Non è dato a
tutti di studiare la teologia, ma solo a quelli che in modo più alto si
accostano a Dio e seguono Cristo (Esichio
di Gerusalemme)
Premessa
La
teologia è lo studio consentito
soltanto a chi comprende che un professore
di teologia può essere tale
perché – come insegna Kierkegaard - «un altro è stato crocifisso» [1]. La teologia è solo “una scienza”, ma il teologo è un uomo che vive, fino in
fondo, una relazione reale con Qualcuno. In tal senso, dunque, ha
ragione un filosofo ebreo del Novecento a scrivere che egli «deve essere più
che la teologia […] deve essere veritiero deve amare Dio. E non è sufficiente
che lo faccia per se solo, nella sua cameretta […]. La sapienza che abita in
lui, nel suo cuore pieno di venerazione, è Dio che l’ha destata in lui» [2]. Quel
“più di essere” che il teologo è impone, allora, il tentativo di delinearne l’identità. Dalle parole di Rosenzweig già
tralucono indicazioni di un certo spessore e, perciò, possiamo iniziare a tracciare
il profilo del teologo:
1)
dire la verità e amare Dio;
2)
il suo è un compito da svolgere a livello
comunitario; 3) deve riconoscere che
la “sua sapienza” è un dono di Dio che si converte in responsabilità.
Da
giovane, il gesuita Daniélou, nell’aprile del 1946, pubblicò un articolo che
accese non poche polemiche; in esso, rintracciamo tre elementi che si rivelano
essere il costitutivo fondamentale del teologo: egli – scriveva il nostro
autore – come gli angeli nel sonno di Giacobbe deve salire e scendere sulla
scala; stare, cioè, tra (primo momento) eternità
e (secondo momento) tempo. I due
movimenti sono ininterrotti e si richiamano l’un l’altro. Il terzo momento, infine,
è costituito dal «tenere conto dei bisogni delle anime» [3].
Il
lavoro teologico è incardinato sull’umiltà, ma rimane necessario perché – nota
uno studioso – «la rivelazione non prescinde dalla comprensione storica che si
ha dell’evento rivelato, e quindi è anche teologia, o meglio teologie (non uno ma quattro vangeli)» [4]. Ogni
Vangelo è già una teologia: lettura della vita di Cristo a partire dalle
esigenze di una comunità particolare, ben identificabile!
C’era
– onestamente – agli inizi un legame più forte tra il “fare teologia” e la
“relazione vitale” con Cristo; c’è stato un tempo in cui i “problemi” non
venivano lumeggiati da «un’impostazione ‘tecnica’ […], ma si sollevavano a mano
a mano che l’annuncio di Cristo» si confrontava con altri ambiti
‘culturali/religiosi’ – scrive ancora Visonà (p. 36).
Un
Padre della Chiesa ha addirittura sottolineato con forza come i problemi
teologici convivessero con le minime incombenze quotidiane.
A
Costantinopoli, in piena crisi ariana, ecco con quale intensità si avvertivano
le questioni dogmatiche che, oggi, forse non interessano nemmeno gli uomini di
cultura più in vista:
«Se
domandi informazioni sulle monete, uno ti fa una dissertazione sul generato e
l’ingenerato; se chiedi il prezzo del pane, ti rispondono che il Padre è più
grande, e che il Figlio gli è sottomesso. Chiedi se il bagno è pronto, e uno si
mette a dissertare che il Figlio è stato creato dal nulla» [5].
Detto
altrimenti: nelle “cose della teologia” ne andava della vita! Il mio opuscolo
offre “sette provocazioni” per tentare
di capire qual sia l’identità del teologo.
L’augurio
è che il percorso possa incidere nel vissuto di chi si dedica alla teologia e
non sia semplicemente un esercizio accademico in più da congelare in un archivio.
Il teologo come testimone
dello Sposo
Percorso I
Vorrei essere
così buono da far dire di me: se questo è il servitore, come sarà il Maestro? (H. Huvelin)
L’impianto
del primo percorso si incardina su di una icona
evangelica. Parlando della sua ricerca, H. U. von Balthasar, scrisse: «Io
considero la mia teologia come una specie di dito di S. Giovanni Battista che
indica la pienezza della rivelazione in Gesù Cristo […]. Non ho mai scritto per
il successo ma allo scopo di mostrare a qualcuno qualcosa di cui io penso che
debba essere visto» [6].
Giovanni Battista è, anche secondo il nostro parere, “modello” fecondo per
indagare intorno all’identità del teologo.
Egli, infatti, come il Battista, non fa che indicare
Cristo; Questi è lo Sposo: il
teologo (come Giovanni), l’amico, il testimone. In Gv 3, 29, come sappiamo,
il Battista dice che è lo Sposo a possedere la sposa e l’amico non fa che
gioire per lui. Scrive Ruperto di Deutz:
«Giovanni
viene offerto come esempio a tutti gli amici dello Sposo, a tutti coloro che
hanno in sorte la cura e il governo della sposa di Cristo, cioè della santa
Chiesa, perché non la contemplino con occhi adulterini […]. Fino a quando,
infatti, essi predicano la fede cattolica, sono chiamati e sono amici dello Sposo […], Cristo parla in loro e
il loro seme è la parola della fede» [7].
L’amico dello Sposo non ne desidera la
sposa; chi piegasse la Chiesa (sposa di Cristo) ai propri interessi, cioè,
commetterebbe adulterio come chi, per il proprio piacere carnale, giacesse con
la moglie dell’altro. La prima verità che un teologo deve insegnare per
suscitare nei fedeli un rapporto autentico con la Chiesa è questa: «dove è Gesù
Cristo là c’è anche la sua chiesa» (Ignazio di Antiochia).
Le
fatiche teologiche, le meditazioni ecclesiologiche conserveran no sempre il
loro peso, ma tutto deve tendere a far comprendere Chi è il vero, unico Fondamento:
«La Chiesa vacillerà se le sue fondamenta vacillano, ma come potrebbe vacillare
Cristo?» (Agostino). Una mistica ci ha
poi detto qual è la Chiesa che Cristo sposa: «Dalla croce il Figlio offre sua
madre alla Chiesa che ama (rappresentata da Giovanni, discepolo prediletto) e
non alla Chiesa dei ministri. La Chiesa che ama precede sempre di alcuni passi,
o di qualche lega, la Chiesa dei ministri» (Adrienne von Speyr).
Il
teologo deve fare di tutto per presentare al mondo la Chiesa amata da Cristo
che – come Giovanni accoglie Maria – sia capace di aprire il cuore e le braccia
a quanti Cristo ci affida. Accoglienza, servizio!
Il
teologo, se vuole essere “amico di Cristo”, poi, ne deve riconoscere il
privilegio fondamentale: è il solo e legittimo “sposo della Chiesa”. Chi predica la fede cattolica (senza
annacquamenti e distorsioni), poi, pure merita l’appellativo di ‘amico’! Cristo
parla in quanti, non solo in veste di teologi, eleggono a modello Giovanni;
solo chi lavora a queste condizioni ha un seme
che non manca di svilupparsi: la parola
della fede. Il teologo assiste con gioia – e la racconta con entusiasmo –
alla storia d’amore nuziale interminabile tra lo Sposo e la Chiesa; non il
successo – come scriveva sopra von Balthasar – è il motivo originante di quanto
il teologo scrive, bensì lo scopo di
mostrare a qualcuno qualcosa di cui egli pensa che debba essere visto.
Cos’è necessario “far vedere”?
L’amore nuziale indissolubile che lega
Cristo alla Chiesa e, allo stesso tempo, mostrare che, chi ama Dio, di tale
relazione amorosa gioisce, non intromet tendosi per scopi personali, perché
coltiva un vero rapporto di amicizia con lo Sposo. Conclude Ruperto di Deutz
che, all’amico, è «sufficiente […] che egli sia stato ritenuto degno di essere
presente e ascoltare, e di conoscere quei segreti celesti che vengono trattati
con la sposa». Al teologo basti la dignità di essere testimone (per partecipare
tale gioia ad altri) del colloquio che Cristo intrattiene con la Sposa per
comunicarle i segreti celesti.
Il teologo abita nella
Parola
Percorso II
Con la mia vita interpreto la Scrittura (San Nilo)
Pietro
Comestore, nei Discorsi, si richiama
al Salmo 90, versetto 1, per dirci che non basta essere “eruditi” per abitare nell’aiuto dell’Altissimo. Un dotto esegeta ed un sapiente teologo,
dunque, non sono certo dei privilegiati nei confronti di Dio. Ci sono, per il
nostro autore, vari modi di avvicinare la Scrittura ma, chi si limita ad
‘attraversarla’, non è che un ‘ospite’: solo «coloro che abitano in essa» sono cittadini (12).
Il
nostro autore, poi, cita Luca 2, 15: passiamo
fino a Betlemme, per vedere questa
Parola che lì si è compiuta. La Parola si fa carne in Cristo e chi vuole
contemplarla deve mettersi in ‘cammino’ perché essa ha il Suo Luogo: Betlemme! Questo
nome significa ‘casa del pane’: «così – dice Comestore – anche noi saziamoci
delle Scritture come nella “casa del pane”: nel cammino […] portiamo frutti a
partire dalle parole che abbiamo ascoltato».
Nella
Scrittura c’è un alimento fondamentale per irrobustire la vita del teologo. Nelle
“parole” deve sempre, chi si occupa della ‘cose della fede’, far tralucere la
“Parola”: «Fai silenzio, poiché se parli il Verbo tacerà» - ammoniva Agostino.
Com’è vero, talvolta, in teologia.
L’erudizione
nel teologo deve sempre essere animata, guidata, ispirata dallo Spirito perché
“fare teologia” richiede, in primo luogo, che si ami Dio. Solo lo Spirito Santo – rilevava Tommaso d’Aquino nella
Summa contra gentiles – «fa di noi
degli amanti di Dio».
Il
teologo, l’esegeta mostrino “umiltà” nell’accostare la Parola e, se si fosse
costretti a registrare dei fallimenti nei percorsi di studio intrapresi, poco
importa: si chieda a Dio la grazia di
comprendere e non ci si limiti ad accrescere, fidando “orgogliosamente”
solo nelle “umane capacità”, il proprio “patrimonio epistemico”: «Meglio una
sconfitta nell’umiltà che una vittoria nell’orgoglio» - recita un Apoftegma.
La
“casa del pane” che ci sfama spiritualmente è situata laddove la Parola si è
fatta carne. Il luogo di nascita del Cristo – Betlemme – prefigura il dono di
Sé che Cristo ci fa nell’Eucaristia; il Divino Bambino nasce in una
‘mangiatoia’ perché è il ‘nutrimento assoluto’ della nostra fede. Di questo il
teologo deve essere – con arte – il “narratore”. La Scrittura non è un deposito
di concetti da apprendere, ma un pullulare di storie di uomini da imitare [8]. Il
teologo (che riguardo ad alcuni punti fermi nella ‘vita di fede’ non è
dissimile da qualunque altro uomo), dunque, ha da mettersi in cammino e non per girare a vuoto: deve passare fino alla ‘casa del pane’ per incontrare Colui che è ‘Pane vivo
disceso dal cielo’. A chi volesse obiettare che sto proponendo un
‘percorso’ lastricato di puntute e gigantesche difficoltà, rispondo con le
parole di Origene: «Meglio morire lungo la via di un ideale troppo alto che non
partire affatto»!
Il teologo non apre vie, ma cammina
sulle vie di Dio
Percorso III
L’uomo non
può concepire se stesso e il suo essere indipendentemente da Dio, né può include
re in questo suo concetto di Dio come un elemento di cui può disporre (K. Rahner)
Dio
è sempre disponibile per l’uomo, ma
non è a sua disposizione. Un
‘concetto di Dio’ che accogliesse un ‘elemento’ di cui disporre sarebbe
necessariamente falso, fuorviante.
Chi
– come dicevamo sopra – abita la
Scrittura sa, già da questa appassionata frequentazione, che non si può mai
prendere alla leggera la Parola e che Dio può dirci cose di una ‘semplicità
sconvolgente’ ma mai ‘banali’. Origene, forse uno dei più grandi biblisti del
suo periodo, commentando la Genesi, ammise:
«Noi,
per il solo fatto che crediamo – quantunque mediocremente – nel Cristo Gesù e
che ci gloriamo di essere suoi discepoli, non osiamo tuttavia dire che abbiamo
percepito faccia a faccia il significato che ci ha trasmesso di quel che è
contenuto nei libri divini […], onde non osiamo affermare questo che diciamo
come gli apostoli hanno potuto […] (perché) noi, a proposito di queste grandi
realtà e di tutto quanto ci sorpassa, non ignoriamo la nostra ignoranza» [9].
L’antico esegeta ci sta dicendo che non
basta credere nel Cristo Gesù anche perché, per lo più, lo facciamo in
maniera mediocre; non costituisce
titolo di merito erigerci a suoi
discepoli perché – non solo Dio è indisponibile ai nostri concetti
teologici – ma anche i libri divini spiazzano
la nostra capacità ermeneutica. Quando facciamo affermazioni – qui, a mio
avviso, la lezione potente di Origene – non possiamo seriamente pensare di
avere la stessa autorità degli apostoli
quando fanno le “loro” affermazioni. Il teologo è sempre di fronte, per
riprendere le parole del nostro autore, a grandi
realtà, a cose che tutte ci
sorpassano. Una condizione per non tarlare con improduttiva superbia il
nostro lavoro teologico è, dice Origene, quella di non ignorare la nostra ignoranza. Isaia lo diceva: le vie ed i
pensieri di Dio non sono i nostri! In teologia non apriamo vie a Dio ma, al più, possiamo percorrere, con stenti
notevoli, le vie di Dio. Elinandro di
Froidmont, nei Discorsi, è esplicito:
«non è scritto: “Preparate la via al Signore”, ma Preparate la via del Signore
(Mt 3, 3). Ogni via, infatti, per la quale Dio viene all’uomo è una via di Dio,
non dell’uomo» (I). Fare teologia è cercare di comprendere per “quali vie Dio
viene all’uomo” e non avere la pretesa di tracciarne; non sarebbe ‘fede’,
questa, ma mera ‘religiosità’ ad uno stadio primitivo. Ad ogni buon conto, il
compito di comprendere quali siano le vie
di Dio è motivato dal sapere, continua Elinandro, che esse – come insegna
il Salmo 24, v. 10 – sono misericordia e
verità. Chiude il nostro autore:
«Vuoi
preparare la via al giudizio?Giudica giustamente te stesso […]: misericordia
affinché tu perdoni al prossimo, verità perché tu corregga te stesso». Se il
teologo contribuisce attivamente a “preparare” non la via al Signore ma la via del
Signore, sappia che deve battersi alacremente per la “misericordia” e per
la “verità/giustizia”: imparando a perdonare il pros simo (chi è debole nella
fede e sprovveduto nella dottrina) e sottomettendosi alla Verità, non idolatrando la propria, correggere se stesso.
Nessuno
può accettare le tesi di un teologo non formato alla scuola dello Spirito Santo
che smantella le “vie al Signore” perché apre (come ogni teologo ed uomo di
fede sanno) soltanto le “vie del Signore”. È stato giustamente ricordato
riflettendo su Gv 14, 26: «Così, quando Gesù dice: Egli (Spirito) vi insegnerà
ogni cosa, ci mostra che nessuno può essere ammaestrato da un uomo se
questi non è ammaestrato interiormente dal magistero dello Spirito Santo.
Infatti, se lo Spirito Santo non soffia […] nel cuore di colui che ascolta,
invano, al di fuori, si eccita rumorosamente la lingua di chi insegna» (Erico
di Auxerre).
Il
teologo, se non vuol ridurre il proprio insegnamento ad una rumorosa
eccitazione della lingua, deve essere istruito interiormente dal magistero dello Spirito Santo.
Il teologo è la voce che annuncia la Parola
Percorso IV
Prima di
parlarci Dio parla attraverso la nostra sete per lui (G. Thibon)
La
nostra voce, spesso, è ridondante di parole parlate, ma non di parole parlanti (Merleau – Ponty). Solo
quando si “accende la sete della Parola” le nostre chiacchiere zittiscono. Con
von Balthasar dicevamo che la teologia è come
una specie di dito di S. Giovanni Battista: il fine sta tutto nell’indicare
la pienezza della rivelazione in Gesù
Cristo! La nostra “voce” è come quel “dito”: indica l’Altro, la Parola! In Gv
1, 23, il Battista afferma: Io, voce di
uno che grida nel deserto; in Gv 1, 1 – invece – si legge: In principio era la Parola. In quanto
uomini, possiamo dire “io” solo in una storia già cominciata, in un percorso di
fede aperto dalla preesistenza del Verbo. Io
è un pronome che indica solo chi ha voce,
non la Parola. Un Padre della Chiesa
commenta:
«prima
risuona la voce, perché poi si possa udire la parola. Giovanni, dunque, afferma
di esser la voce che precede la parola […] preannunciando la venuta del
Signore, egli viene detto “voce”: poiché attraverso il suo ministero la Parola
del Padre viene udita dagli uomini. Egli, inoltre, grida nel deserto […] poiché annuncia la consolazione del Redentore
ai giudei, che erano abbandonati e smarriti»[10]. Il
teologo deve annunciare Cristo che redime e consola gridando nel deserto affettivo – assiologico postmoderno. Non deve
presentarsi con superbia, quasi fosse la Parola, ma con l’umiltà di chi non è
altro che “una voce” che preannuncia la
venuta del Signore. Nell’omelia citata, Gregorio Magno scolpisce una
precisazione che vale per tutti, ma in modo speciale per chi si occupa, da
studioso, delle ‘cose della fede’: «La via del Signore giunge fino al cuore
quando la Parola della Verità viene ascoltata con umiltà». In Gv 1, 30, il
Battista afferma: Colui che viene dietro
a me esisteva prima di me. Nell’annuncio, nel fare teologia, pare che,
siccome c’è – in senso cronologico
non ontologico – prima l’io che parla, l’Annunciato sia secondo;
in realtà, come il Battista, si parla di Lui prima che il Cristo venga nel
mondo, ma Egli preesiste a tutti noi perché, dice l’evangelista Giovanni, la
Parola era in principio. Le nostre
voci tentano di balbettare quel “principio”, ma non sono coeve ad esso: «la
voce, essendo inferiore, viene prima, e la parola, che è superiore, viene dopo»
[11].
Ciò
vale anche sul piano umano! Zaccaria, che sarà il padre di Giovanni Battista,
nel vangelo lucano, è un sacerdote e non ha figli; si tratta, dunque, di un
dolore doppio. Per la mentalità ebraica non avere figli significava non essere
“benedetti” da Dio. Quando gli viene annunciata la nascita di un figlio, oppone
perplessità che rasenta l’incredulità. Viene, perciò, condannato al “mutismo”.
La
moglie Elisabetta rimase incinta e si decise, mentre ci si aspettava prendesse
il nome del padre, che il nome del nascituro fosse Giovanni! Zaccaria – muto –
scrisse il nome di suo figlio su di una tavoletta e ricominciò a parlare. Sul
“mutismo del sacerdote”, scrive Ambrogio: «poiché l’incredulità gli aveva tolto
la parola sia l’udito, egli esprime […] scrivendo ciò che non poteva esprimere
con la voce». Quando lo Spirito di Dio vuole comunicare quanto contribuisce
alla storia della salvezza, il teologo stia tranquillo: anche in un periodo di
poca loquacità, di limitatezza espressiva, il mezzo per l’annuncio si trova
sempre! Zaccaria – dice Ambrogio – può tornare a parlare perché, dando il nome
voluto da Dio al figlio, «aveva dato voce alla Voce». Se il teologo dà voce
unicamente ai suoi pensieri, rischia di apparire muto! Vero teologo –
sull’esempio dello scrivente Zaccaria – è chi dà voce alla Voce e mette le parole
a completa disposizione della Parola!
Il sacerdote, nell’intensa pagina lucana, non deve scegliere il nome del figlio
perché su di lui Dio ha un progetto: il suo nome, in ebraico, è Dio fa grazia! Ambrogio scrive che è
«questa una prerogativa dei santi: di ricevere il nome da Dio».
Nella
cultura ebraica un nome non è dato mai a caso ed indica, piuttosto, quale
missione un uomo deve portare a termine. Sul Battista il progetto non viene dal
padre terreno, ma dal Padre Celeste ed è giusto che il suo nome lo mostri con
evidenza solare. Il teologo deve insegnare al cristiano che il nostro nome è la
nostra identità e, se si vuole tendere alla santità, in queste cose occorre
lasciar parlare Dio per prima. Cosa accomuna, per tirare una conclusione, il teologo a Zaccaria? Ebbene, proprio nelle parole di Ambrogio di Milano
troviamo la spiegazione del nostro accostamento: «Crediamo dunque anche noi,
perché possiamo parlare, perché la nostra lingua, che è rimasta legata ai lacci
dell’incredulità, si sciolga in parole secondo Dio. Scriviamo i misteri sul
nostro spirito (Lc 1, 63), se vogliamo parlare, scriviamo non su tavole di
pietra, ma sulle tavole di carne del nostro cuore (2Cor 3, 3)» [12].
Chi
non scioglie la propria lingua in parole
secondo Dio – fosse pure il più rinomato tra i teologi – darà sempre
l’impressione (laddove non sia proprio così) di essere legato ai lacci dell’incredulità.
Non
su libri corposi, simili a freddi e morti cuori di pietra, il teologo deve
registrare i suoi percorsi di ricerca appassionata, ma deve imparare a scrivere
nei cuori (sì, anche sul suo) perché i misteri
di Dio vanno scritti sul nostro spirito.
La
voce guarisce dalla raucedine spirituale solo se respira la balsamica Parola di
Dio e l’alita nelle anime altrui.
Il teologo dà il suo
poco ed ha un io ospitale
Percorso V
È meglio
amare Dio che conoscerlo speculativamente. È meglio amare i fratelli recanti in
sé l’immagine di Dio, anziché conoscerli
(J. Maritain)
Il
profeta Isaia (58, 6 – 7), proclamava: spezza
il tuo pane con l’affamato. Nel “Percorso II”, citavamo Luca che ci spinge
ad andare fino a Betlemme, la “casa del pane” che ci sfama spiritualmente. La “nostra casa”, aggiungevo, è là dove la Parola
si è fatta carne. Il luogo di nascita del Cristo – Betlemme – prefigura il dono di Sé che Cristo ci fa
nell’Eucaristia. Vivere del “Pane vivo disceso dal cielo” implica il
condividerlo con chi è affamato della
Parola, con chi attende che, seppure abbiamo poco sapere riguardo alle
‘cose della fede’, noi lo si condivida con loro. Un antico autore cristiano
commenta il passo di Isaia:
il
Signore non dice di dare all’affamato «un pane intero, quando forse un povero
non ha altro che quel pane […]: anche se sei talmente povero […], spezza quello
e danne al povero» [13].
Quanto riusciamo a guadagnare con l’esegesi, con la riflessione teologica nella
“casa del pane”, per poco che sia, ha valore solo se lo si condivide. La fame della Parola che affligge il mondo
contemporaneo impone che, prima di elargire del pane, si abbia da offrire un io ospitale. Cesario di Arles, nel
“Discorso” citato, continua:
«Se
qualcuno è talmente povero da non aver di che donare del cibo […], almeno in un
angolo della sua casa prepari un pur povero letto a un viandante». Di là del
significato letterale del passo, ad usum
Delphini, possiamo dire: se è davvero poca cosa il nostro sapere teologico,
se la nostra competenza esegetica è allo stato larvale, iniziamo ad
“accogliere” l’altro che è nella condizione di povero viandante perché non sa che strada prendere per andare verso il
Senso.
I
“viandanti” del nostro tempo hanno bisogno del “Pane della Parola” ma devono,
in primo luogo, sentirsi accolti almeno
in un angolo della nostra casa; la “casa del pane” che si rivela essere
“vivo” solo se si spezza in favore dell’altro.
Tutta
la vita cristiana, le fatiche teologiche mirino, assorte e pronte alla carità, a
rendere ognuno di noi Eucaristia per l’altro.
Il teologo: una lucerna; Cristo: la Luce.
Il teologo: un vaso; Cristo: la sorgente che riempie
Percorso VI
Quando il
Signore tornerà sarà un giorno così luminoso che non saranno più necessarie le
lucerne (Agostino)
Le mie
passioni sono state crocifisse […]. Ma un’acqua viva mormora dentro di me e mi
dice: vieni al Padre! (Ignazio di
Antiochia)
Riguardo
al Battista, l’evangelista Giovanni, scrive: Non era lui la luce (Gv 1, 6 – 8); in Gv 1 – 9, invece, leggiamo: C’era la luce vera. I teologi devono
riconoscersi in questa definizione del Battista: non solo loro la luce, ma
Cristo è la Luce vera! Agostino, spiega: «Giovanni non illumina ogni uomo,
Cristo illumina ogni uomo. E Giovanni riconobbe di essere una lucerna che non
deve lasciarsi spegnere dal vento della superbia. La lucerna, infatti, può
essere sia accesa che spenta. La parola di Dio non può essere spenta» [14]. Chi
parla delle cose della fede, per quanto si trovi fasciato in robusta
erudizione, non è che una lucerna: un
cenno che lascia pensare alla Luce,
non la Luce! La Parola non conosce l’alternativa ‘accesa’ o ‘spenta’: la
minaccia del buio riguarda le lucerne che – non riconoscendosi tali – si
lasciano spegnere dal vento della
superbia.
Fare teologia è accendere
lucerne; ma se non le si lascia superare
dalla Luce smettono di essere mezzi
e si ergono, suicidandosi, a fine!
La fede è sempre accesa e non spetta a noi – per competenza o per imperizia –
promuoverla, accrescerla o diminuirla. È stato detto: «Siccome la fede è una
sola e sempre la stessa, né chi è molto abile nel parlare di essa l’arricchisce,
né chi è poco abile la impoverisce» [15]. L’esergo
di Agostino è profetico e totalmente condivisibile: il Signore tornerà e le lucerne
– teologie non saranno più necessarie. Che si intende dicendo che il teologo è un vaso e Cristo la sorgente? Quando – come scrive Ignazio
di Antiochia nel secondo esergo a questo percorso – le nostre passioni vengono
crocifisse, si apre uno spazio di vita interamente a disposizione di un’acqua viva affinché, parlandoci, ci
inviti ad andare dal Padre. Quando
Agostino lesse Gv 1, 16 (Dalla sua
pienezza noi tutti abbiamo ricevuto), propose questa interpretazione: «Noi
siamo i vasi, egli è la sorgente».
Siamo
capax Dei se coltiviamo la ricettività all’Altro; rimaniamo vuoti
senza il “riempimento divino” (azione divina che ci struttura a livello ontologico). Farsi riempire dallo
Spirito non significa buttar via quanto ci costituisce, ma solo metterlo a
disposizione di Dio; i teologi devono attuare e spingere a realizzare questa
ricettività allo Spirito: «Il vero fine della nostra vita cristiana è
l’acquisizione dello Spirito Santo; la preghiera, le veglie, il digiuno,
l’elemosina e le altre buone azioni fatte per Cristo non sono che mezzi per
acquisire lo Spirito di Dio» (Serafino di Sarov) [16]. Siamo
necessitati a servirci delle lucerne in attesa della piena manifestazione della
Luce; questo, insisto, non deve mai giustificare che una teologia – lucerna si proponga come più luminosa di un’altra.
Imitiamo il Battista che «pur possedendo una tale virtù da poter essere creduto
il Cristo […] confessò: Non sono io il Cristo (Gv 1, 20). Ma
egli […] negò sì ciò che non era, ma non negò ciò che era […], dicendo la
verità, diventò membro di colui del quale non aveva usurpato il nome. Proprio
per il fatto di non volersi appropriare del nome di Cristo […] divenne
partecipe di Cristo» [17]. Se
neghiamo ciò che non siamo (siamo lucerne e non Luce) affermiamo anche ciò che siamo
(creature mendicanti il Senso). Il
guadagno derivante da questa “apparente” umiliazione (ma essa è, piuttosto, umiltà) è enorme: diciamo la verità su
noi stessi e su Cristo e ne diveniamo “membri” proprio per non aver
maramaldeggiato sul Suo Nome! Agostino, nel “Discorso” già citato, offre la
conclusione a questo percorso: «egli
(Cristo) è la luce del giorno, noi le lucerne. Grande la debolezza degli
uomini, che possono attendere la luce del giorno solo grazie all’aiuto delle
lucerne” che – venuto il Signore – troveranno compimento nel fondersi in Lui
che è la Luce.
Questa
la speranza che la teologia deve annunciare, testimoniare, pur con la poca
illuminazione che è capace di garantire.
Il teologo parli come
con parole di Dio.
Il teologo
parli con una lingua razionale
Percorso VII
Una delle
cause delle difficoltà sperimentate dalla teologia in questi ultimi secoli
consiste precisamente nel fatto che i teologi hanno voluto rinchiudere il
mistero in formule (Neofita Edelby)
Un
verso del vangelo lucano, recita: e tale
demonio era muto (Lc 11, 14). Un antico autore cristiano, commenta: «Mi
tiene (il demonio) lunghi discorsi ora sulla mia scienza, ora sulla mia vita di
fede […], ora sulle mie doti carismatiche, ora sulla mia eloquenza […]» [18]. Il
teologo deve evitare due insidie: 1) come asseriva Edelby nell’esergo a questo
percorso, si è fatta scadere troppo spesso la teologia a fatica superba e vana
di mettere il “mistero” in “formule”; per questo ‘innegabile guasto’, poi, si
accolgono – quando arrivano – i complimenti, gli apprezzamenti. Seguendo Isacco
della Stella, però, ci accorgiamo che si tratta di lunghi discorsi del demonio. Le lodi ricevute per la nostra scienza
riguardo alle ‘cose della fede’, le lusinghe di chi esalta il nostro modo di
vivere la fede vanno prese con diffidenza: in esse potrebbe star parlando il
“maligno”. Un teologo deve sempre stare attento a questa minaccia troppo suadente
per essere immediatamente intercettata. Il demonio – dice Isacco – a «tal
punto, spesso, distoglie e occupa le mie orecchie, che non gusto più neanche il
leggere o l’ascoltare qualcuno che legge». Il demonio mette al centro della
scena il nostro Ego e toglie il gusto
di ascoltare la parola dell’altro e dell’Altro! Nel parlarmi – continua il
nostro autore – mi ammutolisce del tutto e mi rende ottuso, sordo. Isacco,
perciò, crede sia questa la ragione per la quale Luca definisce “muto” il
demonio: «poiché coloro che esso invade li rende muti, cioè incapaci di lodare
Dio e di svolgere i compiti che spetterebbero a una lingua razionale». Ecco il
punto: scopo del maligno è rendere irrazionale
la nostra lingua deprivandola della capacità di lodare Dio. Come deve essere, allora, una lingua razionale? Il nostro autore cita la Scrittura: Se qualcuno parla, lo faccia come con parole
di Dio (1Pt 4, 11). La “lingua” si comporta in maniera “razionale” quando
parla con parole di Dio e non
ripetendo le esaltanti ma false parole del tentatore che ingigantisce il nostro
Ego fino a rendere invisibile Dio alla nostra coscienza. Il teologo, che ha
anche il compito di mostrare come deve essere l’uomo con Dio e cosa può
diventare l’uomo senza Dio, insegni
(dopo averlo ben imparato) all’uomo di fede cosa significhi lodare Dio: avere una lingua razionale che, per Isacco della
Stella, è tale se non pronuncia
1)
parole vane e di menzogna;
2)
di lite e di perdizione;
3)
di calunnia o di arroganza;
4)
di cupidigia e di lussuria.
La
lingua, inoltre, è razionale
1)
quando loda Dio;
2)
quando si accusa davanti a lui;
3)
quando edifica il prossimo.
Non
c’è “discorso teologico” che tenga se non si parte da questi punti fermi: dire Dio senza preoccuparsi di farlo
ricorrendo alle parole di Dio stesso
renderebbe inascoltabili i nostri argomenti anche se volessimo imporli
gridando. Conclude, infatti, Isacco: «Colui che tradisce in queste cose è muto,
per quanto gridi».
Fare
teologia rinunciando alla “lingua razionale” che è strutturata come ci è stato
esposto, significa destinarsi al non – ascolto del mondo!
CONCLUSIONE
Cosa
deve ricordare il teologo a se stesso ed a quanti attendono da lui – per quanto
sia appena una lucerna –
illuminazione? Mettiamo assieme, per concludere, due voci: la prima è quella di
un Padre della Chiesa; la seconda, quella di un Papa. Il primo, Giovanni
Crisostomo, afferma che Cristo di ha lasciati
sulla terra per essere:
fiaccole che illuminano: «Voi siete la luce del mondo […] risplenda la vostra
luce davanti agli uomini» (Mt 5, 14 – 16). Solo Cristo ha diritto di
promuoverci da lucerne, fiaccole a luce. Che si sia promossi o no, continuino, come
possono, teologi, pastori, laici cristiani, ad illuminare il buio del nostro
tempo.
fermento nella pasta: «Un cristiano (ma, voglio aggiungere di mio, ciò
vale anche per il teologo) non è necessariamente un uomo migliore degli altri,
ma ha più responsabilità» (Piero Gheddo). Il cristiano – che sia o no teologo –
non può affondare selvaggiamente le mani nella “pasta del reale”, ma vi si deve
immergere come lievito, fermento. Il cristiano, soprattutto se erudito teologo,
non è migliore degli altri, ma solo più responsabile perché egli – come
insegnava proprio il Crisostomo – è un
uomo a cui Dio ha affidato tutti gli uomini.
angeli tra gli uomini: Angelo,
cioè, “messaggero”, “annunciatore” della Parola; voce che prepara l’irruzione della Parola! In questo consiste anche il “tratto angelico” del teologo.
adulti tra i bambini: Adulto è
colui che è in grado di “dire” ma, in primo luogo, di “fare”. Il motto di chi,
teologo o credente non erudito, è maturo nella fede è questo: «che le parole
tacciano, che le opere parlino» (Antonio da Padova). Le parole, dopo aver
“annunciato”, si spengano come lucerne che hanno assolto il loro compito: resta
l’agire perché – come dicevamo
nell’Introduzione citando Rosenzweig – soprattutto per il teologo non è sufficiente che lo sia per se solo,
nella sua cameretta, ma deve aprirsi
agli altri, all’Altro in un rapporto di fede matura. Il teologo che è ‘davvero’
divenuto ‘adulto nella fede’ deve guidare quelli che in essa sono ancora
‘bambini’ con fermezza e docilità.
uomini spirituali in mezzo a uomini
carnali («per conquistarli»): «Nella
vita spirituale non progredire significa arretrare» (Giovanni della Croce). Chi
non progredisce spiritualmente non solo arretra riguardo a se stesso, ma porta
tra gli “uomini carnali” uno simile a loro che non li stimola, dunque, a crescere
nella fede. Un teologo che non mostrasse evidenti segni di maturità spirituale non
porterebbe frutto nel mondo.
seme e portare abbondanti frutti: Nei Sermoni
predicava Pietro il Crisologo: «Andate nel mondo intero. Diventate la speranza
degli uomini». A questo punta il percorso tracciato finora: essere uomini
capaci di portare la Speranza che salva.
Chi, soprattutto se si presenta attrezzato di certificato sapere teologico, non
ha tradotto in vita tutto questo non potrà nemmeno assolvere al compito di
lucerna perché è, spiritualmente, oscuro. Ha avuto ragione chi ha detto che non ci sarebbero più pagani se ci
comportassimo da veri cristiani.
La
seconda voce che scomodo, invece, è quella di Paolo VI che, il 26.1.1977, ci
esortò (la sfida è sempre valida) ad essere,
in qualità di testimoni di Cristo,
uomini veri: L’uomo vero (che
i teologi devono far risplendere nel raccontarlo – almeno potenzialmente – cristiforme) riconosce che la propria
identità è “donata” in parte come eredità ed in parte come compito: «per questo
solo viviamo: per diventare simili a Colui che ci ha fatti a sua immagine»
(Guglielmo di Saint – Thierry).
cittadini leali e sinceri: Si inizia col prendere sul serio, ma anche
“criticamente”, il mondo nel quale si vive. Un teologo non è tenuto a non valorizzare
i tesori culturali, artistici del paese in cui vive; né può – fin quando non
stridono con la sua coscienza di credente – non tenere in considerazione le
leggi dello Stato. Chi è leale e sincero verso il “luogo” nel quale vive ne
salva quanto è bene e ne mette in discussione quanto è (allo sguardo della fede
cristiana) male; sempre, però, con la certezza che non «c’è niente di misero
nei nostri momenti, tutti racchiudono un regno di santità» (Jean – Pierre
Caussade). Ogni luogo, ogni momento il teologo deve – lealmente e sinceramente
– renderlo, fondando sulla Parola, un regno
di santità.
cittadini di
questo tempo e della Città di Dio (la
Chiesa): In una monumentale opera, intitolata La Città di Dio, Agostino scrive:
«La Chiesa prosegue nel suo pellegrinaggio tra le
persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio».
Il “cammino della Chiesa” non può ignorare i mali del
mondo perché può andare verso il compimento
escatologico unicamente “assumendo” e “redimendo” lo storico!
Non c’è realtà terrestre, storica, con la quale il
teologo non debba fare i conti motivando ogni cristiano ad assumere un
atteggiamento critico/cristiano verso
gli ambiti vitali del mondano.
Ha detto Joseph Colomb: «Un cristiano deve giudicare
tutto in funzione del Regno di Dio». Uno sguardo
tra il critico ed il profetico il teologo deve acquisire nel
“proporsi ad altri”, nell’“aprirsi al mondo”.
L’appello ai teologi – di fronte a quanto, non senza
peccati d’omissione, abbiamo esposto – lo lascio ad un Padre della Chiesa imbevuto
di saggezza evangelica: «Queste cose, fratelli amatissimi, ascoltiamole non in
maniera passeggera e solo con le orecchie del corpo, ma, applicandoci a esse
fedelmente, insegnamole, affinché anche altri possano custodirle e compierle,
sia con le parole, sia con l’esempio» (Cesario di Arles).
Mi si lasci lo spazio per altre due riflessioni. Il
teologo non deve, pensando di essere in una situazione (intellettuale)
privilegiata, trascurare di scendere laddove attendono quanti hanno difficoltà
a credere. Anche lui, infatti, conosce benissimo la condizione cantata dal
poeta Rilke nel Libro del pellegrinaggio:
Contro ogni
fede, Dio, che ti proclama
un dubbio
insorge, Dio, che ti cancella.
L’ambivalenza rilkiana, ecco l’aspetto drammatico e
dilemmatico della fede, sovente alberga nel petto di un credente.
La croce è “aperta
in tutte le direzioni” e nessuno la può coartare in un cerchio, “simbolo di perfezione”, della “logica”: siamo – infatti –
cristiani e non cartesiani; la fede è paradosso, non logica; siamo razionali nel
credere, ma non razionalisti. Ospitando
in sé la minaccia dell’ateismo, pure il teologo deve innanzitutto pregare perché, come testimonia il
Vangelo di Marco, la nostra incredulità ha necessariamente bisogno dell’aiuto
di Dio.
Un rabbino hassidico, a chi gli parlava di fede, rispondeva alludendo alla preghiera:
«Si dice che le parole “io credo” siano una preghiera.
Significano “che io possa crede re».
[1] Cit.
da k. barth, Introduzione alla teologia evangelica, Cinisello Balsamo 1990, p.
190.
[2] Cfr.,
f. rosenzweig, La stella della redenzione, Casale
Monferrato, 1986, p. 318.
[3] j. daniélou, Les orientations presente de la pensée Religieuse, in «Ètudes» 249
(1946), pp. 5 – 21; qui, p. 17.
[4] Cfr.,
g. visonà, «La prima teologia
cristiana: dal Nuovo Testamento ai Padri Apostolici», in e. dal covolo
(a cura di), Storia della teologia. 1.Dalle origini a Bernardo di Chiaravalle,
Bologna – Roma 1995, p. 25.
[6] Cfr., h. u. von balthasar, Geist und Feuer. Ein Gesprach mit Hans Urs
von Balthasar, «Herder Korrespondenz» 30 (1976), p. 73.
[7] Commento al Vangelo secondo Giovanni, I,
I, 29 – 30.
[8]
«Ascoltare narrazioni – al passivo – e, all’attivo, narrare. Forse questo verbo
oggi in disuso ci può introdurre alla parola nel brusio delle parole.
Narrazione dice soprattutto movimento […]. Ha a che fare con i fatti, non
importa se grandi o piccoli, veri o inventati. Le Scritture riguardano fatti.
Storie, al plurale, dato che […] la Bibbia non è la narrazione lineare della
storia della salvezza» (f gentiloni, Non nominare invano, Roma 2008, p. 52).
[9] origene, Commento sulla Genesi (PG 17, 544 B - C).
[10]
Cfr., gregorio magno, Omelie sui Vangeli I, 7, 1 – 2.
[11]
Cfr., ambrogio di milano, Esposizione del Vangelo secondo Luca, 2,
73 – 76.77.
[12]
Ibidem.
[13] cesario di arles, Discorsi 199, 1 – 4.
[14]
Cfr., agostino, Discorsi 289, 4 – 5.
[15] ireneo di lione, Contro le eresie, 1. 10.2.
[16]
Riguardo a quanto ci costituisce, va detto che porta frutto quando ci “visita”
lo Spirito di Dio e solo e soltanto
se è consistenza donata a Chi la può integrare, accrescere e portare a maturazione
Trascendente; d’altro canto, «per la
teologia cattolica l’uomo che accetta la rivelazione ogget tivatasi storicamente
ed ecclesialmente istituzionalizzata, non è una tabula rasa […]che nulla
porterebbe nell’incontro con essa» (k.
rahner, Sul rapporto odierno tra
filosofia e teologia, in id.,
«Nuovi Saggi V», Roma 1975, pp. 95 – 118; qui p. 115).
[17]
Cfr., gregorio magno, Omelie sui vangeli, I, 7, 1 – 2.
[18] isacco della stella, Discorsi 38, 6 – 9.
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