Mi è stato concesso uno spazio per discutere, con altri autori, sulla possibilità di un programma cristiano per dare senso al mondo d’oggi. Devo subito confessare che ritengo l’argomento scivoloso. Cosa si può dire che risulti nuovo riguardo al cristianesimo? Penso, però, come molti altri, che sia finito un modello di cristianità, non il cristianesimo; perciò, si può non ammettere che vi è necessità di “ripensare” al lascito della fede cristiana entro un mondo che si contorce e dibatte nel roveto di contraddizioni, complessità inusitate? Un dato si può assumere come assioma per introdurre – come mi viene richiesto – il dibattito:
«L’uomo non vive più entro l’ordine della natura, bensì nelle crisi della storia. Non il cielo né l’altro mondo, bensì ciò che viene, ciò che si spera o che si teme dà senso alla vita storica»
(J. Moltmann).
Questa citazione mette subito di fronte ad una sfida: abitare il mondo non è più possibile, ormai, facendo affidamento a lasciti mitico – religiosi, filosofici o cristiani. Siamo presi nelle crisi della storia ed il problema, ora, è cercare di capire se possiamo approntare ancora un programma cristiano per orientarci nel mondo e slanciarci verso il Trascendente. C’è, poi, davvero bisogno di un “nuovo programma”? Vedremo in seguito. Per adesso, seminiamo grani di discussione che possono, opportunamente sviluppati, assumere dimensioni monografiche.
Il paradiso moderno: invenzione umana
L’uomo non rinuncerà mai ad essere felice, né a credere nel paradiso; il problema, oggi, semmai, è comprendere in che termini si pone la ricerca. Dodds, in un suo studio, I Greci e l’irrazionale, cita al – Ghazali: «Una volta abbandonata la fede tradizionale, non sperare più di tornarci, perché la condizione essenziale di quella fede è che tu non sappia di essere un tradizionalista». Sul telaio delle riflessioni che sto approntando, questo ci dice molto: dall’Illuminismo in poi siamo usciti dalle tutele religiose – ecclesiastiche e abbiamo, smaliziatici, scoperto che la Tradizione cristiana non può essere più un riferimento indiscutibile in ogni ambito della nostra esistenza. Avere una fede tradizionale è una possibilità gettata per sempre alle ortiche perché essa può essere tale, appunto, solo quando non si è “consapevoli” di appartenervi. Troppa “ragione critica” (per certi versi salutare) si è abbattuta come grandine, gelandoli, sugli atavici entusiasmi riguardo alle certezze cristiane che rendevano sensato il mondo.
Il kantiano sapere aude, poi, ha aumentato innegabilmente la quota di complessità regnante nelle nostre strutture spirituali ed intellettuali e, perché no, nelle sovrastrutture culturali. L’iter della ‘Ragione adulta’ conosce anche la deriva di una perplessità disorientante; non a caso, infatti, secondo il sociologo Peter L. Berger, non «possiamo sapere quale sarà l’avvenire della religione nella nostra società». A voler essere radicali, va detto che ci è difficile anche sapere cosa essa sia hic et nunc!
Molta responsabilità va ascritta, riguardo a tanta incertezza, allo spirito della modernità e della postmodernità ché soggiace sempre più – per dirla con Marcel Gauchet – all’imperativo del cambiamento. Nel vorticoso girare dello scibile umano resta fermo che il mondo, da quando Weber lo sottolineò, è preda dell’Entzauberung. Il termine tedesco si traduce disincanto.
Viviamo, ormai, nella convinzione – per riprendere Alphonse Dupront – che si possa parlare soltanto di “paradiso promesso” più che di “paradiso perduto” e, aggiunge il Nostro, si tratta di «un paradiso che gli uomini si preparano da sé». I corifei dei Lumi sono sempre in buona salute, ma si rivelerebbe una imparzialità non poco dannosa il non conferire spazio a voci contrarie ad un ottimismo sfacciatamente cartesiano. In primo luogo, va detto a voce alta che alcuni punti di forza della modernità sono verità cristiane laicizzate.
Luc Ferry sottolinea che, senza la «valorizzazione squisitamente cristiana della persona umana […], non sarebbe mai nata la filosofia dei diritti dell’uomo». Il guaio, però, è che, muovendo da quella “valorizzazione” legittima e qualificante, si è scaduti, tracciando una iperbole antropologica spropositata, in una elefantiasi dell’io appoggiata ad una abusiva dilatazione all’ infinito della libertà. Dostoevskij, ne I Demoni, infatti, fa dire ad un nichilista fortunatamente pensoso: «Partendo dalla libertà illimitata, concludo ad un illimitato dispotismo». Un progetto cristiano per dare senso al mondo d’oggi, mostrando come noi si dipenda dall’Altro, potrebbe essere anche una buona terapia per ridimensionare beneficamente l’ipertrofia del soggetto cartesiano. Il concetto di redenzione sbiadisce sempre più mentre acquista colorito invidiabile il concetto di realizzazione. Insomma: dall’ottica del dono siamo passati all’idea di persona e di libertà in una ottica dell’autorealizzazione. Le “domande ultime”, però, rimarranno accese e sempre da soddisfare, malgrado i successi empirici delle leopardiane magnifiche sorti e progressive. Questa è una salutare lezione che ci viene dalla fede che insegna agli uomini del nostro tempo ad accettare, senza depressione, il senso del limite. Fu, poi, il poeta tedesco Heine a riflettere sulle parole depositate nel Vangelo di Giovanni nel capitolo 12, v. 12: Molte cose ho ancora da dirvi – dice Gesù – ma non sono per ora alla vostra portata. Commentava: «L’ultima parola non è dunque stata detta». Il cristiano è l’uomo che vive la trepidante e fiduciosa attesa della rivelazione dell’ultima parola impegnandosi, con amore e passione, a valorizzare le cose penultime. Sì, preferiamo abitare in paradisi preparati da noi, ma il prezzo è che li trasformiamo, quasi sempre, in non prevedibili inferni. Il progetto cristiano, invece, non muove dall’efficienza, ma dall’humus caldo del dono, della Grazia. L’uomo deve imparare di nuovo la gioia di riceversi dalle mani di Dio.
La razionalità cristiana è “adorante” e “narrante”, non “raziocinante”.
Il problema di fondo, però, non nasce nell’ambito religioso o, più specificamente, dentro la fede cristiana. La nostra indagine inizia a livello filosofico. Si muove, da parte del relativismo, l’accusa alla metafisica: non si può conoscere la Verità, ma solo le verità che l’uomo stesso introduce nel mondo, nella storia. Sto semplificando, ma il cuore del problema pulsa in questo modo. Contestata la Verità – per dirla con l’epistemologo Feyerabend – anything goes, “tutto va bene”! Tommaso d’Aquino aveva già fatto i conti con una simile posizione teoretica che non tarda a riverberarsi, sinistramente, sul modo di vivere. Scriveva l’Aquinate: «Chi contesta la verità ammette che la verità esiste, se infatti la verità non esiste è (perlomeno) vero che non esiste» (Summa Theologiae I, q. 2, a. 1). Sì, ma anche in questa felice precisazione respiriamo pur sempre l’aria viziata tipica dei sillogismi, degli artifici logico-retorici. L’uomo contemporaneo ne ha (giustamente) abbastanza di prove che nulla provano e di bevande intellettuali artificiali che non possono placare la reale sete di senso. L’equivoco sta nel non comprendere che, sotto la spessa coltre teoretica, al cristiano viene detto qualcosa di diverso. La Verità alla quale il cristiano affida la propria vita, infatti, non è qualcosa, bensì, Qualcuno.
È Cristo la Verità e la Via sulla quale andare in ogni tempo ed in qualsiasi situazione. Si può seriamente pensare che, in questo caso, ci sia consentito abbandonarci interamente a preoccupazioni teoretiche? Una sana cristologia, piuttosto, ci impegna a vivere in relazione reale con il Verbo che, dice il vangelo giovanneo, si è fatto carne, mica “carta”! Invito a meditare questa annotazione cristologica di J. B. Metz: «Per ogni cristologia è indispensabile che il Cristo sia sempre pensato in modo da non essere solo pensato». Pensare davvero a Cristo significa relazionarsi a Lui non unicamente pensandoLo.
Il cristiano, più che rinunciare alla “ragione”, deve attivare e sviluppare una – direbbe von Balthasar – razionalità adorante; anzi: “adorante e narrante”. Si deve essere capaci, cioè, di appassionare, col racconto, gli uomini all’evento Cristo! Solo una identità narrativa, che connette in un ordine, in una coerenza non freddi il proprio vissuto può comunicarsi; solo una cristologia narrativa può innamorare gli altri facendo comprendere che l’uomo ha il peso della propria “adorazione”.
Il cristiano deve spendersi nel combattere il nichilismo e l’assurdo, ma anche mostrare, col proprio modo di vivere e di raccontare il Vangelo, che è possibile ancora una vita ricca di significato, di “senso”: «Il cristiano è l’avversario dell’assurdo e il profeta del significato» (Paul Ricoeur). Un profeta che deve sviluppare un programma che si dà come vero e proprio cammino esistenziale. L’itinerario che costituisce la “santa fatica” di chi si mette alla sequela di Cristo, affinché il significato o, meglio, il “senso” prevalgano sull’assurdo, è stato tracciato, nel trattato contro gli eretici, secoli addietro da Ireneo di Lione:
Mediante le cose secondarie alle principali,
mediante i simboli alla verità,
mediante le cose temporali a quelle eterne,
mediante le cose carnali alle spirituali,
mediante le cose terrene alle celesti.
L’Homo viator trova il “senso” del suo essere-nel-mondo in questo percorso di fede che, poi, tende ad umanizzare sempre più la creatura di Dio e le “realtà terrestri” nelle quali è chiamata ad essere “testimone della Parola”.
Il cristiano lavora innanzitutto su se stesso
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