Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Sull'identità del Teologo: sette provocazioni


Non è dato a tutti di studiare la teologia, ma solo a quelli che in modo più alto si accostano a Dio e seguono Cristo (Esichio di Gerusalemme)

Premessa

La teologia è lo studio consentito soltanto a chi comprende che un professore di teologia può essere tale perché – come insegna Kierkegaard - «un altro è stato crocifisso» [1]. La teologia è solo “una scienza”, ma il teologo è un uomo che vive, fino in fondo, una relazione reale con Qualcuno. In tal senso, dunque, ha ragione un filosofo ebreo del Novecento a scrivere che egli «deve essere più che la teologia […] deve essere veritiero deve amare Dio. E non è sufficiente che lo faccia per se solo, nella sua cameretta […]. La sapienza che abita in lui, nel suo cuore pieno di venerazione, è Dio che l’ha destata in lui» [2]. Quel “più di essere” che il teologo è impone, allora, il tentativo di delinearne l’identità. Dalle parole di Rosenzweig già tralucono indicazioni di un certo spessore e, perciò, possiamo iniziare a tracciare il profilo del teologo:
1) dire la verità e amare Dio;
2) il suo è un compito da svolgere a livello comunitario; 3) deve riconoscere che la “sua sapienza” è un dono di Dio che si converte in responsabilità.
Da giovane, il gesuita Daniélou, nell’aprile del 1946, pubblicò un articolo che accese non poche polemiche; in esso, rintracciamo tre elementi che si rivelano essere il costitutivo fondamentale del teologo: egli – scriveva il nostro autore – come gli angeli nel sonno di Giacobbe deve salire e scendere sulla scala; stare, cioè, tra (primo momento) eternità e (secondo momento) tempo. I due movimenti sono ininterrotti e si richiamano l’un l’altro. Il terzo momento, infine, è costituito dal «tenere conto dei bisogni delle anime» [3].
Il lavoro teologico è incardinato sull’umiltà, ma rimane necessario perché – nota uno studioso – «la rivelazione non prescinde dalla comprensione storica che si ha dell’evento rivelato, e quindi è anche teologia, o meglio teologie (non uno ma quattro vangeli)» [4]. Ogni Vangelo è già una teologia: lettura della vita di Cristo a partire dalle esigenze di una comunità particolare, ben identificabile!
C’era – onestamente – agli inizi un legame più forte tra il “fare teologia” e la “relazione vitale” con Cristo; c’è stato un tempo in cui i “problemi” non venivano lumeggiati da «un’impostazione ‘tecnica’ […], ma si sollevavano a mano a mano che l’annuncio di Cristo» si confrontava con altri ambiti ‘culturali/religiosi’ – scrive ancora Visonà (p. 36).
Un Padre della Chiesa ha addirittura sottolineato con forza come i problemi teologici convivessero con le minime incombenze quotidiane.
A Costantinopoli, in piena crisi ariana, ecco con quale intensità si avvertivano le questioni dogmatiche che, oggi, forse non interessano nemmeno gli uomini di cultura più in vista:
«Se domandi informazioni sulle monete, uno ti fa una dissertazione sul generato e l’ingenerato; se chiedi il prezzo del pane, ti rispondono che il Padre è più grande, e che il Figlio gli è sottomesso. Chiedi se il bagno è pronto, e uno si mette a dissertare che il Figlio è stato creato dal nulla» [5].
Detto altrimenti: nelle “cose della teologia” ne andava della vita! Il mio opuscolo offre “sette provocazioni” per tentare di capire qual sia l’identità del teologo.
L’augurio è che il percorso possa incidere nel vissuto di chi si dedica alla teologia e non sia semplicemente un esercizio accademico in più da congelare in un archivio.


































Il teologo come testimone dello Sposo
Percorso I

Vorrei essere così buono da far dire di me: se questo è il servitore, come sarà il Maestro? (H. Huvelin)

L’impianto del primo percorso si incardina su di una icona evangelica. Parlando della sua ricerca, H. U. von Balthasar, scrisse: «Io considero la mia teologia come una specie di dito di S. Giovanni Battista che indica la pienezza della rivelazione in Gesù Cristo […]. Non ho mai scritto per il successo ma allo scopo di mostrare a qualcuno qualcosa di cui io penso che debba essere visto» [6]. Giovanni Battista è, anche secondo il nostro parere, “modello” fecondo per indagare intorno all’identità del teologo. Egli, infatti, come il Battista, non fa che indicare Cristo; Questi è lo Sposo: il teologo (come Giovanni), l’amico, il testimone. In Gv 3, 29, come sappiamo, il Battista dice che è lo Sposo a possedere la sposa e l’amico non fa che gioire per lui. Scrive Ruperto di Deutz:
«Giovanni viene offerto come esempio a tutti gli amici dello Sposo, a tutti coloro che hanno in sorte la cura e il governo della sposa di Cristo, cioè della santa Chiesa, perché non la contemplino con occhi adulterini […]. Fino a quando, infatti, essi predicano la fede cattolica, sono chiamati e sono amici dello Sposo […], Cristo parla in loro e il loro seme è la parola della fede» [7].
L’amico dello Sposo non ne desidera la sposa; chi piegasse la Chiesa (sposa di Cristo) ai propri interessi, cioè, commetterebbe adulterio come chi, per il proprio piacere carnale, giacesse con la moglie dell’altro. La prima verità che un teologo deve insegnare per suscitare nei fedeli un rapporto autentico con la Chiesa è questa: «dove è Gesù Cristo là c’è anche la sua chiesa» (Ignazio di Antiochia).
Le fatiche teologiche, le meditazioni ecclesiologiche conserveran no sempre il loro peso, ma tutto deve tendere a far comprendere Chi è il vero, unico Fondamento: «La Chiesa vacillerà se le sue fondamenta vacillano, ma come potrebbe vacillare Cristo?»  (Agostino). Una mistica ci ha poi detto qual è la Chiesa che Cristo sposa: «Dalla croce il Figlio offre sua madre alla Chiesa che ama (rappresentata da Giovanni, discepolo prediletto) e non alla Chiesa dei ministri. La Chiesa che ama precede sempre di alcuni passi, o di qualche lega, la Chiesa dei ministri» (Adrienne von Speyr).
Il teologo deve fare di tutto per presentare al mondo la Chiesa amata da Cristo che – come Giovanni accoglie Maria – sia capace di aprire il cuore e le braccia a quanti Cristo ci affida. Accoglienza, servizio!
Il teologo, se vuole essere “amico di Cristo”, poi, ne deve riconoscere il privilegio fondamentale: è il solo e legittimo “sposo della Chiesa”. Chi predica la fede cattolica (senza annacquamenti e distorsioni), poi, pure merita l’appellativo di ‘amico’! Cristo parla in quanti, non solo in veste di teologi, eleggono a modello Giovanni; solo chi lavora a queste condizioni ha un seme che non manca di svilupparsi: la parola della fede. Il teologo assiste con gioia – e la racconta con entusiasmo – alla storia d’amore nuziale interminabile tra lo Sposo e la Chiesa; non il successo – come scriveva sopra von Balthasar – è il motivo originante di quanto il teologo scrive, bensì lo scopo di mostrare a qualcuno qualcosa di cui egli pensa che debba essere visto. Cos’è necessario “far vedere”?
L’amore nuziale indissolubile che lega Cristo alla Chiesa e, allo stesso tempo, mostrare che, chi ama Dio, di tale relazione amorosa gioisce, non intromet tendosi per scopi personali, perché coltiva un vero rapporto di amicizia con lo Sposo. Conclude Ruperto di Deutz che, all’amico, è «sufficiente […] che egli sia stato ritenuto degno di essere presente e ascoltare, e di conoscere quei segreti celesti che vengono trattati con la sposa». Al teologo basti la dignità di essere testimone (per partecipare tale gioia ad altri) del colloquio che Cristo intrattiene con la Sposa per comunicarle i segreti celesti.
Il teologo abita nella Parola
Percorso II

Con la mia vita interpreto la Scrittura (San Nilo)

Pietro Comestore, nei Discorsi, si richiama al Salmo 90, versetto 1, per dirci che non basta essere “eruditi” per abitare nell’aiuto dell’Altissimo. Un dotto esegeta ed un sapiente teologo, dunque, non sono certo dei privilegiati nei confronti di Dio. Ci sono, per il nostro autore, vari modi di avvicinare la Scrittura ma, chi si limita ad ‘attraversarla’, non è che un ‘ospite’: solo «coloro che abitano in essa» sono cittadini (12).
Il nostro autore, poi, cita Luca 2, 15: passiamo fino a Betlemme, per vedere questa Parola che lì si è compiuta. La Parola si fa carne in Cristo e chi vuole contemplarla deve mettersi in ‘cammino’ perché essa ha il Suo Luogo: Betlemme! Questo nome significa ‘casa del pane’: «così – dice Comestore – anche noi saziamoci delle Scritture come nella “casa del pane”: nel cammino […] portiamo frutti a partire dalle parole che abbiamo ascoltato».
Nella Scrittura c’è un alimento fondamentale per irrobustire la vita del teologo. Nelle “parole” deve sempre, chi si occupa della ‘cose della fede’, far tralucere la “Parola”: «Fai silenzio, poiché se parli il Verbo tacerà» - ammoniva Agostino. Com’è vero, talvolta, in teologia.
L’erudizione nel teologo deve sempre essere animata, guidata, ispirata dallo Spirito perché “fare teologia” richiede, in primo luogo, che si ami Dio. Solo lo Spirito Santo – rilevava Tommaso d’Aquino nella Summa contra gentiles – «fa di noi degli amanti di Dio».
Il teologo, l’esegeta mostrino “umiltà” nell’accostare la Parola e, se si fosse costretti a registrare dei fallimenti nei percorsi di studio intrapresi, poco importa: si chieda a Dio la grazia di comprendere e non ci si limiti ad accrescere, fidando “orgogliosamente” solo nelle “umane capacità”, il proprio “patrimonio epistemico”: «Meglio una sconfitta nell’umiltà che una vittoria nell’orgoglio» - recita un Apoftegma.
La “casa del pane” che ci sfama spiritualmente è situata laddove la Parola si è fatta carne. Il luogo di nascita del Cristo – Betlemme – prefigura il dono di Sé che Cristo ci fa nell’Eucaristia; il Divino Bambino nasce in una ‘mangiatoia’ perché è il ‘nutrimento assoluto’ della nostra fede. Di questo il teologo deve essere – con arte – il “narratore”. La Scrittura non è un deposito di concetti da apprendere, ma un pullulare di storie di uomini da imitare [8]. Il teologo (che riguardo ad alcuni punti fermi nella ‘vita di fede’ non è dissimile da qualunque altro uomo), dunque, ha da mettersi in cammino e non per girare a vuoto: deve passare fino alla ‘casa del pane’ per incontrare Colui che è ‘Pane vivo disceso dal cielo’. A chi volesse obiettare che sto proponendo un ‘percorso’ lastricato di puntute e gigantesche difficoltà, rispondo con le parole di Origene: «Meglio morire lungo la via di un ideale troppo alto che non partire affatto»!















Il teologo non apre vie, ma cammina sulle vie di Dio
Percorso III

L’uomo non può concepire se stesso e il suo essere indipendentemente da Dio, né può include re in questo suo concetto di Dio come un elemento di cui può disporre (K. Rahner)

Dio è sempre disponibile per l’uomo, ma non è a sua disposizione. Un ‘concetto di Dio’ che accogliesse un ‘elemento’ di cui disporre sarebbe necessariamente falso, fuorviante.
Chi – come dicevamo sopra – abita la Scrittura sa, già da questa appassionata frequentazione, che non si può mai prendere alla leggera la Parola e che Dio può dirci cose di una ‘semplicità sconvolgente’ ma mai ‘banali’. Origene, forse uno dei più grandi biblisti del suo periodo, commentando la Genesi, ammise:
«Noi, per il solo fatto che crediamo – quantunque mediocremente – nel Cristo Gesù e che ci gloriamo di essere suoi discepoli, non osiamo tuttavia dire che abbiamo percepito faccia a faccia il significato che ci ha trasmesso di quel che è contenuto nei libri divini […], onde non osiamo affermare questo che diciamo come gli apostoli hanno potuto […] (perché) noi, a proposito di queste grandi realtà e di tutto quanto ci sorpassa, non ignoriamo la nostra ignoranza» [9]. L’antico esegeta ci sta dicendo che non basta credere nel Cristo Gesù anche perché, per lo più, lo facciamo in maniera mediocre; non costituisce titolo di merito erigerci a suoi discepoli perché – non solo Dio è indisponibile ai nostri concetti teologici – ma anche i libri divini spiazzano la nostra capacità ermeneutica. Quando facciamo affermazioni – qui, a mio avviso, la lezione potente di Origene – non possiamo seriamente pensare di avere la stessa autorità degli apostoli quando fanno le “loro” affermazioni. Il teologo è sempre di fronte, per riprendere le parole del nostro autore, a grandi realtà, a cose che tutte ci sorpassano. Una condizione per non tarlare con improduttiva superbia il nostro lavoro teologico è, dice Origene, quella di non ignorare la nostra ignoranza. Isaia lo diceva: le vie ed i pensieri di Dio non sono i nostri! In teologia non apriamo vie a Dio ma, al più, possiamo percorrere, con stenti notevoli, le vie di Dio. Elinandro di Froidmont, nei Discorsi, è esplicito: «non è scritto: “Preparate la via al Signore”, ma Preparate la via del Signore (Mt 3, 3). Ogni via, infatti, per la quale Dio viene all’uomo è una via di Dio, non dell’uomo» (I). Fare teologia è cercare di comprendere per “quali vie Dio viene all’uomo” e non avere la pretesa di tracciarne; non sarebbe ‘fede’, questa, ma mera ‘religiosità’ ad uno stadio primitivo. Ad ogni buon conto, il compito di comprendere quali siano le vie di Dio è motivato dal sapere, continua Elinandro, che esse – come insegna il Salmo 24, v. 10 – sono misericordia e verità. Chiude il nostro autore:
«Vuoi preparare la via al giudizio?Giudica giustamente te stesso […]: misericordia affinché tu perdoni al prossimo, verità perché tu corregga te stesso». Se il teologo contribuisce attivamente a “preparare” non la via al Signore ma la via del Signore, sappia che deve battersi alacremente per la “misericordia” e per la “verità/giustizia”: imparando a perdonare il pros simo (chi è debole nella fede e sprovveduto nella dottrina) e sottomettendosi alla Verità, non idolatrando la propria, correggere se stesso.
Nessuno può accettare le tesi di un teologo non formato alla scuola dello Spirito Santo che smantella le “vie al Signore” perché apre (come ogni teologo ed uomo di fede sanno) soltanto le “vie del Signore”. È stato giustamente ricordato riflettendo su Gv 14, 26: «Così, quando Gesù dice: Egli (Spirito) vi insegnerà ogni cosa, ci mostra che nessuno può essere ammaestrato da un uomo se questi non è ammaestrato interiormente dal magistero dello Spirito Santo. Infatti, se lo Spirito Santo non soffia […] nel cuore di colui che ascolta, invano, al di fuori, si eccita rumorosamente la lingua di chi insegna» (Erico di Auxerre).
Il teologo, se non vuol ridurre il proprio insegnamento ad una rumorosa eccitazione della lingua, deve essere istruito interiormente dal magistero dello Spirito Santo.




Il teologo è la voce che annuncia la Parola
Percorso IV

Prima di parlarci Dio parla attraverso la nostra sete per lui (G. Thibon)

La nostra voce, spesso, è ridondante di parole parlate, ma non di parole parlanti (Merleau – Ponty). Solo quando si “accende la sete della Parola” le nostre chiacchiere zittiscono. Con von Balthasar dicevamo che la teologia è come una specie di dito di S. Giovanni Battista: il fine sta tutto nell’indicare la pienezza della rivelazione in Gesù Cristo! La nostra “voce” è come quel “dito”: indica l’Altro, la Parola! In Gv 1, 23, il Battista afferma: Io, voce di uno che grida nel deserto; in Gv 1, 1 – invece – si legge: In principio era la Parola. In quanto uomini, possiamo dire “io” solo in una storia già cominciata, in un percorso di fede aperto dalla preesistenza del Verbo. Io è un pronome che indica solo chi ha voce, non la Parola.  Un Padre della Chiesa commenta:
«prima risuona la voce, perché poi si possa udire la parola. Giovanni, dunque, afferma di esser la voce che precede la parola […] preannunciando la venuta del Signore, egli viene detto “voce”: poiché attraverso il suo ministero la Parola del Padre viene udita dagli uomini. Egli, inoltre, grida nel deserto […] poiché annuncia la consolazione del Redentore ai giudei, che erano abbandonati e smarriti»[10]. Il teologo deve annunciare Cristo che redime e consola gridando nel deserto affettivo – assiologico postmoderno. Non deve presentarsi con superbia, quasi fosse la Parola, ma con l’umiltà di chi non è altro che “una voce” che preannuncia la venuta del Signore. Nell’omelia citata, Gregorio Magno scolpisce una precisazione che vale per tutti, ma in modo speciale per chi si occupa, da studioso, delle ‘cose della fede’: «La via del Signore giunge fino al cuore quando la Parola della Verità viene ascoltata con umiltà». In Gv 1, 30, il Battista afferma: Colui che viene dietro a me esisteva prima di me. Nell’annuncio, nel fare teologia, pare che, siccome c’è – in senso cronologico non ontologico – prima l’io che parla, l’Annunciato sia secondo; in realtà, come il Battista, si parla di Lui prima che il Cristo venga nel mondo, ma Egli preesiste a tutti noi perché, dice l’evangelista Giovanni, la Parola era in principio. Le nostre voci tentano di balbettare quel “principio”, ma non sono coeve ad esso: «la voce, essendo inferiore, viene prima, e la parola, che è superiore, viene dopo» [11].
Ciò vale anche sul piano umano! Zaccaria, che sarà il padre di Giovanni Battista, nel vangelo lucano, è un sacerdote e non ha figli; si tratta, dunque, di un dolore doppio. Per la mentalità ebraica non avere figli significava non essere “benedetti” da Dio. Quando gli viene annunciata la nascita di un figlio, oppone perplessità che rasenta l’incredulità. Viene, perciò, condannato al “mutismo”.
La moglie Elisabetta rimase incinta e si decise, mentre ci si aspettava prendesse il nome del padre, che il nome del nascituro fosse Giovanni! Zaccaria – muto – scrisse il nome di suo figlio su di una tavoletta e ricominciò a parlare. Sul “mutismo del sacerdote”, scrive Ambrogio: «poiché l’incredulità gli aveva tolto la parola sia l’udito, egli esprime […] scrivendo ciò che non poteva esprimere con la voce». Quando lo Spirito di Dio vuole comunicare quanto contribuisce alla storia della salvezza, il teologo stia tranquillo: anche in un periodo di poca loquacità, di limitatezza espressiva, il mezzo per l’annuncio si trova sempre! Zaccaria – dice Ambrogio – può tornare a parlare perché, dando il nome voluto da Dio al figlio, «aveva dato voce alla Voce». Se il teologo dà voce unicamente ai suoi pensieri, rischia di apparire muto! Vero teologo – sull’esempio dello scrivente Zaccaria – è chi dà voce alla Voce e mette le parole a completa disposizione della Parola! Il sacerdote, nell’intensa pagina lucana, non deve scegliere il nome del figlio perché su di lui Dio ha un progetto: il suo nome, in ebraico, è Dio fa grazia! Ambrogio scrive che è «questa una prerogativa dei santi: di ricevere il nome da Dio».
Nella cultura ebraica un nome non è dato mai a caso ed indica, piuttosto, quale missione un uomo deve portare a termine. Sul Battista il progetto non viene dal padre terreno, ma dal Padre Celeste ed è giusto che il suo nome lo mostri con evidenza solare. Il teologo deve insegnare al cristiano che il nostro nome è la nostra identità e, se si vuole tendere alla santità, in queste cose occorre lasciar parlare Dio per prima. Cosa accomuna, per tirare una conclusione, il teologo a Zaccaria? Ebbene, proprio nelle parole di Ambrogio di Milano troviamo la spiegazione del nostro accostamento: «Crediamo dunque anche noi, perché possiamo parlare, perché la nostra lingua, che è rimasta legata ai lacci dell’incredulità, si sciolga in parole secondo Dio. Scriviamo i misteri sul nostro spirito (Lc 1, 63), se vogliamo parlare, scriviamo non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne del nostro cuore (2Cor 3, 3)» [12].
Chi non scioglie la propria lingua in parole secondo Dio – fosse pure il più rinomato tra i teologi – darà sempre l’impressione (laddove non sia proprio così) di essere legato ai lacci dell’incredulità.
Non su libri corposi, simili a freddi e morti cuori di pietra, il teologo deve registrare i suoi percorsi di ricerca appassionata, ma deve imparare a scrivere nei cuori (sì, anche sul suo) perché i misteri di Dio vanno scritti sul nostro spirito.
La voce guarisce dalla raucedine spirituale solo se respira la balsamica Parola di Dio e l’alita nelle anime altrui. 










Il teologo dà il suo poco ed ha un io ospitale
Percorso V

È meglio amare Dio che conoscerlo speculativamente. È meglio amare i fratelli recanti in sé l’immagine di Dio, anziché conoscerli  (J. Maritain)

Il profeta Isaia (58, 6 – 7), proclamava: spezza il tuo pane con l’affamato. Nel “Percorso II”, citavamo Luca che ci spinge ad andare fino a Betlemme, la “casa del pane” che ci sfama spiritualmente. La “nostra casa”, aggiungevo, è là dove la Parola si è fatta carne. Il luogo di nascita del Cristo – Betlemme – prefigura il dono di Sé che Cristo ci fa nell’Eucaristia. Vivere del “Pane vivo disceso dal cielo” implica il condividerlo con chi è affamato della Parola, con chi attende che, seppure abbiamo poco sapere riguardo alle ‘cose della fede’, noi lo si condivida con loro. Un antico autore cristiano commenta il passo di Isaia:
il Signore non dice di dare all’affamato «un pane intero, quando forse un povero non ha altro che quel pane […]: anche se sei talmente povero […], spezza quello e danne al povero» [13]. Quanto riusciamo a guadagnare con l’esegesi, con la riflessione teologica nella “casa del pane”, per poco che sia, ha valore solo se lo si condivide. La fame della Parola che affligge il mondo contemporaneo impone che, prima di elargire del pane, si abbia da offrire un io ospitale. Cesario di Arles, nel “Discorso” citato, continua:
«Se qualcuno è talmente povero da non aver di che donare del cibo […], almeno in un angolo della sua casa prepari un pur povero letto a un viandante». Di là del significato letterale del passo, ad usum Delphini, possiamo dire: se è davvero poca cosa il nostro sapere teologico, se la nostra competenza esegetica è allo stato larvale, iniziamo ad “accogliere” l’altro che è nella condizione di povero viandante perché non sa che strada prendere per andare verso il Senso.
I “viandanti” del nostro tempo hanno bisogno del “Pane della Parola” ma devono, in primo luogo, sentirsi accolti almeno in un angolo della nostra casa; la “casa del pane” che si rivela essere “vivo” solo se si spezza in favore dell’altro.
Tutta la vita cristiana, le fatiche teologiche mirino, assorte e pronte alla carità, a rendere ognuno di noi Eucaristia per l’altro.































Il teologo: una lucerna; Cristo: la Luce.
Il teologo: un vaso; Cristo: la sorgente che riempie
Percorso VI

Quando il Signore tornerà sarà un giorno così luminoso che non saranno più necessarie le lucerne (Agostino)

Le mie passioni sono state crocifisse […]. Ma un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: vieni al Padre! (Ignazio di Antiochia)

Riguardo al Battista, l’evangelista Giovanni, scrive: Non era lui la luce (Gv 1, 6 – 8); in Gv 1 – 9, invece, leggiamo: C’era la luce vera. I teologi devono riconoscersi in questa definizione del Battista: non solo loro la luce, ma Cristo è la Luce vera! Agostino, spiega: «Giovanni non illumina ogni uomo, Cristo illumina ogni uomo. E Giovanni riconobbe di essere una lucerna che non deve lasciarsi spegnere dal vento della superbia. La lucerna, infatti, può essere sia accesa che spenta. La parola di Dio non può essere spenta» [14]. Chi parla delle cose della fede, per quanto si trovi fasciato in robusta erudizione, non è che una lucerna: un cenno che lascia pensare alla Luce, non la Luce! La Parola non conosce l’alternativa ‘accesa’ o ‘spenta’: la minaccia del buio riguarda le lucerne che – non riconoscendosi tali – si lasciano spegnere dal vento della superbia.
Fare teologia è accendere lucerne; ma se non le si lascia superare dalla Luce smettono di essere mezzi e si ergono, suicidandosi, a fine! La fede è sempre accesa e non spetta a noi – per competenza o per imperizia – promuoverla, accrescerla o diminuirla. È stato detto: «Siccome la fede è una sola e sempre la stessa, né chi è molto abile nel parlare di essa l’arricchisce, né chi è poco abile la impoverisce» [15]. L’esergo di Agostino è profetico e totalmente condivisibile: il Signore tornerà e le lucerne – teologie non saranno più necessarie. Che si intende dicendo che il teologo è un vaso e Cristo la sorgente? Quando – come scrive Ignazio di Antiochia nel secondo esergo a questo percorso – le nostre passioni vengono crocifisse, si apre uno spazio di vita interamente a disposizione di un’acqua viva affinché, parlandoci, ci inviti ad andare dal Padre. Quando Agostino lesse Gv 1, 16 (Dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto), propose questa interpretazione: «Noi siamo i vasi, egli è la sorgente».
Siamo capax Dei se coltiviamo la ricettività all’Altro; rimaniamo vuoti senza il “riempimento divino” (azione divina che ci struttura a livello ontologico). Farsi riempire dallo Spirito non significa buttar via quanto ci costituisce, ma solo metterlo a disposizione di Dio; i teologi devono attuare e spingere a realizzare questa ricettività allo Spirito: «Il vero fine della nostra vita cristiana è l’acquisizione dello Spirito Santo; la preghiera, le veglie, il digiuno, l’elemosina e le altre buone azioni fatte per Cristo non sono che mezzi per acquisire lo Spirito di Dio» (Serafino di Sarov) [16]. Siamo necessitati a servirci delle lucerne in attesa della piena manifestazione della Luce; questo, insisto, non deve mai giustificare che una teologia – lucerna si proponga come più luminosa di un’altra. Imitiamo il Battista che «pur possedendo una tale virtù da poter essere creduto il Cristo […] confessò: Non sono io il Cristo (Gv 1, 20). Ma egli […] negò sì ciò che non era, ma non negò ciò che era […], dicendo la verità, diventò membro di colui del quale non aveva usurpato il nome. Proprio per il fatto di non volersi appropriare del nome di Cristo […] divenne partecipe di Cristo» [17]. Se neghiamo ciò che non siamo (siamo lucerne e non Luce) affermiamo anche ciò che siamo (creature mendicanti il Senso). Il guadagno derivante da questa “apparente” umiliazione (ma essa è, piuttosto, umiltà) è enorme: diciamo la verità su noi stessi e su Cristo e ne diveniamo “membri” proprio per non aver maramaldeggiato sul Suo Nome! Agostino, nel “Discorso” già citato, offre la conclusione a questo  percorso: «egli (Cristo) è la luce del giorno, noi le lucerne. Grande la debolezza degli uomini, che possono attendere la luce del giorno solo grazie all’aiuto delle lucerne” che – venuto il Signore – troveranno compimento nel fondersi in Lui che è la Luce.
Questa la speranza che la teologia deve annunciare, testimoniare, pur con la poca illuminazione che è capace di garantire.




























Il teologo parli come con parole di Dio.
 Il teologo parli con una lingua razionale
Percorso VII

Una delle cause delle difficoltà sperimentate dalla teologia in questi ultimi secoli consiste precisamente nel fatto che i teologi hanno voluto rinchiudere il mistero in formule (Neofita Edelby)

Un verso del vangelo lucano, recita: e tale demonio era muto (Lc 11, 14). Un antico autore cristiano, commenta: «Mi tiene (il demonio) lunghi discorsi ora sulla mia scienza, ora sulla mia vita di fede […], ora sulle mie doti carismatiche, ora sulla mia eloquenza […]» [18]. Il teologo deve evitare due insidie: 1) come asseriva Edelby nell’esergo a questo percorso, si è fatta scadere troppo spesso la teologia a fatica superba e vana di mettere il “mistero” in “formule”; per questo ‘innegabile guasto’, poi, si accolgono – quando arrivano – i complimenti, gli apprezzamenti. Seguendo Isacco della Stella, però, ci accorgiamo che si tratta di lunghi discorsi del demonio. Le lodi ricevute per la nostra scienza riguardo alle ‘cose della fede’, le lusinghe di chi esalta il nostro modo di vivere la fede vanno prese con diffidenza: in esse potrebbe star parlando il “maligno”. Un teologo deve sempre stare attento a questa minaccia troppo suadente per essere immediatamente intercettata. Il demonio – dice Isacco – a «tal punto, spesso, distoglie e occupa le mie orecchie, che non gusto più neanche il leggere o l’ascoltare qualcuno che legge». Il demonio mette al centro della scena il nostro Ego e toglie il gusto di ascoltare la parola dell’altro e dell’Altro! Nel parlarmi – continua il nostro autore – mi ammutolisce del tutto e mi rende ottuso, sordo. Isacco, perciò, crede sia questa la ragione per la quale Luca definisce “muto” il demonio: «poiché coloro che esso invade li rende muti, cioè incapaci di lodare Dio e di svolgere i compiti che spetterebbero a una lingua razionale». Ecco il punto: scopo del maligno è rendere irrazionale la nostra lingua deprivandola della capacità di lodare Dio. Come deve essere, allora, una lingua razionale? Il nostro autore cita la Scrittura: Se qualcuno parla, lo faccia come con parole di Dio (1Pt 4, 11). La “lingua” si comporta in maniera “razionale” quando parla con parole di Dio e non ripetendo le esaltanti ma false parole del tentatore che ingigantisce il nostro Ego fino a rendere invisibile Dio alla nostra coscienza. Il teologo, che ha anche il compito di mostrare come deve essere l’uomo con Dio e cosa può diventare l’uomo senza Dio, insegni (dopo averlo ben imparato) all’uomo di fede cosa significhi lodare Dio: avere una lingua razionale che, per Isacco della Stella, è tale se non pronuncia
1) parole vane e di menzogna;
2) di lite e di perdizione;
3) di calunnia o di arroganza;
4) di cupidigia e di lussuria.
La lingua, inoltre, è razionale
1) quando loda Dio;
2) quando si accusa davanti a lui;
3) quando edifica il prossimo.
Non c’è “discorso teologico” che tenga se non si parte da questi punti fermi: dire Dio senza preoccuparsi di farlo ricorrendo alle parole di Dio stesso renderebbe inascoltabili i nostri argomenti anche se volessimo imporli gridando. Conclude, infatti, Isacco: «Colui che tradisce in queste cose è muto, per quanto gridi».
Fare teologia rinunciando alla “lingua razionale” che è strutturata come ci è stato esposto, significa destinarsi al non – ascolto del mondo!










CONCLUSIONE

Cosa deve ricordare il teologo a se stesso ed a quanti attendono da lui – per quanto sia appena una lucerna – illuminazione? Mettiamo assieme, per concludere, due voci: la prima è quella di un Padre della Chiesa; la seconda, quella di un Papa. Il primo, Giovanni Crisostomo, afferma che Cristo di ha lasciati sulla terra per essere:

fiaccole che illuminano: «Voi siete la luce del mondo […] risplenda la vostra luce davanti agli uomini» (Mt 5, 14 – 16). Solo Cristo ha diritto di promuoverci da lucerne, fiaccole a luce. Che si sia promossi o no, continuino, come possono, teologi, pastori, laici cristiani, ad illuminare il buio del nostro tempo.

fermento nella pasta: «Un cristiano (ma, voglio aggiungere di mio, ciò vale anche per il teologo) non è necessariamente un uomo migliore degli altri, ma ha più responsabilità» (Piero Gheddo). Il cristiano – che sia o no teologo – non può affondare selvaggiamente le mani nella “pasta del reale”, ma vi si deve immergere come lievito, fermento. Il cristiano, soprattutto se erudito teologo, non è migliore degli altri, ma solo più responsabile perché egli – come insegnava proprio il Crisostomo – è un uomo a cui Dio ha affidato tutti gli uomini.

angeli tra gli uomini: Angelo, cioè, “messaggero”, “annunciatore” della Parola; voce che prepara l’irruzione della Parola! In questo consiste anche il “tratto angelico” del teologo.

adulti tra i bambini: Adulto è colui che è in grado di “dire” ma, in primo luogo, di “fare”. Il motto di chi, teologo o credente non erudito, è maturo nella fede è questo: «che le parole tacciano, che le opere parlino» (Antonio da Padova). Le parole, dopo aver “annunciato”, si spengano come lucerne che hanno assolto il loro compito: resta l’agire perché – come dicevamo nell’Introduzione citando Rosenzweig – soprattutto per il teologo non è sufficiente che lo sia per se solo, nella sua cameretta, ma deve aprirsi agli altri, all’Altro in un rapporto di fede matura. Il teologo che è ‘davvero’ divenuto ‘adulto nella fede’ deve guidare quelli che in essa sono ancora ‘bambini’ con fermezza e docilità.

uomini spirituali in mezzo a uomini carnali («per conquistarli»): «Nella vita spirituale non progredire significa arretrare» (Giovanni della Croce). Chi non progredisce spiritualmente non solo arretra riguardo a se stesso, ma porta tra gli “uomini carnali” uno simile a loro che non li stimola, dunque, a crescere nella fede. Un teologo che non mostrasse evidenti segni di maturità spirituale non porterebbe frutto nel mondo.

seme e portare abbondanti frutti: Nei Sermoni predicava Pietro il Crisologo: «Andate nel mondo intero. Diventate la speranza degli uomini». A questo punta il percorso tracciato finora: essere uomini capaci di portare la Speranza che salva. Chi, soprattutto se si presenta attrezzato di certificato sapere teologico, non ha tradotto in vita tutto questo non potrà nemmeno assolvere al compito di lucerna perché è, spiritualmente, oscuro. Ha avuto ragione chi ha detto che non ci sarebbero più pagani se ci comportassimo da veri cristiani.

La seconda voce che scomodo, invece, è quella di Paolo VI che, il 26.1.1977, ci esortò (la sfida è sempre valida) ad essere, in qualità di testimoni di Cristo,

uomini veri: L’uomo vero (che i teologi devono far risplendere nel raccontarlo – almeno potenzialmente – cristiforme) riconosce che la propria identità è “donata” in parte come eredità ed in parte come compito: «per questo solo viviamo: per diventare simili a Colui che ci ha fatti a sua immagine» (Guglielmo di Saint – Thierry).

cittadini leali e sinceri: Si inizia col prendere sul serio, ma anche “criticamente”, il mondo nel quale si vive. Un teologo non è tenuto a non valorizzare i tesori culturali, artistici del paese in cui vive; né può – fin quando non stridono con la sua coscienza di credente – non tenere in considerazione le leggi dello Stato. Chi è leale e sincero verso il “luogo” nel quale vive ne salva quanto è bene e ne mette in discussione quanto è (allo sguardo della fede cristiana) male; sempre, però, con la certezza che non «c’è niente di misero nei nostri momenti, tutti racchiudono un regno di santità» (Jean – Pierre Caussade). Ogni luogo, ogni momento il teologo deve – lealmente e sinceramente – renderlo, fondando sulla Parola, un regno di santità.

cittadini di questo tempo e della Città di Dio (la Chiesa): In una monumentale opera, intitolata La Città di Dio, Agostino scrive:
«La Chiesa prosegue nel suo pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio».
Il “cammino della Chiesa” non può ignorare i mali del mondo perché può andare verso il compimento escatologico unicamente “assumendo” e “redimendo” lo storico!
Non c’è realtà terrestre, storica, con la quale il teologo non debba fare i conti motivando ogni cristiano ad assumere un atteggiamento critico/cristiano verso gli ambiti vitali del mondano.
Ha detto Joseph Colomb: «Un cristiano deve giudicare tutto in funzione del Regno di Dio». Uno sguardo tra il critico ed il profetico il teologo deve acquisire nel “proporsi ad altri”, nell’“aprirsi al mondo”.
L’appello ai teologi – di fronte a quanto, non senza peccati d’omissione, abbiamo esposto – lo lascio ad un Padre della Chiesa imbevuto di saggezza evangelica: «Queste cose, fratelli amatissimi, ascoltiamole non in maniera passeggera e solo con le orecchie del corpo, ma, applicandoci a esse fedelmente, insegnamole, affinché anche altri possano custodirle e compierle, sia con le parole, sia con l’esempio» (Cesario di Arles).

Mi si lasci lo spazio per altre due riflessioni. Il teologo non deve, pensando di essere in una situazione (intellettuale) privilegiata, trascurare di scendere laddove attendono quanti hanno difficoltà a credere. Anche lui, infatti, conosce benissimo la condizione cantata dal poeta Rilke nel Libro del pellegrinaggio:
Contro ogni fede, Dio, che ti proclama
un dubbio insorge, Dio, che ti cancella.

L’ambivalenza rilkiana, ecco l’aspetto drammatico e dilemmatico della fede, sovente alberga nel petto di un credente.
La croce è “aperta in tutte le direzioni” e nessuno la può coartare in un cerchio, “simbolo di perfezione”, della “logica”: siamo – infatti – cristiani e non cartesiani; la fede è paradosso, non logica; siamo razionali nel credere, ma non razionalisti. Ospitando in sé la minaccia dell’ateismo, pure il teologo deve innanzitutto pregare perché, come testimonia il Vangelo di Marco, la nostra incredulità ha necessariamente bisogno dell’aiuto di Dio.
Un rabbino hassidico, a chi gli parlava di fede, rispondeva alludendo alla preghiera:

«Si dice che le parole “io credo” siano una preghiera. Significano “che io possa crede re».





[1] Cit. da k. barth, Introduzione alla teologia evangelica, Cinisello Balsamo 1990, p. 190.
[2] Cfr., f. rosenzweig, La stella della redenzione, Casale Monferrato, 1986, p. 318.
[3] j. daniélou, Les orientations presente de la pensée Religieuse, in «Ètudes» 249 (1946), pp. 5 – 21; qui, p. 17.
[4] Cfr., g. visonà, «La prima teologia cristiana: dal Nuovo Testamento ai Padri Apostolici», in e. dal covolo (a cura di), Storia della teologia. 1.Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle, Bologna – Roma 1995, p. 25.
[5] gregorio di nissa, Orat. De Deitate. Filii et Spiritu Sancti, PG 46, 557 B – C.
[6] Cfr., h.  u. von balthasar, Geist und Feuer. Ein Gesprach mit Hans Urs von Balthasar, «Herder Korrespondenz» 30 (1976), p. 73.
[7] Commento al Vangelo secondo Giovanni, I, I, 29 – 30.
[8] «Ascoltare narrazioni – al passivo – e, all’attivo, narrare. Forse questo verbo oggi in disuso ci può introdurre alla parola nel brusio delle parole. Narrazione dice soprattutto movimento […]. Ha a che fare con i fatti, non importa se grandi o piccoli, veri o inventati. Le Scritture riguardano fatti. Storie, al plurale, dato che […] la Bibbia non è la narrazione lineare della storia della salvezza» (f gentiloni, Non nominare invano, Roma 2008, p. 52).
[9] origene, Commento sulla Genesi (PG 17, 544 B - C).
[10] Cfr., gregorio magno, Omelie sui Vangeli I, 7, 1 – 2.
[11] Cfr., ambrogio di milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2, 73 – 76.77.
[12] Ibidem.
[13] cesario di arles, Discorsi 199, 1 – 4.
[14] Cfr., agostino, Discorsi 289, 4 – 5.
[15] ireneo di lione, Contro le eresie, 1. 10.2.
[16] Riguardo a quanto ci costituisce, va detto che porta frutto quando ci “visita” lo Spirito di Dio e solo e soltanto se è consistenza donata a Chi la può integrare, accrescere e portare a maturazione Trascendente; d’altro canto, «per la teologia cattolica l’uomo che accetta la rivelazione ogget tivatasi storicamente ed ecclesialmente istituzionalizzata, non è una tabula rasa […]che nulla porterebbe nell’incontro con essa» (k. rahner, Sul rapporto odierno tra filosofia e teologia, in id., «Nuovi Saggi V», Roma 1975, pp. 95 – 118; qui p. 115).
[17] Cfr., gregorio magno, Omelie sui vangeli, I, 7, 1 – 2.
[18] isacco della stella, Discorsi 38, 6 – 9.

Nessun commento:

Posta un commento