza,
Milano 1979, p. 218.
[9] Cfr., w. pannenberg, Antropologia
in prospettiva teologica, Brescia 1987, p. 17.
[10] j.
de maistre, Saggio sul principio
generatore delle costituzioni politiche, Milano 1982, p. 92. Il solo uomo, ridotto ad uomo solo, però, di fronte al divenire
privo di direzione e meta, patisce la vertigine
dell’indeterminato. L’ossessione protagorea (Protagora diceva che l’uomo è
misura di tutte le cose) istituisce una falsa unità di misura
dell’esistente: l’ego!
L’incomprensibilità del mondo si fa vertigine e precipita nel gorgo
dell’insensatezza. Da giovane, un filosofo che pesantemente criticò la
religione nel cuore della modernità, scrisse: «Mi vengono le vertigini […] non
sappiamo quale parte è la destra e quale la sinistra, e perciò […] corriamo in
giro, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo nell’arena e il gladiatore,
precisamente la vita, ci uccide; dobbiamo
avere un nuovo Salvatore» (k. marx,
Scorpio e Felice, in Opere complete, Roma 1971, I, p. 717).
[11] Cfr., b. welte, La luce del
nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, gdt 142,
Brescia 1990, p. 37.
[12] Alla “frammentazione dei
saperi”, molti fanno corrispondere, nel ‘postmoderno’, una “frammentazione
della teologia”: s. dianich, La frammentazione della teologia, in s. muratore (ed.), Teologia e formazione teologica. Problemi e prospettive, Cinisello Balsamo 1996, pp. 1 – 12. Il
“metodo” riguardo l’esercizio della teologia va rinnovato? Come? Per questo
aspetto del problema, rilevante è w.
kasper, Per un rinnovamento del
metodo teologico, Brescia 1969. Come deve avvenire una retta “formazione
teologica”? g. lafont, La formazione teologica e i temi fondamentali, in «Lateranum» 56 (1990),
pp. 525 – 551. Il primo passo riguardo a tale ‘formazione’ sta nel far
comprendere che la teologia è, soprattutto, una ‘pratica’: b. lauret – f. refoulé (edd.), Iniziazione
alla pratica della teologia, Brescia 1986 – 1987. Il fine di una buona metodologia, formazione, iniziazione
è, in questo campo, quello di comprendere e la natura e i compiti della
teologia: j. ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo
nella disputa contemporanea. Storia e
dogma, Milano 1993. Per una intelligenza più ampia del termine, si veda c. vagaggini, «Teologia», in g. barbaglio – s. dianich (edd.), Nuovo
Dizionario di Teologia, Cinisello Balsamo 1982, p. 1649.
[13] Ho attinto a ch. duquoc, La teologia in esilio. La sfida della sua sopravvivenza nella cultura
contemporanea, gdt 302, Brescia 2004, pp. 97 – 99. L’“esilio” non vanifica,
insisto, lo sforzo di pensare teologica –
mente; fare teologia ha un giustificato perché
in ogni caso. Cfr., g. colombo, Perché la teologia, Brescia 1992.
[14] Cfr., r. guardini, Etica.
Lezioni all’Università di Monaco 1950 – 1962, Brescia 2001, pp. 99s.
[15] La spietata, ma impeccabile
analisi del periodo successivo alla sbornia degli entusiasmi fallaci della
modernità è stata fatta da un teologo protestante che sulla propria pelle ha
conosciuto la deriva, il fallimento delle troppo ottimistiche istanze del
pensiero e delle ideologie moderne: fu, infatti, impiccato dai nazisti! Ci
riferiamo a d. bonhoeffer, Etica, Milano 1969, p. 91.
[16] Cfr., n. luhmann, Osservazioni
sul moderno, Roma 2006, p. 82.
[17] Ibid., p. 83.
[18] Ibid., pp. 85 – 86. In questa situazione deve mostrarsi in tutta la
sua carica sovversiva la proposta cristiana. Bonhoeffer non tollerava, ad
esempio, che Dio (così si esprimeva) venga
ficcato di contrabbando in qualche estremo e segreto ricettacolo. Si
tratta, piuttosto, a dire del teologo protestante, di prendere atto che “uomo”
e “mondo” hanno raggiunto l’età adulta
e di Dio si può parlare in maniera nuova, non ricorrendo ad accademismi
irricevibili dalle coscienze contemporanee.
[19] s.
kauffman, Reinventare il sacro.
Una nuova concezione della scienza, della ragione e delle religioni, Torino
2010, pp. 9 – 11. Il mondo contemporaneo
chiede al teologo di narrare, con linguaggio aderente alla sensibilità
dell’uomo adulto, le “ragioni” della sua “speranza cristiana” (g. caviglia, Le ragioni della speranza
cristiana (1Pt 3, 15), Leumann (TO) 1981). Sì, ma abbiamo precisato che
tali “ragioni” devono calarsi nella mentalità postmoderna; utile, allora, per
mostrare i fondamenti della “speranza
cristiana” in questo particolare clima storico - culturale, dotarsi di un libro
ricco di feconde indicazioni: h.
waldenfels, Teologia fondamentale
nel contesto del mondo contemporaneo,
Cinisello Balsamo (MI) 1988.
[20] È questo l’argomento che sta al
cuore di un ampio dibattito registrato in: j.
b. cobb – m. hellwig – l. swidler – p. f. knitter, Death
or Dialogue? From the
Age of Monologue to the Age of Dialogue,
Philadelphia 1990.
[21] Cfr., r. panikkar, Mito,
fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, Milano 2000, p. 318.
[22] Ibid., p. 319.
[23] Ibid., p. 322.
[24] «La dimensione teologale è […]
un momento costitutivo della realtà umana, un momento strutturale di essa […].
Il problema di Dio […] non è un problema qualsiasi, arbitrariamente posto dalla
curiosità umana, bensì è la realtà umana stessa nel suo costitutivo
problematicismo» (x. zubiri, Il problema dell’uomo. Antropologia
filosofica [Opere – I], Palermo
1985, pp. 170 – 171). Se la “dimensione teologale” ci riguarda
“ontologicamente”, vuol dire che siamo “responsabili nella fede” in quanto “ne
va di noi stessi”: j. werbick, Essere responsabili nella fede. Una teologia fondamentale, Brescia 2002.
[25] r.
panikkar, Mito, fede ed
ermeneutica, cit. p. 326. La via del
dialogo è l’imperativo categorico per
chi vuole fare teologia senza perdere l’ascolto dell’uomo postmoderno: «La
teologia rappresenta lo sforzo costante della Chiesa per restare in contatto
col mondo e coi suoi problemi, coi suoi dubbi e i suoi progetti. Essa
stabilisce uno scambio continuo tra la fede e la ragione, tra il mondo e Dio,
tra il profano e il sacro. Confronta la fede coi nuovi problemi che affronta
l’umanità. Perciò deve vivere nella meditazione incessante della parola di Dio
per coglierne i punti di inserzione nel mondo d’oggi» (r. latourelle, Teologia
scienza della salvezza, Assisi 2005, p. 27)
[26] Si consiglia di attraversare
integralmente il saggio nel quale il filosofo propone una ripresa del modello
cristiano di vita in tutta la sua antica genuinità: e. mounier, Agonia del
Cristianesimo?, Vicenza 1960. Il titolo richiama un libro del 1925 del
collega basco Miguel de Unamuno, Agonia
del Cristianesimo. Il termine agonia
non denuncia un travaglio, bensì evoca, etimologicamente, una lotta! Il cristianesimo deve ritrovare le strade della terra e le
preoccupazioni quotidiane degli uomini? Il concetto è stato ribadito
poeticamente da un poeta indiano: [Dio] «sta dove il contadino ara la dura
terra/ dove colui che lastrica il sentiero spacca le pietre/ è là vicino a/
loro, nel sole e nella pioggia,/ con le sue vesti impolverate/. Levati il sacro
manto e come lui scendi nel mezzo della polvere! […]/ […]/ Vagli incontro e
resta lì con lui/ nel lavoro intenso e nel sudore della fronte» (r. tagore, Gitanjali, canti di offerta, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p. 47
[poema XI]). Nessuno ci assicura, tuttavia, che tale operazione renda gli
uomini davvero disponibili ad aprirsi al messaggio cristiano; anzi, per un
filosofo italiano, l’attualità del cristianesimo
si prova proprio nel suo saper guardare in faccia alla possibilità presente
della sua negazione (cfr., l. pareyson,
Esistenza e persona, Genova 1985, p.
12).
[27] Cfr., m. d. chenu, Le
Saulchoir. Una scuola di teologia, Genova 1982, p. 55.
[28] Ibid., p. 56.
[29] m.
d. chenu, Un nuovo evento: i teologi del Terzo Mondo,
in «Concilium» 17/4 (1981), pp. 44 – 53, qui p. 49.
[30] Cit. in Colloquio con Martin Heidegger, a cura di richard wisser, Roma 1972, p. 57.
[31] Cfr., e. salmann, Passi e
passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede,
Assisi 2009, p. 76.
[32] e.
fromm, Metodo e funzione di una
psicologia analitica sociale, in id.,
La crisi della psicoanalisi, Milano
1971, p. 180.
[33] m.
horkheimer – th. w- adorno,
Dialettica dell’illuminismo, Torino
1997, p. 3.
[34] La “Scuola di Francoforte”, meditando
sulla barbarie nazista, si vide costretta a spostare il baricentro della sua
attenzione da una «teoria della rivoluzione mancata a una teoria della civiltà
mancata»(r wiggershaus, La Scuola
di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico, Torino
1992, p. 321).
[35] Cfr., m. horkheimer, Sul
dubbio, in id., Studi di filosofia della società, Torino
1981, pp. 146 – 147.
Nessun commento:
Posta un commento