Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Riflessioni sullo stato attuale della Teologia


È certo e penso che siamo d’accordo sul fatto che il tipo di vita religiosa determinato dall’ambiente e dalla tradizione […] va scomparendo […] oggi esistono problemi e tentazioni che non derivano solo dal rifiuto peccaminoso del singolo, ma dalla struttura del mondo contemporaneo, che intacca sempre più tutti gli strati della comunità religiosa. Così lo sforzo della teologia di giustificare la fede, non è più un elemento supplementare, che si aggiunge dal di fuori a un’esistenza religiosa appagante, ma è in un senso decisivo un momento della situazione del credente
(johann baptist metz)



In questa riflessione tenterò di fornire elementi per un dibattito che sente l’urgenza di collocare ai primi posti, nell’agenda delle questioni teologiche, lo stato di salute nel quale versa, appunto, la teologia a partire dalla modernità; in verità, farò anche qualche incursione nel postmoderno.
Il testo che presento è uno stimolo ad aprire ben più ampie piste di ricerca e, dunque, si presenta non “rigidamente sistematico” e “necessariamente lacunoso”; eppure, qualche inquietante momen to riflessivo credo riesca ad attivarlo.
Entro subito in argomento richiamando l’opinione (condivisibile senza sforzo) di un teologo che mostra come la teologia moderna e, per molti aspetti, quella contemporanea

«ha fatto fronte ad una prodigiosa evoluzione delle mentalità e delle conoscenze, a una impressionante ondata di fondo di incredulità che ha scosso il cristianesimo dalle sue fondamenta, una teologia che si è fatta l’interprete delle esperienze e delle aspirazioni dei cristiani e delle cristiane del nostro tempo. Nel ‘secolo del martirio’, come è stato definito il Novecento cristiano, anche la teologia europea ha pagato il suo tributo: basterà ricordare i nomi del teologo ortodosso Pavel Florenskij, vittima del gulag staliniano; di Edith Stein, martire dell’antisemitismo ad Auschwitz; di Dietrich Bonhoeffer, martire della resistenza alla barbarie nazista a Flossenbürg» (J. Moingt).

Da queste considerazioni si evince, senza ombra di dubbio, come il pensiero teologico del nostro tempo sia compromesso con gli eventi cruciali che lo hanno caratterizzato; si può dire davvero – per riprendere una significativa espressione di Padre Chenu – che la teologia è la fede che si fa solidale con il proprio tempo.
Le poche parole rubricate come introduzione, così, fanno intravedere il senso del discoro che intendo sviluppare:
fare teologia è esercitare un’attività teoretico – pratica che innesti nel tempo nel quale si vive la Parola perché sia autentica contraddizione. Il gulag staliniano, l’antisemitismo e la barbarie nazista, non hanno avuto l’ultima parola proprio perché la Parola, testimoniata da martiri, ne ha rivelato l’insufficienza, l’inanità e la pericolosità.
Pensare teologica – mente, dunque, significa fare della “fede” non il porto di pace nel quale ripararsi dai venti della storia ma, piuttosto, una forza che consente di essere solidali con le vittime delle prepotenze dei poteri mondani.



















Il problema della teologia non è un problema puramente teorico: non richiede la semplice interpretazione e l’astratta conciliazione tra fede e realtà, ma impone la chiarificazione e l’attuazione del rapporto ‘teoria’ e ‘prassi’. La teologia deve […] ottenere nuovi elementi base, che rendano più facile la sua comprensione dogmatica. Infatti la teologia dev’essere eminentemente ‘teologia pratica’. Solo allora, nella continua riflessione critica, non si perderà in un vuoto formalismo senza seguito
(johann baptist metz)

***

Parlando ai Professori di Teologia di Altötting, Germania, il 18 Ottobre del 1980, Giovanni Paolo II, disse: «Tutto l’entusiasmo del sapere teologico deve, alla fine, portare a Dio stesso». In primo luogo, l’entusiasmo; letteralmente, avere un dio dentro di sé. Un termine, dunque, già semanticamente compromesso con il pensare inclinato verso l’Oltre; in secondo luogo, la finalità: fare teologia deve portare a Dio e non soltanto ad occupare posti in accademia o a collocare sul mercato libri accattivanti. Da dove viene, poi, la lezione fondamentale a chi si occupa di queste cose? Da chi attingere modelli, indicazioni?
Il 21 Ottobre del 1995, sull’Osservatore Romano, sempre Giovan ni Paolo II, fornì la sola risposta che ci sentiamo di sottoscrivere: «Cristo è il Maestro e noi i discepoli. Tutti: professori e studenti. Anche il Vescovo di Roma: tutti siamo suoi discepoli» [1].
I due segmenti di riflessione estrapolati da interventi del papa polacco, allora, vanno saldati:
la teologia va vissuta con entusiasmo (come se, facendo fede l’etimologia del termine, un dio ci abitasse) e ha come scopo quello di condurci a Dio stesso; il solo Maestro che può metterci sulla “strada” giusta è Colui il quale è la Via, Cristo!

In questo percorso, tuttavia, non restano inattive le possibilità della ragione; hanno, magari, un determinato e ben identificato ruolo, ma necessitano ad una teologia che voglia incidere sul nostro tempo. Il problema, semmai, è che certa filosofia rinuncia a fare i conti con le questioni fondamentali e si configura, al più, come sforzo per revocare in dubbio quanto eredita dal passato. È accaduto che il tipico filosofo postmoderno ha «demolito un tale numero di appigli da non averne più nemmeno uno al quale sostenersi» [2].
Se il terreno arrischiato e tremante dei saperi odierni può preoccupare filosofi, scienziati, il momento di incertezza che coinvolge, a livello epistemico, anche la teologia non fa paura. Il teologo è un credente! Da questo punto di vista, si è pienamente d’accordo con l’esclamazione platonica il rischio è bello! Una “mente – teologica”, infatti, nel pensare la fede solidale con il suo tempo, sa bene che non sta affrontando una questione meramente teoretica, ma svolge una attività nella quale ne va del Senso: deve mantenere viva, credibile la fede in Gesù, il solo maestro da riconoscere. Cos’è, però, questa fede che ci ispira?
Un “fondamento epistemico” garantito da un “impianto teoretico” sapientemente reso impermeabile a critiche o una sfida nella quale ne va della vita? La risposta l’ha data un teologo protestante del Novecento:
«La fede in Gesù è il rischio di tutti i rischi […]: […] questo atto inaudito, questo rischio è la via che additiamo» [3].
Ecco il punto: il teologo addita una via; anzi, la Via (Cristo) che è un percorso rischioso! La fede è la via del rischio. C’è chi, tra i sociologi, parla del nostro tempo come dell’età del rischio (U. Beck). L’epistemologia non ha più riferimenti certi; la scienza sa di poter procedere solo per mezzo delle popperiane “congetture” e “confutazioni”; non si parla più di “matematica” o di “geometria euclidea”, ma, piuttosto, delle matematiche e delle geometrie non euclidee…
Complessità, incertezza, incompletezza, indeterminazione… sono soltanto alcune delle parole stampate a fuoco sul frontone del nostro tempo! Benedetto XVI, da teologo, scrisse che «oggi non ci troviamo di fronte ad una crisi isolata della teologia che non riuscirebbe più a trovare posto in un mondo che basta a se stesso. Noi ci troviamo piuttosto di fronte ad una crisi fondamentale del rapporto in genere con la realtà» [4]. Rapportarsi alla realtà è assai problematico per la filosofia, la scienza…
Sono non poche, tuttavia, le discipline, molti i guru, i personaggi non credibili, che pretendono di sapere dov’è che stiamo andando; la teologia, invece, sebbene viva e si alimenti delle promesse escatologiche alle quali la fede aderisce sinceramente convinta, non ha, per la parte umana, troppo umana che pure la costituisce, alcuna presunzione di dire parole inequivocabili sul futuro:
«Il teologo non è un indovino […] neppure un futurologo […]. Siccome la fede e la chiesa scendono in quelle profondità dell’uomo, dalle quali sempre di nuovo proviene il creativamente – nuovo, l’inatteso […], ne risulta che il loro futuro rimane nascosto anche nell’epoca della futurologia» [5].
La fede e la Chiesa, interessano le profondità dell’uomo che non sono strutturate per lasciarsi definitivamente sequestrare da un immobilismo pacificante; piuttosto, in queste dimensioni, primeg gia il creativamente nuovo, l’inatteso e, così, fede e futuro si tengono nell’ottica del rischio e non del tempo “totalmente amministrato” da una categoria di senso egemone!

Il teologo non è – scriveva il futuro Benedetto XVI – un futurologo: fede, Chiesa sono aperte a sviluppi non preventivabili o prescrivibili dal “sapere teologico”. Vi è qualcosa di più vicino al pensare postmoderno? Ai nostri giorni, rileva uno studioso, la «frammentazione dell’esperienza induce la persona a percepire lo scorrere della vita come un flusso privo di direzione e di destinazione» [6].
La teologia qui deve apportare un correttivo: se anch’essa ammette che la vita si da come flusso del “creativamente nuovo” (Ratzinger), alla mentalità anti – teleologica postmoderna mostra come il flusso ha direzione e destinazione: Dio. Sì, come dicevamo sopra con Giovanni Paolo II, la teologia deve, alla fine, portare a Dio stesso; indicare al mondo in cammino privo di punto d’arrivo la meta Trascendente! Oggi, dicono i critici della Globalizzazione, del liberalismo, il trono lasciato vacante dal Dio ebraico – cristiano  viene occupato da quella sinistra entità che è il Mercato [7].
Il lavoro del teologo consiste nel mostrare, annunciando fedelmente e sapientemente la Parola, che ci si è affidati, invece, ad un idolo. Il “Mercato” può avere meccanismi nascosti, una “mano invisibile” che lo manovra illudendoci di essere di fronte ad un vivente, ma la teologia cristiana spiega la differenza tra l’idoloMercato ed il DioPersona. Differenza rintracciabile, insomma, nel mistero del Dio ebraicocristiano: «il mistero sta proprio in questo: Dio ama quelli che non lo amano tanto più si manifesta a quelli che se ne allontanano quanto più se ne allontanano» [8]. Il Mercato, al contrario, non ama, non tiene in considerazione quelli che ne stanno fuori; non manifesta alcun beneficio per quanti, malgrado loro, se ne allontanano. Mantiene a distanza quanto è fuori dalle sue regole perché, come dice il titolo del saggio di Marion (qui, nota 8), l’idolo e la categoria della distanza si appartengono.

Le rivoluzioni ispirate da progetti soteriologici esclusivamente di natura mondana sono contro la Trascendenza perché, dopo averla violentemente capovolta, mascherata, la chiamano immanenza pur riferendosi ad essa nello stesso modo con il quale i credenti usavano appellare all’antica Trascendenza. Il grande progetto che ha iniziato a prendere fisionomia in certe derive filosofico – politiche della modernità è stato allestito per gradi. In primo luogo, nell’età moderna «l’antropologia di fatto, ma anche per effettiva necessità, è ormai diventata il terreno sul quale la teologia dovrà motivare le pretese di validità universale per i suoi enunciati» [9]. Per i più avvertiti riguardo alla materia che qui entra in gioco, inutile richiamare l’operazione – Feuerbach: la teologia si capovolge in antropologia! È questo uno dei capisaldi di discussione per chi volesse affrontare, in generale, la intricata questione dell’essenza della modernità. La “parabola involutiva” è presto tracciata: dal solo Dio al solo uomo per finire all’uomo solo. L’ubriacatura egologica raggiunge vertici irradianti veleno quando alla Redenzione (iniziativa di Dio in collaborazione con l’uomo che la deve consapevolmente e liberamente accettare) si sostituisce la Rivoluzione (iniziativa esclusivamente umana). In un dialogo immaginario uscito dalla penna di un grande scrittore dell’Ottocento, dei rivoluzionari rivolgono a Dio queste parole: «Tutto ciò che esiste ci spiace perché il tuo nome è scritto su tutto ciò che esiste. Vogliamo distruggere tutto e rifare tutto senza di te» [10]. Il male è che il distruggere tutto è riuscito bene nel Novecento ed il rifare tutto si è rivelato un fallimento! Gli “idoli” che hanno sostituito “Dio” non si sono rivelati amici dell’uomo. Le vicende legate ai nomi degli acerrimi nemici di Dio sono tutte tinte di sangue e stanno lì, ferite aperte nella memoria, a ricordarci che «là dove l’esperienza di Dio e con ciò l’esperienza religiosa in genere vengono a mancare, al loro posto è subentrata l’esperienza del nulla» [11].

Qual è, insomma, la condizione nella quale si trova, oggi, la teologia scaturita dalla modernità? La spinosa questione merita accorti rimandi bibliografici [12].
Esaminiamone, tuttavia, qualche segmento problematico qui irrinunciabile. Si è parlato di teologia in esilio. Il termine non va inteso come una damnatio; piuttosto, è l’opportunità che la teologia ha di prendere le distanze da molte cose, una occasione di calma meditazione. Se il teologo è preso in una congiuntura inospitale nel clima rovente dell’epoca della complessità, emerge pure una convinzione: egli aderisce ad una speranza, abita un modo di essere impermeabile all’ovvio! L’estraneità della teologia alle proposte dei “saperi contemporanei”, dunque, è “feconda diversità” da mettere in gioco, una sana provocazione a quanto si ritiene sistemato – direbbe Wittgenstein – su di un binario morto. La teologia si configura come realtà fuori stagione e lo stesso dicasi per il cristianesimo. L’esilio, insomma, oltre a rivendicare, più che escludere, il “dialogo” con la cultura egemone, «costringe a non pretendere di avere un posto privilegiato […], stimola la produzione di opere che mostrino una complicità senza compromessi con ciò che si trama nella nostra cultura».
Il teologo non è “osservatore privilegiato” delle complesse trame del postmoderno, né deve fare compromessi con esso, pur mostrandosi all’altezza di dialogarvi. Su nulla accampa pretese e deve preoccuparsi anzitutto di «non tradire la rivelazione biblica». Molto della produzione editoriale odierna tenta di fare i conti con le intricate e complesse situazioni esistenziali alle quali i rimedi secolari (politica, divertimento, droghe) nulla di salutare riescono ad opporre. L’interrogativo sul senso si rivela insopprimibile ed il teologo «non ha il compito di attenuarlo con delle risposte frettolose e convenzionali» ma, anzi, deve rafforzarlo. Parlare dall’esilio è una condizione non agevole, ma può essere, per la teologia, una situazione da volgere, seguendo le indicazioni ora rubricate, in occasione favorevole [13].

La teologia compromessa con le infuocate provocazioni della modernità e del Novecento: ecco il tema che ci inquieta. Va detto, per ampliare lo spettro delle possibilità di dibattito, che, un pensatore e teologo italo – tedesco, rintraccia nell’uscita dalla Prima Guerra Mondiale il dovere di ricordare il senso di smarrimento patito dalla volontà di promuovere ‘cultura’ e ‘civiltà’.
In tutto quanto è accaduto prima dell’epoca postmoderna, resta in primo piano, visibile a tutti, che il credo dell’idealismo, del positivismo si è rivelato ‘infecondo’: «la scienza non è […] colei che succede alla fede, e […] non è in condizione di governare il corso della vita umana» [14]. Il sapere che aveva preteso di rendere l’uomo adulto e dissequestrato dalle tutele Trascendenti ha fallito. La storia non è fattibile more geometrico e gli schemi hegeliani sono alchimie teoretiche sconfessate dal morso duro della realtà che ha mostrato come il negativo storico non precipiti affatto nella quiete calma del pensiero. Le asperità, il negativo, le ingiustizie non vengono riscattate dal trionfo dello Spirito. La situazione reale è (la teologia la denuncia) ben altra:
«Non essendovi nulla di durevole, vien meno il fondamento della vita storica, cioè la fiducia, in tutte le sue forme. E poiché non si ha fiducia nella verità la si sostituisce con i sofismi della propaganda. Mancando la fiducia nella giustizia, si dichiara giusto ciò che conviene. Tale è la situazione del nostro tempo, che è un tempo di vera e propria decadenza» [15].

La posizione dominante che ha prodotto i guasti denunciati da Bonhoeffer, è questa: i sistemi funzionali della società moderna, non hanno (ma è una fideistica convinzione) «bisogno per le loro operazioni di alcun sussidio religioso» [16]. La società, ormai, si affida – dice il sociologo dal quale attingiamo – alle contingenze. La religione, in generale, così, «non cambia nulla di questo stato di cose. Essa non determina quali prezzi siano politicamente opportuni o giusti e contribuiscano alla felicità familiare o quali teorie possano venire usate militarmente o industrialmente o siano adatte a rendere interessante la didattica educativa. Tutto questo deve essere lasciato alle coincidenze del momento» [17]. La teologia, la religione vengono mandate in esilio dal trionfo delle contingenze e dalle coincidenze del momento. Nessun quadro assiologico è inossidabile, né gode di garanzie Trascendenti. La teologia, però, proprio in questa situazione può mostrare che vive in esilio perché ha una Parola altra da proporre e da opporre a tale appiattimento. In fondo, continua il sociologo, il richiamo della Trascendenza, l’ammiccamento all’escatologico, pur curvati in sinistre caricature, continuano a lampeggiare tra le ceneri della società moderna e, ancor più, tra quelle del postmoderno: «Metaforicamente si parla […] ancora di prospettive apocalittiche – il sole calante della teologia proietta lunghe ombre – ma […] il futuro della società è un problema che può essere formulato solo nella società» [18].
La teologia, ridotta ad un sole calante, non può che proiettare lunghe ombre su di un mondo che vuole amministrarsi facendo a meno di Dio; eppure, qualsiasi riferimento all’Oltre va indagato per vedere se, opportunamente connesso ad un genuino messaggio di fede, non possa dire qualcosa di diverso, di nuovo allo stato di profonda scristianizzazione nel quale versa ormai l’Occidente.   

Un biologo teorico ha scritto di recente un corposo saggio nel quale ci informa che, quasi a nostra insaputa, la moderna società laica patisce quattro lacerazioni che minacciano seriamente l’integrità dell’humanum e superano, in gravità, ampiamente la scissione che colloca agli antipodi ‘laico’ e ‘religioso’.
La prima lacerazione si dà con la «divisione artificiale tra scienze naturali e scienze umane». Viene richiamato un fondamentale scritto di Charles Percy Snow, del 1959, Le due culture. Se un tempo le scienze umane dominavano, ormai dedicarsi ad esse pare quasi una colpa della quale scusarsi: «Einstein o Shakespeare, ma non entrambi nella stessa stanza».
Seconda lacerazione: lo scientismo, il riduzionismo, predicano, per lo più, un “mondo di fatti” privi di “valori”. È necessario, pertanto, allestire «una concezione del mondo in cui i nudi fatti generano valori».
Terza lacerazione: gli umanisti ‘laici ed agnostici’ considerano la spiritualità, al più, come una sciocchezza. «L’uomo – dice con amarezza il biologo – ha condotto una vita spirituale articolata e pregna di significati per migliaia di anni e molti umanisti laici ne sono privi».
Quarta lacerazione: i credenti ed i non credenti patiscono egualmente l’inesistenza di un’etica globale; una cornice condivisa e mondiale dei valori, dunque, pare improponibile [19]. La teologia, pur patendo l’esilio, deve fare di tutto per dialogare, senza compromessi, con le lacerazioni inferte al cuore del nostro tempo. Viene in mente uno slogan: o la morte o il dialogo! Dobbiamo uscire dalla mentalità del monologo ed entrare nella mentalità del dialogo [20].

Sviluppare in teologia la mentalità del dialogo significa procedere ad una sua salutare de – occidentalizzazione: rivederne o almeno ampliarne le forme – senza snaturarne i momenti fondanti e fondamentali – all’insegna del paradigma dell’interculturalità. È bene, perciò, iniziare col non confondere più le premesse della ‘nostra’ teologia con i presupposti che essa, non sempre disinteres satamente, si è data. Raimon Panikkar ha parlato, correttamente, di crisi dei presupposti. Spiega che una premessa è «un principio che io pongo alla base del mio processo raziocinante in modo più o meno esplicito»; al contrario, un presupposto, è ciò che «do per scontato in modo acritico e irriflessivo».
Da quale errore la teologia tradizionale e buona parte di quella moderna devono uscire?
«Sia la teologia che la teologia fondamentale […] davano per scontati i presupposti del mondo occidentale» [21]. Una volta scoperti, però, perdono il potere di incantarci e l’invisibilità che li contrabbandava per naturali, intoccabili! Resta, per il nostro autore, che «la base su cui si fonda la teologia è divenuta più problematica dello stesso contenuto cristiano» [22]. È impossibile pensare la “nostra fede” prescindendo dalle categorie risalenti alle origini della filosofia occidentale? «È essenziale conservare lo schema aristotelico – tomistico per poter accettare il messaggio cristiano?»[23].
Solo rinchiudendosi entro torri d’avorio terminologiche, concet tuali, rese malignamente impermeabili ai modus pensandi “altri”, si uccide nella culla la possibilità di “dialogare” con le “altre” modalità di espressione di quella che un filosofo chiamava la dimensione teologale dell’uomo [24]. La lezione di Panikkar che può di molto migliorare lo “stato attuale” della teologia, è questa:
«il dialogo non è semplicemente un espediente per discutere o chiarire opinioni differenti, ma è esso stesso una categoria religiosa […]. Se io devo scavare delle fondamenta su cui anche l’altro possa reggersi, ho bisogno del suo aiuto così che egli possa almeno essere in grado di dirmi se il terreno che ho trovato va bene anche per lui. Ho bisogno della sua interpretazione di me stesso e della mia teologia per poter comprendere me stesso e la mia teologia» [25]      

Cosa può in tutto questo la teologia? A parte le considerazioni già svolte, inviterei a pensarla come Karl Barth; a suo dire, infatti, una buona teologia non richiede l’assistenza di capaci avvocati, poiché sa difendersi da sola! Importante anche la lezione dello scrittore Chesterton: l’unico buon argomento contro il cristianesimo sono i cristiani e, parafrasando, potremmo dire che l’unico argomento contro la teologia sono i teologi.
Dobbiamo davvero limitarci a sottoscrivere l’affermazione apodit tica di chi sostiene che la tecnica ha portato la religione al suo crepuscolo (U. Galimberti)? Credo avesse ragione Emmanuel Mounier a dire che, quando sbaglia, il cristianesimo deve farlo con grandezza: mostrando, cioè, audacia, sfidando e mantenendo acceso il “senso di avventura”…
Per il filosofo francese, non rimane che dare ragione a quanti sostengono che il cristianesimo deve ritrovare le strade della terra e le preoccupazioni quotidiane degli uomini [26]. Il teologo, dunque, deve essere un compagno di viaggio per l’uomo contemporaneo e, lungo il percorso, come Cristo fece con i discepoli delusi di Emmaus nel vangelo lucano, narrare il cristianesimo rileggendolo alla luce delle antiche Scritture. La via è il solo “metodo della teologia” perché, nello stesso vocabolo c’è il “senso dell’erranza”, del “camminare assieme” per andare più lontano. Teologia è meta – odos: andare “oltre” le strade sulle quali ci si sta muovendo e lo si può fare soltanto sporcandosi le scarpe sui sentieri accidentati della vita postmoderna comuni a credenti ed a non credenti.

È questo il senso che abita l’espressione di Chenu: teologia è la fede che si fa solidale (non complice) con il proprio tempo. Il teologo «è colui che osa parlare umanamente la Parola di Dio. Avendola ascoltata la possiede o più esattamente: essa lo possiede, al punto che egli tende a pensare con essa e in essa, tende a pensarla […]; tutte le tecniche della ragione saranno messe all’opera all’interno e a beneficio della percezione mistica del credente» [27]. Si era perso, continua il maestro francese, il “senso religioso” della teologia che è, invece, un fattore di vita spirituale: «Non si fa teologia aggiungendo corollaria pietatis a tesi astratte, recise dal loro dato oggettivo e soggettivo» [28]. Informa la “vita spirituale” certo ma, fare teologia, non significa rivestire di “orpelli pietistici” elaborazioni teoretiche.
Essa “pensa” la fede che è vita espressa in maniera comunitaria e la Parola, calatasi nella storia, sottoscrive definitivamente          l’adesione del pensiero teologico al proprio tempo: «Se la parola di Dio si esprime incarnandosi nella storia se trova il suo soggetto portante nell’uomo come essere storico, ne consegue che l’intelligenza di questa parola – la teologia – non si elabora più partendo anzitutto da testi […], ma […] dalla fede attualmente vissuta nella comunità cristiana e dalla problematica suscitata oggi da quei testi» [29].

Lo stato attuale della teologia, a partire dalla modernità, lascia comprendere che essa è ufficio(non solo accademico, intellettuale) che pretende il “saper attendere”, il “pazientare”. Il teologo Heinrich Ott, celebrava la capacità del filosofo Heidegger di scendere alla radice delle cose; ne esaltava la capacità di rivedere, metodicamente, ogni momento del pensare. Heidegger procedeva con lodevole circospezione, sapeva attendere, anche per anni, che un pensiero maturasse.
I teologi sono maggiormente tenuti a procedere in questo modo perché, spiega Ott,

«nell’ambito della nostra scienza, non possiamo presentare alcun risultato sperimenta le, nessuna statistica che abbia in sé forza dimostrativa. Noi non possiamo porre nulla sul tavolo e perciò siamo chiamati ad attenerci a questa metodica severità della riflessione. E ciò che Heidegger dice […] dell’autentico dialogo […]: esso “né pone in risalto un conflitto di opinioni, né tollera un arrendevole acconsentire”. Esso “rimane liberamente esposto al soffiar dei venti, alla forza del reale” […] vale né più né meno, allo stesso modo, che per una teologia onesta» [30].

Una teologia onesta, dunque, non può che essere quella capace di non speculare sui conflitti di opinione, né può pacificarsi, in maniera vile, in facili irenismi; deve essere, piuttosto, pronta a lasciarsi minacciare dai venti e dalla forza del reale e, in tutto questo, pazientemente elaborare il metodo migliore per far   comprendere che la Parola di Dio è altra (inquieta lo status quo), ma non estranea (indifferente alle sorti della storia perché atemporale)! Una ricerca lunga, appassionata, ma non dei “fondamenti indiscutibili” da eleggere a sostegno delle proprie argomentazioni; la teologia, piuttosto, deve indugiare, sostare presso il “momento della Croce”. La Risurrezione non va affrettatamente annunciata, ma letta “attentamente” attraverso l’evento della Croce! La fioritura del pensiero è autentica, piena, solo se ne attendiamo per anni la maturazione (Heidegger); una teologia è onesta, autentica, se sa indugiare presso la Croce prima di annunciare trionfalmente la Risurrezione. Gli uomini del nostro tempo ascolteranno i teologi soltanto se gli annunciatori della Spe Salvi sosteranno presso le “croci” dei “poveri cristi” prendendo, così, sul serio i “dolori del mondo”. Non è più tempo di architetture teologiche sontuose: urgente è scendere tra le pieghe e le piaghe del “mondo contemporaneo” attualizzando il gesto di abbassamento verso gli altri (kenosis) già operato dal Dio che si fa crocifiggere per amore nostro! Dice un autorevole studioso:

«La teologia cristiana è […] sempre fissata nella ricerca di continuità, di unità, di fondamenti […]. È questo necessario, legit timo, utile? Non sarebbe più vero teologicamente, umanamente e fenomenologicamente indugiare più a lungo nel luogo […] della rottura, della croce, senza appellarsi subito alla risurrezione […]? […]. Appena pensabile è sinora […] una teologia che lasciasse aperto molto, leggesse proprio la Scrittura, la croce e la storia della Chiesa con diverse ottiche e garantisse anche la perplessità, la quale conviene al teologo più che a chiunque altro» [31].

La teologia che vuole risultare feconda nel nostro tempo deve essere onesta: indugiare, pazientare più a lungo nel luogo della rottura della Croce; operazione che si rivela credibile soltanto se il teologo sosta, si trattiene “pazientemente” (“patire”) più a lungo nel luogo della rottura delle croci dei poveri cristi.
Cosa “rompono”, “spezzano” queste “croci”? Le granitiche certezze di quelle che Leopardi chiamava le magnifiche sorti e progressive del moderno mito del Progresso! Si dice che, a partire dalla modernità, è diventato assai difficile (qualcuno parla di “impossibilità”) proporre la fede cristiana zavorrata di dogmi e contenuti dottrinari. Un pericolo? Una minaccia? Dipende dal luogo nel quale ci collochiamo per osservare il fenomeno.
Se muoviamo dall’urgenza di donare all’uomo contemporaneo almeno il gusto per la “ricerca del Senso”, nell’esilio della teologia cogliamo una occasione preziosa. Si tratta, infatti, di tentare, come vedremo tra poco, malgrado il fastidio che tale proposta genera in molti, la strada indicata da un esponente della “Scuola di Francoforte”. L’elaborazione di una teoria critica della società non può non partire, nel Novecento, da un inquietante ed inesausto interrogarsi intorno allo scempio dell’Olocausto. Dopo Auschwitz, ci si chiede, è ancora possibile fare teologia, poesia, narrativa, scienza, nei modi conosciuti e patrocinati agli albori della modernità? Il campo vastissimo del dibattito, ora, si allaga di aporie scottanti.
Si ha l’impressione, tuttavia, che l’uomo postmoderno stia con leggerezza proprio tra aporie e disorientamento: si elaborano, compiaciuti, in questo cerchio di fuoco, delle filosofie (pensiero debole, decostruzionismo…).
È la tesi degli apologisti del disastro! L’uomo postmoderno, in realtà, in tal guisa atteggiandosi, appare – ad uno sguardo critico attento ed onesto – simile ad un «prigioniero che ama la sua cella perché non gli viene concesso altro da amare» [32].
Dopo le mattanze che hanno deturpato il volto del “secolo breve”, resta in piedi una domanda con la quale anche (se non soprattutto) la teologia deve fare seriamente i conti: «perché l’umanità invece di entrare in uno stato veramente umano, sprofonda in un nuovo genere di barbarie?» [33].

Secoli di civiltà cristiana, letteraria, artistica, finiscono in frantumi sotto i colpi di una barbarie che non si sa se definire il risultato di una “ragione esaltata” o di una “ragione andata a male”; nel primo caso, la barbarie è la conseguenza di una ragione che si è pretesa unica, universale, assolutamente normativa; nel secondo caso, invece, deriva dal decadimento di una ragione che avrebbe potuto costituire, opportunamente controllata, la nostra fortuna! La teologia, che pure si giova delle “tecniche”, delle “procedure” della ragione, non può sottrarsi al dibattito: il futuro della ragione la interessa non poco. Quando muore o manca di nascere una civiltà benefica verso la nostra piena umanizzazione, anche gli interessi teologici, religiosi, patiscono letali ridimensionamenti. Se, allora, per il marxismo il problema era la Rivoluzione mancata, per noi, oggi, la questione dominante è quella della civiltà mancata [34] ? Un “anelito di giustizia” sale dalle voci lamentose delle vittime compresse sotto le macerie della “civiltà mancata”; se la teologia deve presentarsi alleggerita (inizialmente) delle zavorre dogmatiche (ritenute, in verità, tali da uomini non educati cristianamente), può inserirsi proficuamente nei disastrati luoghi del non senso, soltanto raccogliendo tali voci ed assumendosi l’onore e l’onere di tentare risposte.

È qui che assumono valore le provocazioni di un esponente della “Scuola di Francoforte”.
Max Horkheimer, infatti, sosteneva che le “confessioni religiose” possono e devono continuare ad esistere, ma non più come “dogmi”, bensì, come espressione di un anelito (di giustizia, Salvezza, Redenzione)!
Le religioni hanno sviluppato un irrinunciabile concetto di infinito e, per questo, non possono pietrificarsi del tutto in “apparati dogmatici”. Aggiungeva: alcuni usi religiosi del passato vengono conservati proprio allo scopo di elargire ossigeno all’anelito degli affitti. Credere di poter agire e pensare nelle cose religiose con atteggiamento da proprietario, inoltre, è insensato. Horkheimer, a tal proposito, citava una frase dell’Antico Testamento: “Tu non devi farti immagine di Dio!”. Intendeva dire: pur potendo dare una definizione dei mali, siamo impossibilitati a spiegare cos’è giusto in assoluto.
Non potersi fare immagini di Dio è comandamento riscrivibile in questi termini: “Tu non puoi dire che cos’è il bene assoluto, non lo puoi rappresentare”. In un saggio, muovendo ancora nel solco di queste riflessioni, si chiedeva se non si debba innanzitutto sottolineare

«come tutti i sistemi e i concetti teologici, nel loro senso positivo, non siano più sostenibili. Alla base delle religioni, compresa quella ebraica, sta l’idea di un essere eterno, la sua onnipotenza e giustizia. Ma ciò che gli organi umani sono in grado di conoscere è la finitezza di tutto ciò che esiste, compreso l’uomo stesso […]. Che in tanti luoghi della terra regnino l’ingiustizia e l’orrore […] è evidente […].Se la tradizione, le categorie religiose, in particolar modo la giustizia e la bontà divina, non vengono presentate come dogmi, come verità assoluta, bensì come l’anelito di chi è capace di vera afflizione, ebbene, proprio perché le dottrine non possono essere dimostrate ed implicano il dubbio, la convinzione teologi ca, […] potrà essere preservata in forma adeguata […]. Mi limito ad osservare che la religione dovrà comprendere il dubbio: la sua salvezza è possibile solo a questa condizione» [35].

Abbiamo già detto, con Pareyson, che, se il cristianesimo vuole rimanere attuale, deve guardare in faccia alla possibilità presente della sua negazione. Con Horkheimer, poi, viene in chiaro che la religione si salverà unicamente se saprà comprendere il dubbio. I due corni del dilemma, saldandosi, a mio avviso, costituiscono le prime e fondamentali preoccupazioni che tengono desto il pensare teologico. La teologia, infatti, è, da molto, in uno stato di tensione  tra i poli minacciosi della negazione del cristianesimo e della generale insidia del dubbio riguardo alle religioni.
Si spiega, dunque, perché avesse ragione Heinrich Ott (citato sopra) a sostenere che una teologia onesta deve – per riprendere parole che egli assume da Heidegger – non “porre in risalto un conflitto di opinioni”, né “tollerare un arrendevole acconsentire”, bensì sforzarsi di rimanere liberamente esposta al soffiar dei venti, “alla forza del reale”. Il “rischio della fede” cresce e porta frutto quando non rinuncia all’urto con la realtà. Il solo schianto che incenerisce gli sforzi del teologo è la rinuncia a pensare strutturando, per sé ed a beneficio di tutti, una mente – teologica in grado di comprendere e far comprendere l’irrinunciabile dovere di pensare “anche” teologica – mente. Un simile ufficio, poi, si svolge con gli occhi rivolti all’escatologico e con i piedi ben piantati nella storia.
Volendo modificare ad usum Delphini una celebre affermazione di Kant:

la fede senza il tempo è cieca ed il tempo senza la fede è vuoto!


[1] Ha notevole importanza, qui, dedicare del tempo ad una “cristologia fenomenologica” in quanto è solo «la storia di Gesù» che «realizza la verità di Dio che manifesta» (a. bertuletti, Il significato di una formula inconsueta, in «Teologia», XXIII (1998) n. 3, pp. 241 – 247). Un altro autore, poi, sempre nella stessa rivista, sostiene che occorre «far valere la storia di Gesù come forma effettuale della verità ontologica di Dio» (p. a. sequeri, L’interesse teologico di una fenomenologia di Gesù: giustificazione e prospettive, in «Teologia», cit. pp. 289 – 329).   
[2] Cfr., a. g. gargani, Episteme e azione: verso una filosofia post – analitica, in f. biancog. di bernardo (a cura di), Episteme e azione, Milano 1991, p. 190. Non è questa la sede per dibattere intorno al postmoderno, ma sento di dover precisare che si è davanti ad una materia complessa, fluida… Il termine postmoderno, detto altrimenti, «unifica fenomeni eterogenei e ha […] uno spettro semantico tanto ampio, quanto equivoco […], infatti, l’odierno discorso sul “postmoderno” esprime più una tendenza che non i suoi esiti definitivi dicendo qualcosa sul distacco rispetto al “già” della precedente fase […], ma tacendo sulla portata del “non ancora”» (p. vanzan, Quali linee e soggetti per una nuova evangelizzazione del mondo post-moderno, in «La Civiltà Cattolica» 139 (1988), II, pp. 245 – 258, qui p. 247).
[3] k. barth, L’Epistola ai Romani, Milano 1974, p. 73.
[4] Cfr., j. ratzinger, Fede e futuro, Brescia 1984, p. 79.
[5] Ibid., p. 101.
[6] Cfr., v. cesareoi. vaccarini, La libertà responsabile. Soggettività e mutamento sociale, Milano 2005, p. 172. Le identità sono fluide, sempre riscrivibili. L’argomento è ben studiato in f. alfano miglietti, Identità mutanti. Dalla piega alla piaga: esseri delle contaminazioni contemporanee, Milano 2008
[7] «Fin dai primi stadi della storia umana – scrive H. Cox – […] ci sono stati bazar, negozi, luoghi di scambio commerciali – tutti mercati. Mai però il mercato era Dio, perché c’erano altri centri di valore e di significato, altri déi […]. Solo negli ultimi due secoli il Mercato si è innalzato al di sopra di questi semidei […] per diventare la Causa Prima di oggi» (Cit. da mary grey, Dalle “fondamenta scosse” ad una diversa integrità. La spiritualità come risposta alla frammentazione in «Concilium», 2/2006, pp. 94 – 105, qui p. 97).
[8] j. – l. marion, L’idolo e la distanza, Milano 1979, p. 218.
[9] Cfr., w. pannenberg, Antropologia in prospettiva teologica, Brescia 1987, p. 17.
[10] j. de maistre, Saggio sul principio generatore delle costituzioni politiche, Milano 1982, p. 92. Il solo uomo, ridotto ad uomo solo, però, di fronte al divenire privo di direzione e meta, patisce la vertigine dell’indeterminato. L’ossessione protagorea (Protagora diceva che l’uomo è misura di tutte le cose) istituisce una falsa unità di misura dell’esistente: l’ego! L’incomprensibilità del mondo si fa vertigine e precipita nel gorgo dell’insensatezza. Da giovane, un filosofo che pesantemente criticò la religione nel cuore della modernità, scrisse: «Mi vengono le vertigini […] non sappiamo quale parte è la destra e quale la sinistra, e perciò […] corriamo in giro, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo nell’arena e il gladiatore, precisamente la vita, ci uccide; dobbiamo avere un nuovo Salvatore» (k. marx, Scorpio e Felice, in Opere complete, Roma 1971, I, p. 717).
[11] Cfr., b. welte, La luce del nulla. Sulla possibilità di una nuova esperienza religiosa, gdt 142, Brescia 1990, p. 37. 
[12] Alla “frammentazione dei saperi”, molti fanno corrispondere, nel ‘postmoderno’, una “frammentazione della teologia”: s. dianich, La frammentazione della teologia, in s. muratore (ed.), Teologia e formazione teologica. Problemi e prospettive, Cinisello Balsamo 1996, pp. 1 – 12. Il “metodo” riguardo l’esercizio della teologia va rinnovato? Come? Per questo aspetto del problema, rilevante è w. kasper, Per un rinnovamento del metodo teologico, Brescia 1969. Come deve avvenire una retta “formazione teologica”? g. lafont, La formazione teologica e i temi fondamentali, in «Lateranum» 56 (1990), pp. 525 – 551. Il primo passo riguardo a tale ‘formazione’ sta nel far comprendere che la teologia è, soprattutto, una ‘pratica’: b. lauretf. refoulé (edd.), Iniziazione alla pratica della teologia, Brescia 1986 – 1987. Il fine di una buona metodologia, formazione, iniziazione è, in questo campo, quello di comprendere e la natura e i compiti della teologia: j. ratzinger, Natura e compito della teologia. Il teologo nella disputa contemporanea. Storia e dogma, Milano 1993. Per una intelligenza più ampia del termine, si veda c. vagaggini, «Teologia», in g. barbaglios. dianich (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Cinisello Balsamo 1982, p. 1649. 
[13] Ho attinto a ch. duquoc, La teologia in esilio. La sfida della sua sopravvivenza nella cultura contemporanea, gdt 302, Brescia 2004, pp. 97 – 99. L’“esilio” non vanifica, insisto, lo sforzo di pensare teologica – mente; fare teologia ha un giustificato perché in ogni caso. Cfr., g. colombo, Perché la teologia, Brescia 1992.
[14] Cfr., r. guardini, Etica. Lezioni all’Università di Monaco 1950 – 1962, Brescia 2001, pp. 99s.
[15] La spietata, ma impeccabile analisi del periodo successivo alla sbornia degli entusiasmi fallaci della modernità è stata fatta da un teologo protestante che sulla propria pelle ha conosciuto la deriva, il fallimento delle troppo ottimistiche istanze del pensiero e delle ideologie moderne: fu, infatti, impiccato dai nazisti! Ci riferiamo a d. bonhoeffer, Etica, Milano 1969, p. 91.
[16] Cfr., n. luhmann, Osservazioni sul moderno, Roma 2006, p. 82.
[17] Ibid., p. 83.
[18] Ibid., pp. 85 – 86. In questa situazione deve mostrarsi in tutta la sua carica sovversiva la proposta cristiana. Bonhoeffer non tollerava, ad esempio, che Dio (così si esprimeva) venga ficcato di contrabbando in qualche estremo e segreto ricettacolo. Si tratta, piuttosto, a dire del teologo protestante, di prendere atto che “uomo” e “mondo” hanno raggiunto l’età adulta e di Dio si può parlare in maniera nuova, non ricorrendo ad accademismi irricevibili dalle coscienze contemporanee.
[19] s. kauffman, Reinventare il sacro. Una nuova concezione della scienza, della ragione e delle religioni, Torino 2010, pp. 9 – 11. Il mondo contemporaneo chiede al teologo di narrare, con linguaggio aderente alla sensibilità dell’uomo adulto, le “ragioni” della sua “speranza cristiana” (g. caviglia, Le ragioni della speranza cristiana (1Pt 3, 15), Leumann (TO) 1981). Sì, ma abbiamo precisato che tali “ragioni” devono calarsi nella mentalità postmoderna; utile, allora, per mostrare i fondamenti della “speranza cristiana” in questo particolare clima storico - culturale, dotarsi di un libro ricco di feconde indicazioni: h. waldenfels, Teologia fondamentale nel contesto del mondo contemporaneo, Cinisello Balsamo (MI) 1988.  
[20] È questo l’argomento che sta al cuore di un ampio dibattito registrato in: j. b. cobbm. hellwigl. swidlerp. f. knitter, Death or Dialogue? From the Age of Monologue to the Age of Dialogue, Philadelphia 1990.
[21] Cfr., r. panikkar, Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, Milano 2000, p. 318.
[22] Ibid., p. 319.
[23] Ibid., p. 322.
[24] «La dimensione teologale è […] un momento costitutivo della realtà umana, un momento strutturale di essa […]. Il problema di Dio […] non è un problema qualsiasi, arbitrariamente posto dalla curiosità umana, bensì è la realtà umana stessa nel suo costitutivo problematicismo» (x. zubiri, Il problema dell’uomo. Antropologia filosofica [Opere – I], Palermo 1985, pp. 170 – 171). Se la “dimensione teologale” ci riguarda “ontologicamente”, vuol dire che siamo “responsabili nella fede” in quanto “ne va di noi stessi”: j. werbick, Essere responsabili nella fede. Una teologia fondamentale, Brescia 2002.
[25] r. panikkar, Mito, fede ed ermeneutica, cit. p. 326. La via del dialogo è l’imperativo categorico per chi vuole fare teologia senza perdere l’ascolto dell’uomo postmoderno: «La teologia rappresenta lo sforzo costante della Chiesa per restare in contatto col mondo e coi suoi problemi, coi suoi dubbi e i suoi progetti. Essa stabilisce uno scambio continuo tra la fede e la ragione, tra il mondo e Dio, tra il profano e il sacro. Confronta la fede coi nuovi problemi che affronta l’umanità. Perciò deve vivere nella meditazione incessante della parola di Dio per coglierne i punti di inserzione nel mondo d’oggi» (r. latourelle, Teologia scienza della salvezza, Assisi 2005, p. 27)
[26] Si consiglia di attraversare integralmente il saggio nel quale il filosofo propone una ripresa del modello cristiano di vita in tutta la sua antica genuinità: e. mounier, Agonia del Cristianesimo?, Vicenza 1960. Il titolo richiama un libro del 1925 del collega basco Miguel de Unamuno, Agonia del Cristianesimo. Il termine agonia non denuncia un travaglio, bensì evoca, etimologicamente, una lotta! Il cristianesimo deve ritrovare le strade della terra e le preoccupazioni quotidiane degli uomini? Il concetto è stato ribadito poeticamente da un poeta indiano: [Dio] «sta dove il contadino ara la dura terra/ dove colui che lastrica il sentiero spacca le pietre/ è là vicino a/ loro, nel sole e nella pioggia,/ con le sue vesti impolverate/. Levati il sacro manto e come lui scendi nel mezzo della polvere! […]/ […]/ Vagli incontro e resta lì con lui/ nel lavoro intenso e nel sudore della fronte» (r. tagore, Gitanjali, canti di offerta, Cinisello Balsamo (MI) 1993, p. 47 [poema XI]). Nessuno ci assicura, tuttavia, che tale operazione renda gli uomini davvero disponibili ad aprirsi al messaggio cristiano; anzi, per un filosofo italiano, l’attualità del cristianesimo si prova proprio nel suo saper guardare in faccia alla possibilità presente della sua negazione (cfr., l. pareyson, Esistenza e persona, Genova 1985, p. 12).
[27] Cfr., m. d. chenu, Le Saulchoir. Una scuola di teologia, Genova 1982, p. 55.
[28] Ibid., p. 56.
[29] m. d. chenu, Un nuovo evento: i teologi del Terzo Mondo, in «Concilium» 17/4 (1981), pp. 44 – 53, qui p. 49.
[30] Cit. in Colloquio con Martin Heidegger, a cura di richard wisser, Roma 1972, p. 57.
[31] Cfr., e. salmann, Passi e passaggi nel cristianesimo. Piccola mistagogia verso il mondo della fede, Assisi 2009, p. 76.
[32] e. fromm, Metodo e funzione di una psicologia analitica sociale, in id., La crisi della psicoanalisi, Milano 1971, p. 180.
[33] m. horkheimerth. w- adorno, Dialettica dell’illuminismo, Torino 1997, p. 3.
[34] La “Scuola di Francoforte”, meditando sulla barbarie nazista, si vide costretta a spostare il baricentro della sua attenzione da una «teoria della rivoluzione mancata a una teoria della civiltà mancata»(r wiggershaus, La Scuola di Francoforte. Storia. Sviluppo teorico. Significato politico, Torino 1992, p. 321).
[35] Cfr., m. horkheimer, Sul dubbio, in id., Studi di filosofia della società, Torino 1981, pp. 146 – 147. 

Nessun commento:

Posta un commento