O Signore Dio mio, mai io ti ho visto, non
conosco il tuo volto. Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non
posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti manifesti. Che io ti
cerchi desiderandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti
sant’anselmo
Don
Luigi Giussani invitava ad avere una ragione
aperta come “una finestra spalancata su una realtà nella quale” l’uomo “non
ha mai finito di entrare”. Il mistero cristiano sarà sempre un passo avanti allo
sforzo di farne la nostra realtà. Ci
riterremo sempre, perciò, perennemente on
the road. Credere è un esercizio relazionale
e, affermava de Saint – Exupéry, con nessuno, nemmeno con Dio, si può essere solidali se non si inaugurano legami. La ‘strada’, l’‘annuncio’, a suo
dire, sono interdipendenti; amare Dio, diceva, significa andarsene, zoppicando,
per la via per portarLo agli uomini.
Tutti noi, insieme, aggiungeva, siamo
il passaggio per Dio che prende e si
serve – “per un istante” - della generazione alla quale apparteniamo per
manifestarsi. Fare questi ‘bei discorsi’ è cercare il senso della vita. Gandhi pure affermava che realizzare il regno di
Dio sulla terra è precisamente quel senso
che cerchiamo. Si deve passare, spiegava, da una vita asservita all’egoismo,
alla violenza ed all’irrazionalità, ad una vita intrisa di amore, fraternità,
libertà e ragione.
Questi
temi devono stare ai primi posti nell’agenda del teologo contemporaneo,
affiancati dalla preoccupazione riguardo al linguaggio (o ai linguaggi) opportuno/i
per affrontarli. Affrontare la questione del linguaggio riguardo al come
‘comunicare la fede’ nel mondo odierno, impone la previa convinzione che l’intelligenza
della Parola è compito comunitario, non affidabile all’acume di un solo teologo.
La Parola genera inevitabilmente una ermeneutica ecclesiale. Gregorio Magno
dichiarò che quanto delle Scritture gli appariva incomprensibile, si illuminava
esaminandolo assieme ai fratelli. In Moralia,
riprendendo il tema, scrisse: “L’intelligenza della Parola spesso allo stesso
maestro della comunità viene concessa per la santità del fedele che lo
ascolta”(30, 27.81). Per gli antichi teologi l’apporto dei fedeli era
necessario anche nelle faccende che competevano all’autorità ecclesiastica. Significativa
l’esortazione che Cipriano di Cartagine rivolgeva ad un vescovo: nihil sine consilio vestro et consensus
plebis, non emettere deliberazioni
senza previo ascolto del parere del popolo! L’altro è sempre implicato in tutte le forme di relazione con l’Altro. Origene, nelle Omelie sulla Genesi, chiede un aiuto ai
fedeli: “Pregate per noi, fratelli, perché i nostri discorsi non siano
falsi”(12, 1).
Un
tempo si poneva maggiore attenzione sul dettato biblico e meno su teorie
teologiche impregnate di saperi specializzati (filosofia, psicologia…). Basilio
di Cesarea, infatti, sostenne che erano proprio le difficoltà emergenti dalla
Scrittura a rendere complicata la penetrazione delle dottrine cristiane (Trattato sullo Spirito Santo, 27, 66).
Vigilare
su quanto realmente insegnano le
Scritture era, perciò, carità verso i
credenti più deboli intellettualmente. Lasciare la Parola nelle mani di
persone disoneste era ed è pericoloso. Ambrogio di Milano, nel Trattato sul Vangelo di Luca, traccia
parole di fuoco: “Anche il diavolo usa testimonianze della Scrittura, non per
insegnare, ma per imbrogliare e ingannare”(4, 26). Questo impone al teologo di
invitare i cristiani ad un rapporto diretto con la Bibbia , con l’ausilio di
manuali attendibili e seguendo le direttive del Magistero. Non si tratta di esercitazioni accademiche, ma dell’obbligo
riguardante tutti i credenti di
salvaguardare la Parola da sofisticazioni.
Quello che conta, però, è di attuare questo movimento: dalla fede sincera alla maggiore conoscenza
della Parola per rafforzare la fede sincera
che, nutrita di scienza teologica, evita di svilirsi in fede ingenua.
Lo
sforzo intellettuale di chi si occupa di questa scienza, che ci vuole totalmente
compromessi con essa, ha come fine quello di offrire un servizio. Vorrei ci guidasse una lezione che Origene inserì nelle Omelie sul Levitico: “Da questa dottrina
umana (grammatica, retorica, dialettica) nulla si può ricavare per il
sacrificio; ma il parlare brillante, lo splendore dell’eloquenza e l’arte del
discutere ci è comandato di impiegarli al servizio della parola di Dio”(5, 7).
Il teologo deve insegnare come mettere a servizio della migliore intelligenza
della fede i saperi mondani, non disprezzarli.
Chi difende la propria fede con argomenti, con
argomenti può essere confutato – R.
Hamerling
Le
dottrine umane vanno indagate senza
farne dei fini; le nostre parole devono essere strumenti della Parola alla quale non va reso un omaggio meramente intellettuale;
per convertire il ‘fare teologia’ in servizio,
dobbiamo animare una ortoprassi:
tradurre in vissuto autenticamente cristiano quanto delle Scritture ci è
divenuto chiaro. Siamo scolari ed abbiamo di fronte a noi la cattedra sulla quale siede il solo
nostro Maestro. Agostino ha disegnato
virtualmente l’aula nella quale dobbiamo ritrovarci: “Il legno della croce (…) diventò
la cattedra del maestro che insegna”(Commento
al Vangelo di Giovanni, 119, 2).
Siamo
abituati, ahimé!, a seguire quanto è generalmente ritenuto degno di attenzione
e ragioniamo ossequiando quanto appare ovvio, consueto ai più. Se vogliamo
cambiare le nostre categorie di pensiero, ci tocca ragionare – per dirla con
Paolo – avendo gli stessi pensieri di
Cristo che, ricordava Tertulliano, disse di sé ‘Io sono la Verità ’: “Cristo nostro
Signore chiamò se stesso verità, non consuetudine”(Sul dovere delle vergini di portare il velo, 1, 1 – 3). Veritatem non consuetudinem. Ragionare
teologica – mente significa avere una
prospettiva – altra entro la quale
considerare le cose del mondo. Si tratta di pensare
con i pensieri di un Altro, ma di renderli visibili in gesti personali e
personalizzanti.
La fede è un senso che ci permette di leggere il
significato del mondo – J. Steinmann
Vorrei
suggerire di non sottovalutare l’Antico Testamento, il retroterra ebraico del
Vangelo. È necessario perché alla paziente
pedagogia di Dio deve corrispondere la nostra pazienza ermeneutica imprescindibile per comprendere il senso del lungo cammino nel quale si è
snodata la Rivelazione
. Cristo diverrà ancora più familiare dopo aver studiato quanto, apparentemente,
pare a Lui estraneo. Aelredo di Rievaulx sostenne che la Bibbia consiste in un
insieme di affermazioni e precetti diversi che, tuttavia, si armonizzano in
base al principio ‘una è la fede’. I
diversi insegnamenti, i molti precetti, alla fine “emettono una dolcissima
melodia nel cuore dei fedeli” e nelle loro orecchie (De
oneribus 31). Come un fine musicista, il teologo deve educare a percepire armonia laddove un ascoltatore
impreparato coglie solo insensate dissonanze. Per Bonaventura non “può
conoscere le cose future colui che non conosce quelle passate. Se (…) non
conosco di quale albero è il seme, non posso conoscere quale albero nascerà” (Sull’Esamerone, 15, 11). L’albero cristiano nascerà ben radicato
nei nostri cuori se comprenderemo il seme
ebraico dal quale origina. Da lì discendono, poi, tutte le forme che
assume, fino a noi, la teologia. Ha ragione Ngindu Mushete nel dire, esponendo
i tratti caratteristici della black
theology, che “non c’è un mondo, ma dei mondi, non una storia, ma delle
storie, non una teologia, ma delle teologie”; tuttavia, non ha torto nemmeno
Hemel nel dire che la teologia è ‘il tutto nel frammento’.
Spiega:
“In ogni singola branca teologica, la teologia è (…) completamente e
assolutamente teologia”. Questa unione profonda, in tutta onestà, precede
l’impianto teologico in quanto elemento costitutivo del cristianesimo stesso.
Come disse Edith Stein, “i misteri del cristianesimo costituiscono un tutto
indivisibile. Quando si è penetrati in uno, si comprendono tutti gli altri”.
Raccomando, perciò, di frequentare pure il pensiero dei teologi più vicini alla
propria sensibilità, ma sempre tenendo vivo il riferimento alla Bibbia per
verificare se coincidono le parole e La
Parola. Immancabile deve essere, in
ogni caso, il riferimento alle fonti della nostra fede. Ce lo insegna San
Francesco di Assisi del quale, negli Opuscula
Sancti Patris Francisci Assisiensis, si legge questo istruttivo pensiero:
“Nessuno mi mostrava cosa dovevo fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che
dovevo vivere secondo la norma del santo vangelo”. Non è da noi che dobbiamo
estrarre i succhi vitali della vita cristiana, ma da quanto ci è stato
rivelato.
Le
Scritture, questo il teologo deve mostrarlo continuamente, non presentano concetti
teologici, ma li si trova profondamente intrecciati con storie di vita, con le
storie di singoli e di popoli. Basilio di Cesarea aveva, a tal proposito, idee
chiare e condivisibili. Scriveva nelle Omelie
sull’Esamerone: “La dottrina teologica si trova sempre misteriosamente
mescolata nel racconto biblico” (6, 2). Se il pensiero di un teologo non è
fondato sul misterioso intreccio di dottrina teologica e racconto biblico deve suscitare in noi
più di una perplessità.
Lo
scrittore Léon Bloy – che si diceva assettato ed affamato dell’Amore di Dio –
ammise che la sola infelicità consiste nel non essere santi! L’esercizio della fede deve santificarci, spingerci a stare dalla
parte di Dio. Senza questo obiettivo ci si occupa di teologia solo per elargire
parole parlate e non parlanti (Merleau – Ponty). Bloy
rimpiangeva di non essere divenuto ‘un santo’, un ‘taumaturgo’. Sentiva di non
essere diventato, insomma, ciò che Dio voleva da lui e, concludeva amareggiato,
“eccomi con in mano solo della carta”. Se con la conoscenza teologica tentiamo di parlare di Dio, con la fede
tradotta in carità, parliamo a Dio. Le parole devono – in quanto necessarie – lasciar trasparire la loro esposizione alla Parola e possono farlo
soltanto se davvero producono frutto, se sono relativamente efficaci perché riflesso della Parola che è assolutamente efficace: “al servo della
Parola (Logos) – ricordava Gregorio
di Nazianzo predicando sulla Pentecoste – abbisogna la parola (logos), e fra le parole” dobbiamo
eleggere “quelle che meglio si accordano con la circostanza” (Discorsi, 41, 1).
Dobbiamo
trovare sempre, occupandoci di teologia, una parola che testimoni di essere figlia della Parola. Il linguaggio della fede deve essere vivo, produttivo. Non
troviamo un solo passo biblico nel quale dire
e agire divino stiano separati. Per
fare di questa costante il nostro modo di essere cristiano, annotiamo quanto
diceva Agostino in Commento ai salmi:
in ipso facto, non solum in dicto.
Non solo in una frase biblica, ma
nello stesso fatto si deve cercare il
mistero (68, 2, 6). Il dire di Dio non viene mai tradito dai fatti. La stessa coincidenza tra gesto e parola dobbiamo, fin dove ci è consentito, realizzare nel vivere da
cristiani.
Mi
rimproverarono, in una conferenza, quando toccai il tema ‘parola e verità’, che
miravo troppo in alto. Devo dire, però, che un conto è l’umiltà con la quale vanno usate le nostre facoltà intellettuali e
linguistiche, un altro è l’umiliazione alla
quale – una forma patologica di devozione – le vorrebbe sottoporre. Quello che
importa è comprendere che noi facciamo parlare la Verità rivelata e non la nostra verità. Nel primo caso, si sceglie un giogo leggero e
portato con gioia. Ancora commentando i salmi, Agostino insegnava: “Chi intende
parlare secondo verità, non incontra difficoltà: lascia parlare la verità che
parla senza fatica”(cit., 139,13). Il teologo non fa la verità, ma è il vetro
che si preoccupa di tenersi pulito per lasciar passare la luce. La verità
cristiana va lasciata apparire senza vergogna perché mai essa sarà, per noi,
occasione di vergogna; come disse Tertulliano, infatti, nihil veritas erubescit nisi solummodo abscondi, la verità non arrossisce di nulla se non di
nascondersi. La Verità va lasciata parlare attraverso noi; la verità fa fatica a parlare solo quando
non ha un Fondamento credibile. Fare
teologia è non scadere in un amletismo tinto di pseudomisticismo, o di
qualunquismo morale. Il vero teologo assume questa regola: veritas sine labore loquitur. Essere fedeli alla Verità ci farà meritere
le parole che Gregorio il Taumaturgo scelse per parlare del suo maestro Origene:
aveva da Dio ricevuto il dono (“grandissimo”),
il privilegio (“eccezionale”) di
“essere presso i mortali l’interprete della Parola del Creatore, di intendere i
precetti del Signore quasi fosse Dio medesimo a parlargli, e di spiegarli agli
uomini adeguandosi alle loro possibilità di percepire”. Anche se ci sentiamo
‘la bocca di Dio’, l’umiltà teologica impone la carità di spiegare la Parola agli altri – e
questa lezione è fondamentale – adeguandosi
alle loro possibilità di percepire. Come dicevano i medievali, quidquid recipitur ad modum recipienti
recipitur, qualsiasi cosa si
recepisce, si recepisce a seconda di colui che la recepisce.
Uno
degli sforzi che il teologo deve compiere è quello di tentare di guarire l’uomo
contemporaneo da una particolare forma di ‘amnesia’. Una patologia, in verità,
che affliggeva anche gli antichi ebrei. Nel Libro del Profeta Baruc, al
capitolo 4, versetto 8, infatti, si legge un ammonimento: avete dimenticato chi vi ha allevati, il Dio eterno. Ilario di
Poitiers, commentando il Salmo 118,
erompeva in una lamentela analoga: “Ma vi è qualcosa di così difficile, una
fatica così ardua, che trovare un uomo il quale si ricordi che è stato ‘fatto’ secondo
‘l’immagine e la somiglianza’ di Dio?”. Se è arduo guarire questa ‘amnesia’
negli uomini del nostro tempo, ancora più difficile è fare accettare loro che,
malgrado la dimenticanza lamentata sia spesso volontaria, Dio – per dirla con
Cirillo di Gerusalemme – “concede un tale perdono, una tale quantità di grazie
al punto di esser perfino chiamato Padre”(Catechesi
mistagogiche, 5, 11). D’altronde, è difficile sentirsi perdonati, aver
bisogno di perdono quando si ritiene di non aver recato offesa a chicchessia. Dio,
per aiutarci a recuperare la memoria della nostra identità è diventato uomo, si
è incarnato! Dio stesso – dice Rahner – è uomo e lo rimane in eterno e, dunque,
in eterno noi siamo il mistero di Dio
espresso. Sì, ci aiuta il fatto che Dio
ha espresso il Suo mistero in forma umana: rende l’uomo teomorfo e se stesso antropomorfo! Rahner, perciò, ritiene
che Dio non possa trovarsi che nell’uomo
Cristo e nell’uomo in genere. Con
l’Antico Testamento, aggiunge il teologo tedesco, era giustificato dire ‘noi
siamo qui, Lui in cielo’; la venuta di Cristo, invece, impone di ammettere che
“egli è esattamente dove siamo noi e che solo là deve essere trovato”. Se il
teologo vuole sconfiggere l’amnesia dell’uomo contemporaneo, dimentico della
sua identità di ‘figlio di Dio’, sappia mostrargli Dio in Cristo che è – in
quanto uomo – il mistero di Dio espresso.
Sento
il dovere di avvisare che lo studio della teologia non eliminerà le ‘zone
d’ombra’ che circondano – inquietandola non poco – la nostra anima. I Padri
della Chiesa riconoscevano i limiti della loro teologia, ma avevano anche la
forza di non confondere l’umiltà
dell’intelligenza con la sua umiliazione.
Quando Ilario di Poitiers faticava a meditare il mistero della Trinità non
si avviliva e non scoraggiava chi era immerso nelle sue stesse fatiche: “so
bene che tu non ci arriverai mai” – scriveva ad un interlocutore – “e tuttavia
mi rallegro dei progressi che farai. In realtà, colui che con pietà persegue
l’infinito sa bene che non lo raggiungerà mai, trae però profitto, allo stesso
tempo, dal suo stesso camminare avanti” (La Trinità ,
2, 10). Sì, c’è guadagno anche impiegando al massimo la nostra povera ragione
solo per incontrare limiti se l’infinito è perseguito
con pietà (umiltà). Camminare avanti! Non è precisazione vana;
infatti, si cammina anche quando si va indietro, quando si regredisce! Ilario
dice che bisogna camminare verso la meta anche se non la si raggiungerà. L’esercizio teologico persegue l’infinito
con pietà e va sempre avanti perché si
rallegra dei progressi concessici. La ragione orientata teologicamente apprende
molto dallo scoprire fin dove si può spingere. Ogni limite ha il pregio di farci almeno
intuire un oltre. Gregorio di
Nazianzo, anch’egli occupato col mistero della Trinità, afferma qualcosa che si
salda all’incoraggiamento di Ilario: “Se ho trovato espressioni che le
convengono, ne sia ringraziata la Trinità.
Ma se sono state al di sotto di ciò che si dovrebbe
desiderare, anche così il discorso trionfa, perché l’intento era proprio quello
di far capire che (…) essa è al di sopra della nostra intelligenza”(Discorsi, 28, 31). Quando la nostra
teologia si rivela assai misera rispetto al proprio Oggetto, pure trionfa
perché è riuscita a far risaltare l’incommensurabilità
dell’Oggetto stesso. In un sermone (52, n. 16), Agostino afferma che Dio è
sempre oltre il più alto volo del
pensiero. Dobbiamo riuscire, se si vuole essere davvero teologi, a trasformare
la nostra attività intellettuale in preghiera. Paolo afferma di voler pregare con lo spirito, ma anche con la mente;
di voler lodare con lo spirito, ma senza escludere la mente (1Cor 14, 15). Il vero cristiano fa dello ‘spirito’ e della ‘mente’,
allo stesso tempo, l’ininterrotta
occasione di preghiera.
Peter
van der Meer, protagonista di una clamorosa conversione, scrisse: “Mi piacciono
gli uomini che cercano (…) che indagano (…) che non si accontentano delle cose
comuni, che gridano verso Dio”. Era questa, ammette, una follia di grandezza che mostra come non ci si possa accontentare “della
vita di tutti i giorni”. Esclama van der Meer, Io voglio Dio! Volere Dio:
ecco la nostra aspirazione quotidiana. Ilario di Poitiers, nel De Trinitate, chiariva che conoscere Dio è qualcosa da perseguire tenendo conto del fatto che non Lo si può descrivere, ma nemmeno si può ignorarLo
(II, 7). Non si tratta di conoscere un oggetto;
etimologicamente, qualcosa di posto
avanti a noi su cui condurre una indagine analitica. Anche l’antropologia
filosofica sbaglia quando si chiede cos’è
l’uomo? e non chi è l’uomo? Maritain
affermava che la filosofia finisce
contro il suo limite insormontabile
quando conosce sì i soggetti, ma come
oggetti e si rinchiude nell’angusta
relazione intelligenza – oggetto. La religione, invece, “si inscrive nella
relazione soggetto e soggetto”. Uomo
e mondo: il primo soggetto, il secondo oggetto; Dio e uomo: entrambi soggetti perché si incontrano nella relazione, non nell’investigazione. Ci si deve avvicinare al Mistero seguendo quella che Italo Mancini definiva la tecnica dei doppi pensieri: far coesistere – in ogni
indagine teologica – affermazione e negazione in crescendo “fino a quando
sulla cima il discorso si farà brevissimo, anzi silenzioso”. Solo così
sperimenteremo – gridandolo nella nostra anima – cosa provava van der Meer nell’esclamare
io voglio Dio! E volere è il modo più sicuro di trovare
perché Gesù insegna: colui che viene a me
non lo respingerò (Gv 6, 37).
La fede cristiana non si basa su idee, ma su persone,
le persone della Trinità - Rougier
Il
percorso di vita proposto dalla ricerca teologica è, oserei dire, il segreto
per rimanere sempre giovane! Dio è inesauribile e cercarLo richiede una mente ed un cuore sempre pronti a lasciare, come Abramo, la terra delle proprie certezze. Giovanni
XXIII stilò il programma del credente che vuole conservare la freschezza della
sua voglia di Dio che è sempre antico e
sempre nuovo: “Io – scriveva il papa buono – sono disposto ad ogni
evenienza, e mi studio di fare giorno per giorno ciò che il Signore vuole da me
(…): facendo tutto ciò che posso, di ora in ora, con molta confidenza ed
abbandono, vedo che si può andare lontano e in benedizione”. Nello studio,
nella vita, andare lontano non basta;
occorre anche andare in benedizione;
aprire cammini è giusto, ma è fondamentale verificare se Dio li benedice. Lasciare
che la vita, lo studio, si rinnovino giorno per giorno avendo “confidenza ed
abbandono” in Dio rinnoverà lo spirito e proveremo entusiasmo verso tutto ciò
che faremo! Ireneo suggerisce che la forza della fede è ciò che davvero fa
nuovo il cuore dell’uomo giorno dopo giorno: “Questa fede che noi abbiamo
ricevuto dalla Chiesa, la conserviamo con cura perché senza posa, sotto
l’azione dello Spirito di Dio (…) ringiovanisce e fa ringiovanire il recipiente
che la contiene” (Contro le eresie,
3, 24, 1). Dobbiamo diventare il contenitore
mai consunto di Dio. San Bonaventura citava San Francesco d’Assisi’: tanto
valiamo, quanto siamo davanti a Dio.
Quanta
più cura metteremo nel custodire ciò che è eterno, meno soggetto al tempo renderemo il cuore. Ognuno di noi
deve diventare recipiente della fede,
il ricettacolo vivente dello Spirito di
Dio. Per dirla con Origene, impariamo soprattutto ad “aprire più spesso la
(…) bocca ‘in salmi e cantici spirituali’” ed a “pregare Dio” (Omelia sul salmo 36, 51). Questo
suggerimento è l’esercizio quotidiano
che garantisce quella giovinezza dell’anima che consente alle domande fondamentali di non estinguersi
mai. Se la nostra interiorità risulterà sempre più giovane e bella, ci
accorgeremo che vi si poserà ‘fisso’ lo sguardo
di Dio. È dentro di noi che
preferisce fermare il Suo occhio. Secondo Gregorio Magno – “se per un uomo è il
nostro viso fisico che ci fa conoscere, chi fa percepire il nostro essere,
rispetto a Dio, è la nostra immagine interiore”(Omelia su Giobbe, 16, 25). Lasciamo esplodere la nostra intelligenza verso la Trascendenza
senza remore e paure. Maritain insegna che è un sapere istintivo dell’intelligenza, qualcosa che nasce con noi, voler
entrare nel transintelligibile; solo
in esso “troverà il suo riposo” la nostra volontà di conoscere. “L’intelligenza
– concludeva - si trascina a carponi verso il divino”. L’augurio è di
assecondare sempre questo movimento in verticale!
Fare
teologia deve insegnarci a vedere l’uomo com’era
nelle intenzioni di Dio; e, riportando un insegnamento di San Francesco
d’Assisi, Bonaventura annotava che quel
che è l’uomo agli occhi di Dio, quello è, e niente più! Molto conta pure,
in verità, chi ci si sforza di diventare. Concordo con Isidoro di Siviglia:
“cristiani si diventa, non si nasce” (Ep
107, 1). Diventare cristiani è sviluppare consapevolmente l’impronta ontologica
di creature, crescere con una mentalità filiale. Fare la volontà del Padre è
realizzarsi davvero. Nel Sermone n. 2, il beato Enrico Susone dichiarava che
avrebbe preferito essere il più piccolo degli animali in terra con la volontà di Dio, piuttosto che un
‘serafino del cielo’ con la propria
volontà. Il dramma è volere di Gesù soltanto quanto in Lui ci piace. Volere
Cristo, invece, è aderirvi totalmente.
Santa Maria Maddalena de’ Pazzi disse che Gesù stesso le aveva rivelato che ci
sono persone che vogliono il Suo spirito, ma scelgono in piena autonomia il come e, così, perdono la capacità di riceverLo.
Paolo, nella Lettera agli Ebrei (12, 2), insegna che Gesù è archegòs (autore) e teleiotés (perfezionatore) della fede. Tutto da in e per Lui: ecco la
fede autentica del cristiano! Si rinuncia all’ego per il Dio che ha rinunciato alla propria Onnipotenza. Dio,
ricordava Giovanni Crisostomo, si è dato
tutto a te, senza riservare nulla per sé.
Fare
teologia è vivere fino in fondo il dono
di sé. Dio non è, agli occhi di chi possiede una robusta intelligenza
teologica, un blocco monolitico. Giovanni Paolo II, nel suo primo viaggio in
America Latina visitò il Messico e, a Puebla, nel 1979, disse: “La natura
intima di Dio non è solitudine, ma comunione, perché Dio è famiglia, è Padre,
Figlio e Spirito Santo”. Come la ragione deve
accogliere le provocazioni di tutti i saperi e di tutte le fedi per animare una
teologia sorretta da una fede inclusiva e
non esclusiva, così il nostro ethos cristiano deve essere cattolico nel senso di universale; e, la vera universalità,
consiste nel saper convivere – consapevoli della propria identità – con tutti i
particolarismi (etnici, culturali, religiosi, filosofici…). L’importante è che
il desiderio di fare comunione abbia
come Fondamento Dio e non motivazioni
emozionali o convenzionali. Florenskij, scienziato e sacerdote russo
perseguitato e morto in carcere, scrisse: “L’amore per l’altro è un riflesso su
di lui della conoscenza e la conoscenza è rivelazione della verità
triipostatica stessa al cuore, cioè l’inabitazione nell’anima dell’amore divino
per l’uomo”. La santità del teologo consiste nel testimoniare con la
Dottrina e,
soprattutto, con la vita, che ama l’altro perché pieno dell’amore dell’Altro. Essere santi, in
fondo, si dà senza sforzo solo in Dio, mentre per noi è uno stato da perseguire
volontariamente. Agostino, nei Discorsi,
lo conferma: “La santità può stare in Dio senza la tua volontà, ma senza la tua
volontà essa non può esistere in te”(169, 11, 13).
L’amore
cristiano non è questione di buon cuore, né di sentimentalismo. È quando si
riceve la vita soprannaturale – un dono – che si ha il vero amore, la carità. Il
pensiero non teologico, non metafisico legge entrambi come un fatto dialogico,
liberamente negoziato, non comandato. Per noi deve essere l’opposto.
L’autorevole insegnamento di Tommaso d’Aquino è il nostro faro: “L’amore non è
una forza dell’uomo in quanto uomo, ma in quanto, mediante la grazia, diviene
(…) figlio di Dio”(De car., 2, 15). Abbiamo
un luminoso esempio che mostra come fede,
amore, carità insegnino a vivere la
teologia in quanto percorso necessariamente ecclesiale. Pacomio viene considerato il padre del monachesimo cenobitico. Era figlio di pagani e, dunque,
aveva una formazione religiosa lontana dai principi e valori cristiani. Venne
arruolato per una guerra e, con altri giovani soldati egiziani come lui,
risaliva il corso del Nilo quando il barcone fece scalo a Sne. In questa città
furono tutti fatti prigionieri! Ogni giorno, un gruppo di persone, veniva –
senza ricevere nulla in cambio e senza vantare appartenenze religiose – a
visitarli, a consolarli. In una delle redazioni della vita di Pacomio si legge
che, oltre a portare loro il pane, i caritatevoli e misteriosi visitatori “li
sforzano a mangiare perché li vedono preda di un grande dolore”. Il cristiano
deve donare il pane ed anche la gioia di mangiarlo! Colpito da questi
atteggiamenti, il giovane chiese chi fossero. Nell’edizione greca della sua
biografia, si dà questa risposta: ‘Sono cristiani e sono misericordiosi verso
gli stranieri e tutti gli uomini’. Finì la guerra e lui andò a Seneset, villaggio
flagellato dal caldo; eppure, lì, coltivò la terra per trarne quanto bastava a
sfamare gli stranieri di passaggio. Volle restituire il bene ricevuto quando
era in carcere! Lo raggiunse il fratello Giovanni e, ricevuto il battesimo,
Pacomio fondò, con lui, una comunità il cui tratto distintivo consistette
proprio nel servire fraternamente il genere umano. Non era stata l’accademia, un
titolo in teologia a cambiare il cuore di quel giovane cresciuto ed educato in
ambiente pagano, ma la testimonianza di
cristiani veri. Col dono del pane e di parole di conforto, Pacomio ricevette il
seme della fede che germogliò nella
sua vita a beneficio di tanti. Dio lo aveva cercato e trovato attraverso la
carità dei Suoi testimoni. Non si tratta solo di cercare, ma soprattutto di farsi
cercare; non solo di studiare, ma
anche di osservare come si comportano
quelli che davvero hanno ricevuto il dono
della fede. Nei Discorsi di
Agostino, ciò viene ribadito: “Dio realizza le cose che sei stato tu a
promettere (…) quando prometti, se Dio non interviene a fare, la tua promessa è
a vuoto. Ma tu dici: Io ho creduto. Lo ammetto. Ma non sei tu a darti la fede
(…). In te la fede è dono di Dio”(168, 1, 1). Studiare per accrescere la fede?
Non si dimentichi, però, che la realizzazione dei nostri progetti sarà donata. Crederai
sempre con più forza? Ricavi frutto da un seme che non ti appartiene. Il
teologo deve ricordare a tutti che Dio è – contrariamente a quanto pensava
Aristotele – Amante e non solo Oggetto d’amore. Il dio aristotelico
attira, ma non si china verso le creature; il Dio ebraico cristiano, invece, ha
interesse all’uomo. Un pensatore contemporaneo, ebreo, ha intitolato un libro Dio alla ricerca dell’uomo per parlare del pathos
di Dio (Heschel). Massimo il Confessore, in Sui Nomi divini, spiega che possiamo dire che Dio è Amore in quanto ha messo fuori di sé tutto quanto era in Lui,
le ‘creature’. Se l’eros amante proviene
da Lui, non è sbagliato affermare che si ‘muove’; essendo, però, anche “il vero
oggetto dell’amore” consente a quanti guardano a Lui di muoversi e, questi,
“posseggono la potenza del desiderio secondo la propria natura”(IV, 4). Occorre
sentirsi attratti da Dio e sentire che Dio è attratto da noi. Non aveva torto lo Pseudo-Dionigi nel definire la
teologia divina pati, un sentire le cose divine.
Impariamo
a dare le ragioni della speranza che sono in noi in maniera
semplice, accessibile. Nietzsche, ne L’Anticristo,
ammetteva: “Confesso che di pochi libri mi è difficoltosa la lettura come dei
Vangeli”. Questo, credo, perché vi si accostava pieno di pregiudizi e senza
volontà di abbandonarsi alla Parola. Questo genere di lamentela, purtroppo,
sorge spesso anche sulle labbra di chi si professa credente e, diciamolo, molte
colpe hanno i teologi e quanti, con compiti e carismi diversi, dovrebbero
essere testimoni della fede. Se ci si assume il compito di parlare, di scrivere
di cose teologiche, si tenga in considerazione la capacità di comprendere i destinatari
dell’annuncio. Il consiglio è di pregare
quando si pensa e di fare del pensiero
un modo di pregare fino a che ciò diverrà spontaneo perché, diceva Sant’ Antonio
Eremita, non c’è preghiera perfetta se ci
si accorge di pregare. Chi prega si accorge di essere sotto lo sguardo di
Dio. Agostino insegna: orare est videre
videri, pregare è vedere di essere
visti!
Per comprendere la Parola non occorre avere
una laurea (…) sapere l’ebraico, l’aramaico (…): occorre avere un cuore puro.
Chi ha il cuore puro percepisce nella Parola la presenza di Cristo. E la
percepisce un ragazzino di 5 o 6 anni, come la percepisce un vecchio di 90
anni, un analfabeta o un professore: quello che conta è la purezza di cuore – Il monaco Bonifacio Baroffio)
Il
credente (Glaubende) – rilevava il
filosofo Jaspers – rischia di diventare un militante
(Glaubenskämpfen). Ebbe, a causa
di questa metamorfosi negativa, sempre difficoltà a colloquiare coi teologi.
C’è un passo in una opera di Jaspers, La
fede filosofica che, meditato, fa comprendere qual è l’errore da evitare
nel fare i conti con i filosofi coi quali immancabilmente ci si confronta nei
dibattiti teologici: “È una sofferenza
della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che
la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché
essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile (…) discorrono
amichevolmente senza aver realmente presente ciò che prima si era detto, e alla
fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte,
infatti, si sentono (…) terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altro pare
loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un
vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che
si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione
fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta ad
oggetti ed appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non
solo esteriormente e a parola, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel
possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro,
perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio contenuto di
fede”. Per non correre il rischio di meritare il rimprovero di Jaspers, ci si
tenga ancorati saldamente alla Parola che, mai esaurientemente lumeggiata,
impedisce di considerare il proprio
contenuto di fede un possesso sicuro.
La modestia nel fare teologia viene – per riprendere Isidoro di Siviglia –
esercitandosi nel leggere e nel pregare. Nel primo caso, spiegava, parliamo con Dio; nel secondo, Dio parla con noi (Sentenze 3, 8, 2). Isidoro aggiungeva che si legge per conoscere ciò che
non sappiamo e si medita (prega) per conservare
quanto appreso (3, 8, 3). Origene consigliava, a chi ha il desiderio di
conoscere qualcosa dei segreti divini, di mettersi alla
ricerca con fedeltà ed umiltà. Solo così potremo afferrare
qualche scampolo di quanto “piuttosto velatamente” è contenuto nella Bibbia. La
ricerca, in più, va affrontata divenendo uomini di desideri, non di contestazioni.
La polemica gratuita, premeditata non è buona guida in teologia. La docilità di
fronte alla Parola allena alla comprensione che dovremo mostrare di
fronte a filosofi come Jaspers che non consentono scappatoie quando pongono
domande provocatorie circa il contenuto di fede che professiamo. La lontananza
dagli altri, da chi stenta a credere, sarà letale solo se non ci si chiede –
come faceva l’esegeta Alonso Shökel – quanto tempo si dedica, nella scienza
biblica, ad una esegesi filologica e
quanto ad una esegesi di attualizzazione;
a rendere, cioè, gesto concreto
quanto insegnato dalle Scritture! Gli uomini, sottolineava Shökel, chiedono il
pane e l’esegeta si limita a commentare un versetto del capitolo del Vangelo di
Giovanni sulla ‘moltiplicazione dei pani’; se ci chiedono di Dio, proponiamo teorie
sul genere letterario di un salmo; se qualcuno denuncia il suo bisogno di
giustizia, finiamo col proporre un’analisi etimologica di sedaqah (giustizia in
ebraico). La Bibbia ,
in realtà, rispecchia fedelmente la condizione esistenziale, interiore ed
esteriore, dell’uomo. Anche noi dobbiamo, leggendo, assumere gli atteggiamenti umani, troppo umani che essa mostra
attraverso i suoi protagonisti. Agostino dice che se il testo che abbiamo
davanti è preghiera, occorre pregare; se gemito ci tocca gemere;
se viene espressa riconoscenza,
occorre gioire; se comunica speranza, dobbiamo sperare e se, al contrario, parla di timore, allora, temiamo: “le
cose che sentite nel testo biblico sono lo specchio di voi stessi”. Se impariamo l’umanità alla scuola della Bibbia, sapremo mostrare la
nostra umanità a quanti hanno bisogno
di comprendere le ragioni della
nostra speranza.
Vorrei
rubricare una riflessione di Teresa di Gesù Bambino che, pur essendo una santa
di grande spessore intellettuale, reclamava semplicità, che non è superficialità, nel trattare le cose dello spirito: “Qualche volta,
quando leggo certi trattati spirituali il mio povero piccolo spirito non tarda
a stancarsi. Chiudo il libro dei sapienti che manda in pezzi la mia testa e
dissecca il mio cuore, e prendo in mano la Sacra Scrittura. Allora tutto
mi diventa luminoso, una sola parola dischiude all’anima mia orizzonti infiniti
e la perfezione mi sembra facile”. Che le nostre parole, gli scritti dei
teologi siano pieni della freschezza della Parola
e mai esercizio superbo e raggelante di parole.
Una nuova cristianità (Mounier) sta
tentando di nascere per accompagnare l’uomo verso un futuro sempre più esposto
a sfide fino ad oggi impensabili (nella bioetica, nell’ecologia, nella
politica…). Dunque, immensa è la responsabilità del cristiano di fronte al futuro.
Diciamolo con le parole che Christopher Dawson ha scolpito nel suo Religione e cristianesimo nella storia della
civiltà: “Tutto dipende dal fatto se i cristiani della nuova età saranno
all’altezza della loro missione; se essi saranno capaci di comunicare la loro
speranza a un mondo in cui l’uomo si trova solo e disperato di fronte alle
forze mostruose che sono state create dall’uomo per servire ai suoi fini, ma
che adesso sono sfuggite al suo controllo e minacciano di distruggerlo”.
Fare
teologia è rispondere alla domanda che Paolo pone nella 1 Cor 4, 7: “che
cos’hai tu che non l’abbia ricevuta?”. Il teologo nulla possiede che non sia
dono della Rivelazione. Si tratta,
tuttavia, di un ricevere creativo,
dello sforzo di pensare, profondamente inseriti nel ‘proprio tempo’, il depositum fidei. Non una revisione
arbitraria di esso, ma una rielaborazione al tempo stesso fedele e creativa. Von
Balthasar non si discostava da questa lezione quando scriveva: “La parola e i
sacramenti sono da noi ricevuti: non
siamo in grado di mutarli, accrescerli o diminuirli”. Ad ogni modo, occorre lo
sforzo costante di rendere entrambi intelligibili agli uomini del proprio
tempo. Cristo non è stato inviato soltanto per gli uomini di Israele, Suoi
contemporanei, ma Lo è ogni volta che, ciascuno di noi, comprende, secondo le
proprie capacità, la portata della Incarnazione. Tommaso, nella Summa, a tal proposito, cita un passo di
Agostino tratto dal IV libro del De
Trinitate; secondo il vescovo di Ippona, il Figlio è inviato “quando da qualcuno viene a essere conosciuto e percepito
secondo la capacità dell’anima che progredisce o che ha raggiunto la perfezione
in Dio”. Ragionare intorno al Logos sarx
– va detto – non è lo stesso che affaticarsi attorno ai logoi della filosofia. L’oggetto della filosofia è qualcosa (enti,
essere…), quello della teologia, Qualcuno. Proprio Agostino, nel libro IX
del citato De Trinitate, insegnava:
“Il Verbo di cui ragioniamo è una cognizione piena d’amore”. Il filosofo è
preso dall’amore per la sapienza, il
teologo è afferrato dalla Sapienza
amante perché Persona. Nel fare
teologia si deve accendere la piena percezione di Cristo e, come insegna
Tommaso nella Summa, percepirLo,
cogliere la Sua
missione “indica una conoscenza sperimentale, la quale è chiamata propriamente sapienza, vale a dire, conoscenza saporosa”. La conoscenza
teologica deve avere sapore, dare il senso
di Cristo. Un gusto che non scade mai in degustazione privata della Parola,
ma è sempre chiamata a condividerLa. L’alterità
resta una categoria imprescindibile in atmosfera teologica. Il poeta tedesco
Hölderlin, ne ‘I Titani’, scrisse: keiner
trägt das Leben allein, nessuno
porta la vita da solo; in ‘Patmos’, scendendo su terreno decisamente
teologico, sentenziava: keiner aber
fasset allein Gott, ma nessuno
comprende da solo Dio.
Quando
vogliamo rintracciare il banco di prova per stabilire se l’ufficio di teologo corre verso il proprio
fine autentico, verso la piena realizzazione, tornano utili le parole che
Bernardo di Chiaravalle rubricò nei Sermoni
sul Cantico dei Cantici. A suo dire, se in quanto si scrive non vi si legge
Gesù, non vi è sapore (“non mi sa di niente”). Il Verbo era, per lui, miele nella bocca e melodia nelle orecchie. Una teologia che non metta Cristo al centro
sa di niente. Non si tratta, sia chiaro, di trovare un fondamento logico ma, soprattutto, un referente affettivo. Il teologo deve dialogare, inaugurando un vivo
rapporto interpersonale, con il Fondamento
- Logos. In gioco, più che lo sforzo intellettuale, vi è l’affettività. Credo che, per questo
motivo, Bernardo non esitava a dichiarare che instructio doctos reddit, affectio
sapientes – l’istruzione rende dotti,
l’affetto sapienti. Il sapore del
senso viene non dall’instructio, ma
dall’affectio. Ancorarsi al Cristo
significa avere la possibilità di fare teologia attenti alle istanze del
proprio tempo e proporre un messaggio che non si assoggetta alla contingenza.
Paolo, nella Lettera agli Ebrei (13, 8), infatti, ci ricorda che Gesù è echthès (ieri), kai sémeron (oggi), eis toùs aiônas (per tutti i
secoli). Come disse Pascal, per sottolineare la portata universale della
figura del Figlio, Mosé è per un popolo e Cristo per tutti! O,
per dirla con Tertulliano, Cristo è ‘sempre attuale’ perché è antico nelle cose nuove e nuovo nelle cose
antiche. Da Lui, dunque, se vogliamo davvero crescere nella fede, occorre
essere presi per riconoscerlo come Fondamento
dei nostri ragionamenti teologici. Ancora Paolo, scrivendo ai Filippesi (3,
12), usa il verbo greco katelémphthen
che viene da katalambáno, essere presi dal basso verso l’alto.
Cristo ci afferra ed attira a sé per essere, come si legge negli Atti degli
Apostoli, choregós, guida. Il teologo, a mio avviso, non
deve mai smettere di considerarsi un apprendista nelle cose della fede. Mi ha
impressionato, in tal senso, quando scrisse in una lettera dal carcere del 21
luglio 1944, il teologo luterano impiccato dai nazisti, Dietrich Bonhoeffer.
Confessava ad un amico che, un giorno, aveva espresso in questi termini il suo
più grande desiderio: Io vorrei imparare
a credere. Si è sempre all’inizio nelle cose della fede perché il credente
non si libererà mai del tutto dell’ateo che è in lui. Quello che conta,
tuttavia, è non perdere mai di vista il fine
della ricerca. Come scrisse Tommaso, semper
inchoatio alicuius ordinatum ad consum mationem ipsium, l’inizio di una cosa è sempre ordinato alla
sua perfezione. In questo percorso è sempre Cristo il choregós, la ‘guida’.
Gregorio
di Nazianzo elaborò una ‘metodologia teologica’ ed è utile ancora ripercorrere
la sua opera Cinque discorsi teologici
nella quale sostenne che ci vengono donate soltanto illuminazioni parziali ed invitava, perciò, ad osservare l’ordine
della teologia: non manifestare, cioè, di colpo la verità, né occultarla sino
alla fine; nel primo caso, spiegava, mostriamo la nostra incapacità mentre, nel
secondo, la nostra empietà. Nel primo caso, infine, si danneggia chi non crede
e, nel secondo, quelli che credono. In alcuni Padri c’era già la giusta
valorizzazione della filosofia, della cultura…assai prima che Giovanni Paolo II
aprisse nuovamente il dibattito su fides e
ratio con la Sua nota e discussa enciclica.
Clemente Alessandrino, infatti, nel Protreptico,
disse che soprattutto negli uomini che impiegano molto del loro tempo a
‘ragionare’ è stata “instillata una emanazione divina”. Il teologo, ad ogni
modo, deve previamente ammettere ‘tutte le vie’ per poter arrivare a Dio;
nessuna preclusione pregiudiziale ha senso! Per quanto mi riguarda, ho eletto a
mio principio guida quanto Agostino rubricava nei Soliloquia: “Se è la fede che ti rivela a chi a te ricorre,
concedimi la fede; se è la virtù, concedimi la virtù; se è la conoscenza,
donamela”. La vita cristiana, da qualsiasi lato si cominci a svilupparla, resta
una realtà agonica, rappresenta
l’apertura di un campo di lotta, di lavoro. Il vescovo martire Cipriano,
infatti, invitava i cristiani a gareggiare.
Tutti, diceva, devono meritare corone:
bianche (“per le buone opere”) o rosse (per le sofferenze). Concludeva:
“Nel campo di Dio, lotta e pace hanno ciascuna i loro fiori, e il soldato di
Cristo può farne corone di gloria”. Una lotta non da disperati, ma da uomini
certi di una speranza che non delude perché ancorata al compimento della
vicenda di Gesù che riscatta dal limite ultimo, la morte. Sempre Cipriano,
infatti, lanciava una provocazione che il teologo deve incessantemente
richiamare alla memoria di quanti, con troppa leggerezza, si professano
cristiani, pur imbevendo di un inspiegabile pessimismo la propria esistenza:
“Perché chiamare cristiano chi non ha alcuna fiducia in Cristo?”.
Fidarsi di Cristo è la ‘radice’ di ogni discorso credibile in termini
di adesione al cristianesimo. Centrati
in Cristo, poi, ci si può decentrare nel mondo senza perdersi in esso, ma per super-centrarlo in Dio. Si tratta di comprendere che
Cristo, per riprendere una bella espressione del teologo svizzero Leonhard
Ragaz, va servito all’aria aperta.
Comunicare Dio, allora, quando ci si mette sul serio davanti alle durezze
dell’esistenza, diviene la testimonianza
di una relazione e non più l’annuncio
di una teoria. In un articolo dal titolo ‘Che cos’è la verità?’, il
filosofo Gadamer scrisse che, quando ci si dibatte tra problemi veri,
esistenziali (finitezza, storicità, colpa, morte…), quando si è, insomma,
davanti a situazioni-limite, “la
comunicazione non è più trasmissione di conoscenze per mezzo di dimostrazioni
conclusive, ma una sorta di rapporto diretto tra un’esistenza e l’altra”. Il
teologo che vive le lacerazioni esistenziali senza il paravento di
pseudo-certezze religiose, comunica Dio agli uomini mostrando il rapporto diretto che costruisce
faticosamente tra la sua esistenza e quella di Dio.
Il
teologo deve insistere senza pause nel ricordare gli insegnamenti cristiani,
soprattutto in un mondo che si ostina a presentarsi fortemente scristianizzato. Rifacciamoci, per
rafforzare l’argomento, ad un antico testo cristiano, Il Pastore di Erma che, secondo alcune fonti, è costituito da
scritti nati in tempi diversi tra il 100 ed il 150 e che, per un certo periodo,
venne addirittura considerato appartenente alle Scritture. Contiene delle
rivelazioni fatte ad Erma da parte di due esseri celesti, a Roma: una donna
anziana (simboleggia la Chiesa )
ed un angelo che ha assunto le sembianze di un pastore. L’anziana dice ad Erma
qualcosa che può valere come un consiglio sempre attuale da offrire al teologo:
“Come il fabbro che a colpi di martello piega il ferro che lavora alla sua
volontà, così anche un discorso giusto, ripetuto ogni giorno, viene a capo di
ogni malvagità”. Contro le malvagità ordite senza requie a danno della proposta
cristiana, il teologo non deve fare altro che assumere i panni del fabbro:
forgiare, ogni giorno, discorsi giusti. Non che il ricorso a
mezzi come l’argomentazione razionale, il riferimento alle scienze siano
inutili o, peggio, dannosi; piuttosto, si tratta – pur utilizzando gli
strumenti dei saperi oggettivi – di far risaltare che, in fatto di fede,
contano le verità che si sono tradotte in vita. La Bibbia non presenta concetti teologici, ma figure e storie
che li propongono in maniera narrativa.
Quando, in Dialogo con Trifone,
Giustino Martire si confronta – da filosofo – con un vecchio cristiano, si
sente dire che a Platone e Pitagora sono da preferire i Profeti in quanto i loro discorsi
non hanno la forma della dimostrazione;
piuttosto, sono logoi di quanti sono
stati testimoni fedeli della verità.
In teologia si può essere professori finché si vuole, ma nella fede ebraico –
cristiana, sono i testimoni a
contare davvero. Quanti annunciano i principi della fede cristiana possono far
leva su un dato di fatto evidenziato magistralmente dal filosofo Claude
Tresmontant in un saggio del 1977, La
mistica e il futuro dell’uomo. Nel testo viene detto a chiare lettere che
l’uomo è un animale che non si appaga di una ‘finalità naturale’; non è fatto
per questo, bensì, conclude il pensatore francese, può solo ‘accontentarsi’
dell’Assoluto vivente e personale.
Non l’assoluto filosoficamente inteso, ma quello che si fa Persona e che
accende con noi una relazione reale.
Ci si può riallacciare, a tal proposito, ad Heidegger. A suo dire, il gott – lose – Denken (pensare fuori di
Dio) è il necessario abbandono del ‘Dio dei filosofi’, la ‘Causa Sui’ e ciò
porta più vicino al ‘Dio divino’ (göttlichen
– Gott) perché l’uomo, davanti alla ‘Causa Sui’, non si inginocchia, non
conosce tremore, né fa musica, non canta né danza. Una teologia che disconoscesse,
per partito preso, il valore affettività si
condannerebbe ad essere arida e lontana dagli uomini che non coltivano,
assiduamente, le fatiche del pensare. Non è una posizione polemicamente
antiaccademica perché, nel 2000, il teologo Pier Angelo Sequeri, in L’estro di Dio, annotò: “Il problema
della ‘verità’ degli affetti è un problema squisitamente religioso: ma la
teologia non se ne occupa (più) come tema che attiene alla costituzione
originaria della coscienza credente”. Non è solo nella ricerca teologica
condotta concettualmente che si trovano occasioni forti per incontrare Dio, ma
anche in atteggiamenti mistici, intrisi di affettività.
Se
per Bernard Welte Dio resta aldilà del
concetto, per Pareyson Dio preferisce manifestarsi nascondendosi in fondo a
ciò che l’uomo non giunge a comprendere e
a padroneggiare completamente. Dio, il teologo non disdegni questa lezione,
si manifesta anche nel mistico (cosa
che non sempre le gerarchie ecclesiastiche hanno accettato di buon grado). Il
filosofo finanche che non disprezza l’esperienza
mistica, ammetteva Bergson, giungerà alla conclusione che la creazione
appare come un’ impresa di Dio per creare
creatori, per aggiungere a se stessi
esseri degni d’amore. Monsignor Magrassi sosteneva che finanche l’esegesi è una mistica e meno una prassi.
Il rapporto con la Parola
è coinvolgente in due direzioni: “Applicati tutto al testo: tutto il testo
applicalo a te!”(A. Bengel). All’uomo non basta una finalità naturale, ma
nemmeno il rapportarsi intellettualmente all’Assoluto; anzi, non lo desidera se
non vivente e personale. Il teologo
deve insegnare ad ogni credente, nel mentre lo sperimenta ogni giorno, a dire
con Sant’Ignazio Martire: mi sono
rifugiato nel Vangelo come nella carne di Gesù.
La
concretezza del Dio cristiano impone, potrei dire, una teologia radicata nel
concreto; il che, va precisato, non vuol significare che essa debba essere
prona di fronte ai dettami del contingente. Barth sosteneva che era
improponibile affrontare il lavoro teologico ‘per se stesso’, come si usa
coltivare l’arte per amore dell’arte. Senso, orizzonte e télos dell’ufficio teologico si danno solo, a suo dire, come servizio di Dio e servizio dell’uomo. Il teologo protestante invitava ad evitare ad
ogni costo una “gnosi librata per aria, che propriamente serve soltanto al
piacere intellettuale o estetico del teologo”. Radicarsi nelle cose del mondo,
ribadendo che ciò non è ossequio sconsiderato al contingente, rimane un punto
imprescindibile per chi si occupa delle cose della fede. Il teologo è veramente
tale – per von Balthasar – se è anche filosofo
e si è immerso nelle misteriose strutture
dell’essere creato. Rimane fermo che bisogna soprattutto guardarsi dal non assumere
il ruolo di forgiatori di parole ed espressioni lontane da quella realtà viva che
è la storia ebraico - cristiana che si snoda in un difficile ma appassionato dialogo tra Dio e l’uomo.
W.
James, a tal proposito, lamentava che attributi metafisici della divinità, cari
a certi teologi, hanno portato ad una involuzione del loro lavoro: il verbalismo, infatti, ha preso il posto
della visione ed il professionismo ha soppiantato la vita. Il teologo deve mostrare, con
tutto se stesso, quanto incidano realmente nella vita i principi cristiani. La
lezione è antica e risale a Sant’Ambrogio che non esitava a ricordare che i
“principi della fede devono essere trasformati in valori per l’uomo, devono
risultare visibili e appetibili per gli altri”. D’altro canto, a differenza del
‘Dio dei filosofi’, quello in cui diciamo di credere è un Dio col Quale si
entra in ‘dialogo’. A differenza del monologo
filosofico, dove l’io e l’altro sono finzioni poste dal soggetto, il dialogo della fede presuppone l’Altro in quanto imprevedibile: può
spiazzarci con le Sue risposte o può addirittura non manifestarsi. Il credere
deve fondarsi proprio su questa libertà rischiosa che si apre nella vita
autentica di fede. Il filosofo ebreo Martin Buber ha ben espresso questo punto
fermo: Se Dio fosse solo oggetto di un
discorso, un Dio di cui si parla, non crederei. Ma il mio Dio è un Dio con cui
posso parlare. Perciò credo.
Quando
si presenta il Dio ebraico-cristiano con categorie inadatte, si genera
nell’uomo assetato di senso una disperazione inguaribile. Sopra ricordavamo
l’espressione di Tresmontant: un Assoluto
vivente e personale. Chi si agita la cercando e desiderando un Infinito senza volto, impersonale, si
blocca in amletismi privi di centro e direzione. Il pensiero vaga in pena senza
un télos che ne giustifichi le
fatiche. Il caso del commediografo Ionesco è emblematico. Aveva sessantasei
anni e, nell’appartamento di Parigi, a Montparnasse, tentava di chiudere il suo
diario. Confessava, ormai, di essere preda di una invincibile nausea, di essere
vittima di un forte esaurimento nervoso perché non riusciva a capire la parola inesauribile. Si definiva l’Uomo teso
nello sforzo di capire l’Infinito; anzi, precisava, era uno desideroso di
Qualcuno che gli spiegasse l’Infinito. Era in trappola perché aveva subordinato
la realizzazione della sua intelligenza al rapporto con un Infinito senza
volto, incapace di parlare la lingua dell’uomo. Dopo alcune frasi degne di un
febbricitante, si definiva un ‘incorreggibile’ perché – scriveva esprimendosi
in terza persona – ostinato a voler ricuperare
l’irrecuperabile, a voler definire
l’indefinibile, a dire l’indicibile,
ad udire l’inaudito.
Le
ultime righe del diario oscillano in una tensione dialettica, più esistenziale che teoretica, tra sconforto
ed attesa fiduciosa: “Pregare: il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo”.
Quando il Non So Chi appare più reale
di Gesù Cristo, che genere di
speranza resta a chi invoca il Senso?
Il positivo nell’esperienza di Ionesco è la determinazione con la quale vuole
recarsi oltre la propria finitezza; il negativo sta nel porre tutto entro le categorie
dello ‘spiegare, capire’ aggirando quelle del ‘dono’ e della ‘rivelazione’. Il
fatto è che il commediografo aveva subordinato il riflettere intellettuale alla capacità
ricettiva; il capire al fidarsi. Un
esponente della Scuola di Francoforte, critico verso le pretese esagerate della
ragione, Horkheimer, ammoniva: “se viene soppressa la dimensione teologica,
scomparirà dal mondo ciò che chiamiamo senso; magari regnerà una operosità
maggiore, ma senza un vero significato, e quindi condannata alla noia”. Ionesco
era, nell’ultima pagina del diario, in preda ad una operosità intellettuale enorme, ma non la faceva esplodere verso la
dimensione teologica e, dunque, non
riusciva a dare ad essa un senso, un vero significato. Di queste disperate
ricerche, talvolta, responsabili sono proprio i teologi che indicano vie, ma non la Via
Agostino, a quanti cercano la ‘via’, ricorda innanzitutto che Cristo è ‘la Via ’: “Prima di dirti dove
devi andare, scriveva, ha premesso per dove devi passare (…). La via per andare
dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica la via da prendere, poi il
termine dove vuoi arrivare”. Se dobbiamo, perciò, rintracciare il metodo della teologia e se ‘metodo’
viene da meta – odos, attraversare una via, se ne ricava che Cristo è il Metodo – cioè la Via da attraversare – della teologia.
Cristo è la Via
da prendere e solo su di essa si può essere certi di muovere verso il termine dove vuoi arrivare. Nel caso
in cui non fosse questo il nostro modo di procedere finiremo – nauseati come
Ionesco – nell’abbraccio mortifero con il Non
So Chi.
Abbiamo
sperimentato che Horkheimer aveva ragione: decapitare quanto facciamo della
‘dimensione teologica’ fa sfociare in un bruciante non senso. Igino Giordani,
scrittore ed uomo politico del Ventesimo secolo, colse i segni del disfacimento
del mondo moderno nel rifiuto della trascendenza
in favore della discendenza nel subumano. Il corpo sociale, argomentava,
deperisce intellettualmente anche “per penuria di teologia” che, a sua
volta, sta separata dalla cultura: “Non
si concepisce un Dante, un Newton senza nozioni teologiche”. Il nostro patrimonio culturale (umanistico e
scientifico) si rivela incomprensibile se non salva i vitali contatti con i propri
costitutivi referenti teologici.
Giordani riteneva urgente proporre un cristianesimo
integrale che unisse ‘fede ed opere’, ‘dogma ed azione’, ‘giustizia ed
amore’. Se il corpo sociale va integrato col corpo mistico, quest’ultimo deve espandersi nel corpo sociale. La ‘convivenza nel
tempo’, frutto della coscienza sociale, deve essere il “prodotto della
convivenza del soprannaturale”. Si tratta, per Giordani, di portare nell’amore ai fratelli l’amore di Dio.
Il cristianesimo, precisava, deve risultare incarnato
nel cristiano. Il teologo deve fare propria questa lezione e non proporre,
come dicevamo con Barth, una ‘gnosi librata per aria’. Un compito particolare
Giordani affidava ai ‘laici’: cristianizzare i luoghi concreti della vita
quotidiana e fare evangelizzazione muovendo dagli
avamposti dell’incredulità. Proporre la fede non malgrado ambiti scristianizzati, ma muovendo proprio da essi! Siamo noi tutti la Chiesa e non dobbiamo
limitarci, diceva il nostro autore, ad essere gli inquilini, bensì i costruttori
e gli amministratori della città di Dio. La Chiesa , a detta dello
scrittore e politico italiano, “è per l’uomo, e lo segue in tutte le sue
evoluzioni, la Chiesa
è sempre contemporanea all’uomo” e la verità
cattolica “si traduce nel vocabolario del suo tempo, parla greco col
Crisostomo, latino con Agostino, inglese con Newmann, e usa il giornale e la
radio, la posta e il telegrafo”. Radicare il teologico nel mondano: non
assoggettarvelo, ma tradurlo in linguaggio accessibile a chi ascolta. Il greco
del Crisostomo, il latino di Agostino sono traduzioni
che non tradiscono la fede, ma la
incarnano nell’uomo concreto che ricerca Dio. Salvaguardare il patrimonio
religioso/ teologico non è accanimento fazioso per tutelare gli interessi di
una chiesa, di un gruppo di credenti, ma erigere baluardi a difesa dell’umano.
I teologi e quanti si occupano di questioni religiose, tengano a cuore quanto Giordani
scrisse nel 1949: “La difesa della religione non è difesa di Dio, che non ha
bisogno del patrocinio nostro, ma è difesa dell’uomo che ha bisogno del
patrocinio di Dio”.
Sergio
Quinzio diceva che il mito è protologico (guarda al passato), mentre
la fede è escatologica (guarda al futuro). Il teologo ripercorra i miti dell’origine narrati nella Bibbia con
intento escatologico. La creazione
come è nella mente di Dio: ecco il fine della
Storia. Nel fare teologia occorre tenere ben presente la lezione del
fenomenologo Enzo Paci. La storia non è la metodologia utile a scriverla: “La
concretezza del processo della vita è ciò che è veramente storico. La Lebenswelt è Lebensvorgehen
[vita che procede] di cui il senso è dato dalla temporalità nella misura in
cui la temporalità può realizzare un télos.
E poiché la temporalità è consumo e morte, la vita ha un senso se riesce a
trasformare la morte in vita”. Se studiamo come la storia viene raccontata
dalla Bibbia, ci accorgiamo che non si fa ricorso ad una metodologia
accreditata accademicamente. La storia è narrata
come concreto processo di vita di
figure e popoli. Il ‘mondo della vita’ (Lebenswelt)
occupa il posto centrale nell’impianto biblico: la Rivelazione avviene per
tappe, per episodi chiave, attraverso vicende personali. Vi è senso perché il tempo biblico corre
verso un télos e ad alla temporalità
intesa come ‘consumo e morte’ oppone una temporalità che trasforma la morte in vita. Scrive Haag: “tutta la Bibbia ha il suo centro
nella vita” che è Dio e vuole l’uomo partecipe della Sua vita. I temi biblici,
conclude Haag, si possono coordinare ad una teologia
della vita intesa come vita “da Dio e davanti a Dio, per Dio e con Dio”. È la
vita “l’unico tema di tutta la Bibbia ”. Potrebbe mai,
perciò, essere la teologia ricamata sulle nuvole? Bonhoeffer, nell’autunno del
1933, agli studenti della facoltà teologica protestante di Berlino disse che la
teologia non va studiata come una qualsiasi altra materia per prepararsi ad una
professione; piuttosto, è indicata per
quelli che sono attratti dalla parola di Dio.
Lutero, sebbene nel suo Grande catechismo del 1529 si fermasse
all’approfondimento di contenuti tradizionali (Comandamenti, Credo, Padre
Nostro, sacramenti), intese vivificare il tutto attraverso una lettura
personale. Durante un pranzo, si era nel 1531, sentenziò: Sola experientia facit theologum. L’esperienza sola fa il teologo. Si tratta dell’esperienza della
lotta al peccato, alle tentazioni. La temporalità vissuta e sperimentata
teologicamente diviene sempre l’appropriazione personale del tempo: in esso la
vita procede assumendo problemi concreti, non ricamando astrazioni. Potremmo
anche dire, riprendendo Moltmann, che fare teologia significa essere sempre
disposti a passare dall’interrogare
all’essere interrogati; dall’esigere una risposta al dare una risposta.
Dentro
di noi c’è una impronta divina. Come asseriva Boezio, omnis vera imago rei, cuius imago est similitudine tenet, ogni immagine conserva la somiglianza di
ciò di cui è immagine. La teologia deve mantenere viva tale consapevolezza,
impedendo che diventi vaga nostalgia di qualcosa che abbiamo perso, ma che non
sappiamo più individuare. L’uomo è ‘immagine di Dio’ e non può non conservare,
lo voglia o no, la somiglianza col Creatore. Cristo è la memoria vivente di ciò
che siamo. Come disse Tommaso, con l’Incarnazione initiavit nobis viam novam. Una via nuova nel senso che siamo
chiamati ad una maggiore consapevolezza di ciò che ci costituisce. Eleggere a
nostra guida l’antropologia cristologica
significa divenire consapevoli di quanto enunciava Agostino: “Dio vuol farti
Dio non per natura (…), ma per dono e adozione”. Dio si riconosce, attraverso
Cristo, nell’uomo! Il vescovo di Ippona, aggiungeva: “E se vuoi trovare un
luogo alto (…), santo, offriti a Dio come tempio nel tuo intimo”. L’uomo è un
tempio nel quale Dio si è reso presente con l’Incarnazione. Avviene, così, per
dirla col poeta indiano Tagore, che la nostra vita consiste nello stendere in terra il tappeto, poiché il
Signore del futuro possa entrare e sedersi. La relazione ontologica (Dio in
noi) deve svilupparsi, però, nell’esercizio
dell’amore perché, dice San Giovanni della Croce, è l’amore a rendere
simili l’amante e l’amato. L’ontologica
somiglianza tra Creatore e creatura si realizza pienamente nella fenomenologia dell’amore, nell’agire con
amore verso Dio e verso gli altri. Il teologo che non ama non merita attenzione:
dimentica l’insegnamento di Agostino: Ambula
per hominem et invenies Deum, attraverso
l’uomo trovi Dio. Per Tommaso d’Aquino, il
movimento della fede non è perfetto se non è permeato dalla carità.
Significativa
l’esperienza di San Pacomio. Un giorno, andò a mietere assieme ad un suo frate.
Durante la notte, pur avendo avuto una giornata piena e dedita al servizio, si
pose in disparte, desolato ed affranto, non conoscendo ancora la volontà di
Dio. Gli apparve un personaggio luminoso che gli rivelò: La volontà di Dio è che tu sia il servo degli uomini per riconciliarli
con Lui. Una rivelazione che si addice perfettamente a chi esercita
l’ufficio teologico. L’amore è rivelativo,
conoscenza. Recita un insegnamento medievale: amor ipse intellectus est, la
carità è gia conoscenza, verità.
Agostino diceva che colui che possiede l’amore nel suo modo d’agire, possiede
ciò che è latente e ciò che è palese nelle parole divine. Dio non è apatico, ma ininterrottamente ed
inesauribilmente amante e, dunque, essere Sua immagine conduce a non chiuderci
agli altri. Von Balthasar disse che il Padre non è realtà riposante e concepibile in sé,
bensì costante donarsi, simile a “sorgente zampillante senza bacino dietro di
sé cui attingere”. Essere cristiani è imitare
Dio in questo! Dobbiamo essere, nell’intimo, pronti ad offrirci a Dio come tempio e, ribadiva San Leone Magno, se siamo
‘tempio di Dio’ “e lo Spirito Santo abita in noi, quello che ciascun fedele
porta nella sua anima ha più valore di ciò che si ammira in cielo”.
Se
il teologo deve ‘difendere’ la fede cristiana, va chiarito cosa si intenda per ‘difesa’.
Spesso ha significato l’arroccarsi su posizioni elitarie e negatrici di ogni
apertura e dialogo. L’abbé Huvelin diceva che, al suo tempo, l’apologetica ordinaria valeva poco perché
falsa, pur se, per certi versi, ingegnosa; sviluppava, per lo più,
argomentazioni simili a figure
geometriche di grande regolarità, ma prive di realtà. Oggi si parla di teologia
fondamentale e ci si ispira al dettato del Vaticano II: recta ratio fidei fundamenta demonstrat,
la retta ragione dimostra i fondamenti
della fede. La ragione può essere utile finanche a mostrare la propria
inutilità di fronte a certe problematiche di fede.
Anselmo,
nel Monologion, diceva, riguardo alle
verità di fede, che si tratta di rationabiliter
comprehendit incomprehensibile esse, comprendere
razionalmente che è incomprensibile. Io credo che occorra rimanere creativamente fedeli alla Tradizione.
Pio XII, nell’enciclica Humani generis,
esortò i teologi a tornare sempre alle
fonti della divina rivelazione; le ‘sacre discipline’, imbevute delle
‘sacre fonti’, mai invecchiano. Si mostri come la fede veniva vissuta dai primi
cristiani, piuttosto che argomentarne razionalmente. Il santo della Chiesa
Ortodossa Gregorio Palamas disse che è la ‘fede’ e non la ‘dimostrazione’ ad
essere a capo della religione cristiana.
La Chiesa , per
Ireneo di Lione, il messaggio della fede
lo deve, benché sparsa e diffusa su tutta la terra, conservare fedelmente “come se abitasse una sola casa”; deve credere in esso concordemente “come se
avesse un solo cuore”; deve insegnarlo
con armonia perfetta “come se avesse una sola lingua”. Un detto teologico: In dubio, pro
Traditione, nel dubbio si segua la Tradizione. Radicati in essa si può essere creativi senza paura di
mostrarsi dannosamente infedeli al depositum
fidei. Rinnovare senza sovvertire radicalmente i principi della fede. Non è
una lezione mia: Cipriano diceva che nihil
innovetur nisi quod traditum est, nulla si rinnovi se non secondo
tradizione.
Lasciando
‘parlare la Parola ’
si ottiene un effetto benefico. Agostino: Verbo
crescente, verba deficiunt, il Verbo
cresce, le parole decrescono. Il teologo per eccellenza è Cristo; Lui
l’ermeneuta sommo, come insegna l’episodio di Emmaus. La Croce è la sola Cattedra di
teologia: eam quae in ligno facta fuerat
inobaudientiam per eam quae in ligno fuerat obaudientiam sanans, Cristo sanò con l’obbedienza esercitata sul
legno della Croce la disobbedienza perpetrata con il legno dell’albero della
conoscenza (Ireneo). Ci perdemmo appendendo ogni aspettativa ed ambizione
all’albero della conoscenza e Cristo
salva lasciandosi appendere all’albero
dell’obbedienza. Lutero parlava di Cathedra
Crucis, di Cattedra della Croce
aggiungendo che in Cristo crucifixo est
vera theologia et cognitio Dei, in
Cristo crocifisso è la vera teologia e l’autentica cognizione di Dio. C. S.
Lewis, convertitosi al cristianesimo,
ammetteva che la sua ‘idea di Dio’ doveva essere mandata continuamente
in frantumi e ciò, concludeva, “è lui stesso a farlo”. Dio è il grande iconoclasta, il distruttore di
immagini. In Cristo, Dio manda in frantumi molte delle nostre idee su di Lui. Dio
entra nella storia e ci mostra come leggerla, interpretarla attraverso la vita
del Figlio.
La
fede, perciò, è quanto di più concreto, tangibile si possa dare. Pieper spiega
che la storia non è tutto ciò che avviene. Un fulmine che cade, una frana,
maree, accadono e possono divenire
qualcosa di storico soltanto in quanto accadimenti che si riferiscono all’uomo:
“Un avvenimento diventa storico per il fatto che in esso entra in gioco ciò che
è specificamente umano: libertà, responsabilità e decisione”. Cristo diviene
effettivamente storico perché interpella la libertà dell’uomo affinché risponda
e decida riguardo al Vangelo. Cristo è salito
al cielo per sedere alla destra del Padre, ma non è uscito dalla storia;
anzi, grazie al Vangelo, continua ad essere presente, come insegna Agostino: os Christi evangelium est; in coelo sedet,
sed in terra loqui non cessat, il Vangelo
è la bocca di Cristo; siede in cielo, ma non cessa di parlare sulla terra. La Parola ci coinvolge. Proprio
Agostino insiste a ricordarci, fratres,
fratelli, la Parola è res vestras, cosa vostra. Anche nel silenzio il credente comunica con Dio: il
legame Creatore / creatura è infrangibile. Anna, madre del profeta Samuele,
pregò il Signore, ma nessuno ne sentì la voce (1Sam 1, 13). Giovanni Crisostomo
disse che fu esaudita non per i suoni
delle sue parole, ma per le grida del suo cuore. La comunicazione con Dio
avviene per intimo legame, non per tangenza esterna e diviene paradigma di una
comunicazione in profondità con gli altri. Non si deve mai smarrire la
possibilità di un linguaggio franco, schietto, se si vuole intessere una
relazione viva, reale con Dio. Agli inizi, la fede veniva espressa nel
linguaggio del kerygma ispirato da
riferimenti biblici e fu solo nel IV e V secolo che si passò al linguaggio tecnico
del dogma. Si trattò, a dire il vero,
soltanto di una necessità. Spiega Yannaras: “Quello che noi oggi chiamiamo dogma appare soltanto quando
l’esperienza della vita ecclesiale viene a essere minacciata dall’eresia” che indica la ‘scelta’ di una
parte della verità a danno di quella intera (cattolica). “La Chiesa – continua il
teologo ortodosso – di fronte alle eresie reagisce fissando i confini della sua
verità (…). È molto significativo il fatto che la prima designazione che venne
data a quello che noi oggi chiamiamo dogma
fu termine (horos) cioè confine, frontiera della verità (terminus). I ‘dogmi’ attuali sono (…) quelle decisioni teoriche che
formulano la verità della Chiesa ponendo un confine
che separa questa verità dalla deformazione operata dall’eresia”. La dogmatica non serve ad escludere quanti
sono lontani dall’insegnamento della Chiesa, bensì a preservare intera, intatta,
la verità della fede. Dietro al dogma,
per chi respira fiduciosamente Tradizione e Magistero, spira l’aria fresca
dell’originario kerygma.
Chi
si mette sui sentieri della teologia si destina ad un cammino che dura quanto
la propria vita. Ugo di san Vittore, sentenziava: quamdiu vivimus necesse habemus semper quaerere, finché viviamo, dobbiamo sempre cercare. In questo itinerario
tutto viene dallo Spirito che, Ambrogio, definiva ductor et princeps noster, nostra ‘guida e capo’. È lui, continuava,
che orienta la mente, conferma l’affetto, ci attira dove vuole, volge
in alto i nostri passi. C’è un rapporto, oserei dire, di affettiva
reciproca appartenenza tra cristiano e Spirito. San Basilio disse che lo
Spirito è il ‘luogo dei santi’ ed il santo è il ‘luogo dello Spirito’. Il
teologo insegni a coltivare l’interiorità, a rafforzare il linguaggio del
cuore. Si pensi al Salmo 27, v. 8: ‘A
te dice il mio cuore: Cercate il mio volto. Il tuo volto, Signore, io cerco’. Gregorio
Vivaldelli, commenta: “a parlare non è solo la voce, ma soprattutto il cuore.
Esiste (…) uno spostamento verso l’interno della supplica: la preghiera, lungi
dall’essere ripetizione rituale di motivi stereotipati, mostra, ora, la sua
autentica sorgente, il cuore (…). Infine, la terza parte del versetto invita a
passare dall’imperativo all’appropriazione della scelta fatta, dall’orante, il
quale si decide nell’intraprendere questa ricerca che lo impegna per tutta la
vita e in tutte le sue dimensioni”. Il Signore comanda di cercare il Suo volto,
ma l’orante volge l’imperativo in ricerca personale. Il comando, però, Dio lo trae dal Suo cuore.
Barth
disse che l’oggetto del lavoro teologico non è ‘qualcosa’, ma ‘qualcuno’ e,
aggiunse: la ‘teologia retta’, se assume consapevolmente Dio a proprio Oggetto,
inteso come Soggetto che agisce e parla, pur se indirettamente, implicitamente,
si fa necessariamente suspirium, preghiera. Se si fa teologia con spirito
di servizio, nel raccoglimento della preghiera, il confronto tra i logoi teologici non diviene drammatico,
non scontro, ma incontro tra anime tese tutte verso Dio per la salvezza del mondo.
Egidio di Roma ebbe parole profonde per quanti – pur da diversi punti di vista
– si fanno cercatori di Dio: Vi sono
persone che provano gusto a denunciare come erronee le opinioni dei loro
colleghi teologi che elaborano la nostra fede e illuminano la Chiesa. È una
precipitazione che non è senza pericolo per la fede. Il lavoro dei teologi,
grazie al quale avanziamo nelle vie della verità, richiede in effetti un
correttore vigile e libero, non un detrattore che avvelena.
Qualche
anno fa, tra le mani ho avuto un libro, pubblicato da Claudiana: Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo
tra un teologo e uno psicologo. Un testo a due voci. La prima, è quella di
Pinchas Lapide; l’altra, appartiene al padre della logoterapia, Victor E. Frankl. Lapide, a pagina 32, offre l’occasione
di comprendere cosa è e non è teologia: “‘teologia’ è una parola
assurda, se è intesa come scienza su Dio, perché non può esistere una cosa
simile. Ma se la teo – logia va intesa nell’originario significato greco, come
discorso su Dio (…), come una ricerca di senso in Dio, allora, ovviamente, il
termine è giustificato. Ma la teologia – ed è questa la hybris che speriamo Dio voglia perdonarle – vuole a ogni costo
diventare una scienza, cosa praticamente impossibile.Al massimo, può diventarlo
ricostruendo storicamente in che modo gli esseri umani nel passato hanno
vissuto Dio, lo hanno cercato, o come hanno percepito un’ombra della divinità. Dio
stesso non si può stipare a forza dentro una facoltà universitaria”.
La
teologia può assumere veste scientifica, dunque, soltanto se si dà come ricostruzione storica delle idee che gli
uomini hanno elaborato intorno a Dio, ma ciò non è scienza di Dio, bensì esame
scientifico delle cose dette su Dio. La teologia è un discorso e non una scienza;
cerca il senso, non semplicemente il significato; ne va dell’essere dell’uomo, non dell’episteme. Ritengo opportuno, ora,
fermare l’attenzione su di un film di Tarkovskij, Andrei Roublev. Protagonista è un giovane fonditore di campane,
Boriška. Apprensivo ed a tratti sfiduciato, va in cerca della migliore argilla
per lo stampo della campana desiderata dal principe. Aggrava la ricerca una
pioggia che non dà respiro, mentre il giovane si cala in un dirupo fangoso e,
sul fondo dell’avvallamento, finalmente trova quanto cercava. Le immagini ce lo
mostrano quasi sepolto dalla terra limacciosa; una sepoltura accettata per
giungere alla rinascita di artista. Il teologo, come il giovane Boriška, pur
conscio della immane difficoltà del compito, deve andare alla ricerca della
migliore attrezzatura linguistico – concettuale per esprimere la propria
esperienza di Dio; questa è la sua argilla per formare lo stampo di una teologia
che piaccia al Principe/Cristo.La
pioggia di contestazioni del mondo complesso, post – moderno, non dà tregua e
ci si deve calare nei dirupi fangosi della storia sempre più lontana dalle
provocazioni trascendenti. Si deve scendere nel fango della storia e trovare la
migliore argilla per forgiare una buona teologia. Seppellirsi nelle questioni
più infuocate ed insidiose del proprio tempo è la sola occasione per risorgere
come teologo capace di far risuonare la campana dell’annuncio evangelico per
come è gradito al Principe/Cristo. Il
teologo sa che la migliore argilla si
trova sul fondo limaccioso del non
ascolto del mondo. In fondo, è la stessa fede
ad essere “un abito oscuro e nudo” (San Giovanni della Croce). Per von
Balthasar, un teologo può seriamente
esistere solo se ‘prima’ si è immerso
nelle misteriose strutture dell’essere creato. Le ‘misteriose strutture’,
talvolta, sono limacciose come l’avvallamento nel quale si cala,
coraggiosamente, il giovane fonditore di campane. In fondo, l’accademia entra relativamente
nelle fatiche teologiche poiché, per lo più, la teologia è – una dialettica di provocazione e risposta (Tracy)
che coinvolge tutte le dimensioni della persona. Dialogando con Bruno Forte, il
filosofo Vincenzo Vitiello ha sostenuto che Dio, innanzitutto, è passione!
Stando così le cose, conclude, “non lo si cerca senza patirlo (…). Chi cerca
Dio per essere felice ha cambiato Dio con un idolo. Dio si cerca per Dio, non
per altro”. Se ogni credente autentico ha la passione di Dio, il teologo in cosa si distingue? Apprezzo quanto,
a tale proposito scrive René Latourelle:
“vi è in ogni cristiano una riflessione inerente alla fede (…). La
teologia scientifica è il prolungamento della riflessione spontanea (…) è la
fede vissuta da una mente che pensa; essa è scientificamente elaborata (…) è la
fede che assume il discorso della ragione per comprendere meglio il suo
oggetto”. Che l’apporto delle scienze umane non basti a chiarire le ‘ragioni
della speranza cristiana’ è ovvio; infatti, la fede cristiana è in stretto rapporto col paradosso: “La condizione cristiana è paradossale. Si è invitati a
divenire se stessi, ma al prezzo di un cambiamento. Vi si accoglie la promessa
di una vita ma a condizione di attraversare la morte. Si è chiamati a darsi, ma
possono farlo soltanto quelli che imparano ad essere se stessi. Non si arriva
alla maturità nella fede senza passare attraverso qualcosa che assomiglia alla
rottura, al disorientamento, al decentramento da se stessi”, scrive Paul André
Giguère; ed aggiunge che, il ‘punto fondamentale’ di una ‘autentica conversione
cristiana’ sta nel servire Dio invece di
servirsi di Dio.
Credenti
e teologi sono tenuti a sviluppare una fede
matura; a cercare, come il giovane fonditore di campane nel film di
Tarkovskij, l’argilla migliore; il
metodo, il linguaggio migliori, affinché la campana
del Principe, l’annuncio del Regno in
e di Gesù, Principe della Storia,
risuoni nelle coscienze addormentate, desolate, degli uomini del nostro tempo. Qui
si innesta una considerazione di Walter Kasper:
“Anche i concetti più centrali della teologia quali grazia, salvezza,
peccato, Dio, sono oggi diventati in larga misura termini che non ci dicono più
nulla e risentono della mancanza di una base di esperienza”.
La
teologia deve presentarsi come una esperienza,
pur avvolta dal rigore di un pensiero ben strutturato. Per fare ciò, occorre
comprendere che, se il contenuto della
fede è immutabile, i modi per
comunicarlo sono storici e, dunque,
soggetti a revisioni. La fede precede il pensiero teologico che la storicizza
nel pieno rispetto, senza nulla snaturare di essa, delle capacità di ricezione dell’uomo al quale si rivolge. Interessante, ora, è riportare l’esperienza
del filosofo Enrico Morselli che parla dell’approccio al messaggio cristiano
negli anni della sua giovinezza: “In collegio, i veri sentimenti religiosi
erano trascurati: si (…) adempivano gli obblighi rituali del Cattolicesimo, ma
senza fervore (…). Disprezzavo la gerarchia chiesastica (…) per la sua
ignoranza spesso accompagnata da corruzione (…). Entravo perciò nelle chiese
scegliendo l’ora della solitudine e della penombra, e là mi immergevo in
meditazioni dolcissime, in veri rapimenti”.
Va
detto, onestamente, che agli errori della gerarchia
chiesastica, alla non testimonianza dei compagni di collegio,
Morselli somma un altro errore: si rifugia in una fruizione individualistica,
intimista, del cristianesimo! Le chiese sono belle e confortevoli nell’ora della solitudine e della penombra, ma le meditazioni rigeneranti
dal punto di vista psicologico, nulla apportano ad una fede vissuta come
impegno, dono di sé, apertura alle questioni spinose del mondo. Chi vuole seriamente occuparsi di questioni
teologiche, non può rifugiarsi nella penombra delle chiese! La teologia ha
sempre valenza ecclesiale! Accostarsi, da credenti o da teologi, alle provocazioni
evangeliche esige sempre la “testimonianza di una fede viva e matura (…)
opportunamente educata alla capacità di guardare in faccia e con lucidità le
difficoltà per superarle” (Gaudium et
spes, 21, 5). Nessuno, laddove il
rifiuto del cristianesimo si fa granitico, può reagire appropriandosi delle
parole di un personaggio di Albert Camus: “Addio, brava gente, capirete un
giorno che non si può vivere bene sapendo che l’uomo è nulla e che il volto di
Dio è tremendo”.
Non
sminuisco il valore della formazione spirituale,
né disconosco la fecondità del contemplare
ma, fare teologia, per me, è un’attività;
qualcosa che incide profondamente nel vivere! La lezione non è nuova. San
Bonaventura, scriveva: Utrum teologia sit
contemplationis gratia an ut boni fiamus?, si fa teologia per desiderio di contemplare o per santificarci? Il
massimo sarebbe far convive re i due momenti. Continuava Bonaventura: “sapere
che il Cristo è morto per noi, e altre verità simili, non può non suscitare
l’amore”. Sì, meditare, cercare le
ragioni della speranza cristiana in noi, significa suscitare l’amore. Illustrando la ‘morte di Cristo’ il teologo deve
far cogliere il sì di Dio all’uomo ed
alla storia e, nella Risurrezione, mostrare come il sì di Dio si contrappone
alla nientificazione di uomo e mondo! Ha scritto Jüngel: “Nella morte di Gesù
il ‘sì’ di Dio che costituisce ogni essere si è esposto al ‘no’ del nulla.
Nella risurrezione di Gesù Cristo questo ‘sì’ si è esposto al ‘no’ del nulla.
Ed è qui che si è deciso, secondo la grazia, perché in generale vi sia l’ente e
non invece il nulla. Infatti: ‘Se Egli non fosse risorto, il mondo sarebbe
tramontato’ (inno ecclesiastico)”.
Heidegger
– di cui Jüngel ascoltò le lezioni - aveva riproposto l’interrogativo della
metafisica: perché è in generale l’ente e
non piuttosto il nulla? A volere l’ente, che il mondo e l’uomo continuino
ad esistere è il sì definitivo di Dio detto
in Cristo morto e risuscitato! Alla domanda filosofica, piena di stupore di
fronte all’ente, diamo una risposta teologica.
Se è vero, come dice Tillich, che essere
finiti significa essere minacciati,
resta che Dio “è la risposta alla domanda implicita nella finitezza dell’uomo;
egli è il nome di ciò che interessa ultimamente l’uomo”. Tale interesse, però,
non è pacificamente riconosciuto; occorre che si mostri all’uomo che è evidente cercare in Dio la risposta al nostro
essere finiti, minacciati dal nulla. Jüngel ha ragione, ma per noi che
crediamo: è il sì di Dio nella morte e
risurrezione di Cristo detto definitivamente al no del nulla a mantenere
l’ente! Ma per chi non crede? Il filosofo Popper, dialogando con l’etologo
Lorenz, diceva di avere questa convinzione: la vita cerca un mondo migliore e, dunque, è scettica (nel senso del verbo greco cercare). Se scettico
viene da cercare, anche il teologo
che cerca l’argilla migliore per lo stampo
della sua teologia è scettico. Lo
deve essere, ma verso quanto pretende di proporsi (o imporsi) come quel mondo
migliore che tutti cerchiamo! Scettici su modi, linguaggi, metafore che si
pretendono ‘assoluti’, non sui contenuti di fede che essi veicolano! In fondo,
anche gli avversari del pensare teologico ammettono che non tutto, dalle nostre
parti, va gettato alle ortiche. Voglio rubricare una citazione e, dopo, ne
fornirò, forse stupendovi, la paternità: “quanto sembrano invidiabili, a noi
uomini di poca fede, quei ricercatori che sono convinti dell’esistenza di un
essere supremo! (…). Quanto comprensive, esaurienti e definitive sono le
dottrine del credente in confronto ai faticosi, miseri e parziali tentativi di
spiegazione che sono il massimo che noi riusciremo a mettere insieme”.
L’autore,
pensate, è Sigmund Freud! L’argilla migliore, però, il teologo non la
ottiene a buon prezzo; anzi, come nel caso del personaggio di Tarkovskij, solo
rischiando la sepoltura sotto il fango dell’incomprensione la può trovare. Fare
teologia non è soltanto riferire dati e date, ma sentire nella carne il pungolo
delle questioni decisive. Il teologo si versa in una scienza patica perché deve narrare la propria e l’altrui scelta di
fede tappa per tappa, sofferenza per sofferenza. Non si può, come insegna
Sesboüé, “proporre la fede cristiana
senza proporre parallelamente l’accesso a questa fede (…), senza dire al tempo
stesso tramite quale procedimento e percorso i cristiani sono pervenuti a
questa confessione (…), come è apparsa quale atto umano giustificabile agli
occhi della ragione e della storia”. Ogni percorso di fede è infuocato: “I
discepoli – continua Sesboüé – non hanno creduto in Cristo nell’arco di una
giornata (…). I vangeli ci aprono una finestra sulla genesi della fede dei
primi testimoni dell’evento di Gesù”. I contributi dell’ermeneutica, dell’esegesi
e, più in generale, della riflessione
teologica sono stati sofferti, ma sempre importanti. O’Collins, infatti,
nota: “Storicamente non è mai esistito un Gesù non interpretato (…). Fin dai
primissimi incontri con Gesù avvenuti decenni prima della stesura dei vangeli
sinottici, i primi discepoli e poi quelli successivi dovettero necessariamente
interpretare la persona e la loro esperienza di essa”.
I
discepoli, ricordava Sesboüé, non sono arrivati facilmente a credere in Cristo perché, come ora
aggiunge O’Collins, a loro non solo occorreva interpretare la
Persona /Cristo, ma anche la personalissima esperienza del Salvatore. Toccò,
l’incombenza ermeneutica, ai “primi discepoli” e poi a “quelli successivi”. La Chiesa , coi Suoi teologi,
Concili, continua a chiedersi, sollecitata dalla domanda dello stesso Gesù, chi mai Lui fosse! Freud non ha del tutto ragione a
ritenere che le dottrine del credente
siano invidiabili. Come per ottenere
la migliore argilla al giovane eroe
di Tarkovskij, così a noi, per trovare argomenti a sostegno della pretesa
cristiana, è richiesto un grande sacrificio. L’Antico Testamento presenta le
figure di Esdra e Neemia che devono organizzare la vita, non solo cultuale, del
popolo ebreo dopo l’esilio. Esdra, sacerdote e scriba, aveva capito che – come è
obbligatorio per il teologo odierno – occorreva partire dalla Parola. Di lui, dice la Scrittura : “aveva
applicato il cuore a studiare (daras) la Legge (Torah) del Signore, e a praticarla
(‘aśah) e ad insegnare (limmad) in
Israele la Legge
e gli statuti” (Esd 7, 10). Studiare – praticare – insegnare la Parola !
Il teologo, come Esdra, deve organizzare la vita del popolo cristiano intorno a
certezze di fede che si possono insegnare solo se, prima, da lui stesso
studiate e praticate. Chi si dedica, come Esdra, con tutto il cuore all’impresa sa che, in questo sforzo, salire un
gradino può causare il retrocedere di due! I sapienti ebrei erano ben avvisati
riguardo a ciò. Racconta Buber: “Fu chiesto a Rabbi Levi Isacco: ‘Perché in
tutti i trattati del Talmud babilonese, manca la prima pagina e ognuno comincia
con la seconda?’. Egli rispose: ‘Per quanto un uomo abbia studiato, deve sempre
ricordarsi che non è ancora arrivato alla prima pagina”.
Il
teologo è un ricevente creativo:
accoglie una Rivelazione, ma la deve rendere credibile a chi non la conosce e,
mi permetto, anche all’ateo che sonnecchia in lui ed in ogni credente! È,
inoltre, meta – testimone: non testimone
oculare, ma appassionato testimone di
altrui testimonianze. Con lo studio, accertando l’attendibilità storica dei
testi che lo precedono, narra qualcosa
di fondato su Qualcuno sul Quale, poi, fiduciosamente fondarci. Le provocazioni teologiche invitano a
riflettere: è solo per intima consistenza che le cose sono, piuttosto che
precipitare nel nulla? E, come aveva risposto Jüngel, il teologo deve mostrare
che le cose sussistono grazie al sì di
Dio. L’uomo è stanco di portarsi la Storia sulle spalle. Ha scritto
Bataille: “La vita umana è stremata di servire da testa e da ragione
dell’universo”.
Non
ce la si fa più a concentrarsi interamente su se stessi; occorre de – centrarsi in Cristo per meglio
centrarsi, ma ora senza ossessione, su se stessi. Bisogna essere–nel–Cristo, come insegna l’apostolo Paolo (cfr., 1Cor 1,30). L’espressione sottolineata
ricor re, nell’epistolario paolino, più di 164 volte! Tale concentrazione cristologica, però, non avviene evitando la Croce , ma consegnando ad
essa ogni nostro tormento, anche accademico, perché non la si addolcisce
tentando di cogliere su di essa la rosa
hegeliana della speculazione che dice di un felice e certo superamento (Aufhebung) del negativo. Il teologo
sempre è – ricordava Barth – sottoposto ad un particolare Bedrängnis (termine tedesco che possiamo rendere in italiano con tormento). Qual è, dunque, per il
Nostro, il tormento particolare del
teologo? ‘Parlare di Dio’, ma solo
ricorrendo a ‘parole umane’. Si tratta – aggiungeva – di avere
coscienza, allo stesso tempo, delle due condizioni: il ‘nostro dovere’ (Sollen) di parlare ed il ‘nostro non –
potere’ (Nicht – können) farlo; si
rende, proprio per questo, onore a Dio. Il teologo, dunque, per il Nostro, è
situato in una ‘singolare esistenza – speciale’ (merkwürdige Sonderexistenz), tra ‘tempo’ ed ‘eternità’. Fra tutte
queste lacerazioni, meglio rinunciare alla teologia? Come diceva Rahner,
davvero l’intero nostro parlare di Dio
non è che l’ultima parola prima del tacere? Non credo le cose stiano così.
Barth concludeva che, in fondo, il tormento
(Bedrängnis) teologico è “solo il
segno del tormento di tutti i compiti umani”. Appare chiaro che “rinunciare
alla teologia ha tanto poco senso quanto togliersi la vita (…). Dunque,
perseveriamo, niente di più. Dobbiamo sapere
appunto queste due cose, la necessità e l’impossibilità del nostro compito”.
Anche il giovane fonditore di campane Boriška era triste perché gli sembrava
impossibile rinvenire l’argilla migliore per lo stampo della campana desiderata
dal principe; tuttavia, come dice Barth, persevera,
niente di più! Può accadere, continua
il teologo, perseverando, “che la
parola di Dio, che noi non diremo mai, abbia assunto la nostra debolezza e
stortura, così che la nostra parola nella sua debolezza e stortura sia stata
resa capace di essere almeno involucro e vaso di creta della parola di Dio”. Perseverare nel cercare di scoprire se
la Parola si introduce nel nostro debole dire può rivelare anche, in caso di conferma, la portata pratica della stessa per la vita del mondo. La teologia
– sulla scorta dell’immancabile efficienza
della Parola – deve assumere rilevanza
pubblica. La Teologia politica,
infatti, “vuole che la parola cristiana diventi una parola socialmente efficace. Essa cerca categorie che non servano solo
alla illuminazione delle coscienze, ma anche alla loro trasformazione” (Metz).
C.
S. Lewis, letterato e non teologo, pure ha riconosciuto la necessità di fare teologia.
Ecco il suo argomento. Vedere l’Atlantico dalla spiaggia e, successivamente, su
di una mappa, può valere, certo, come passaggio da qualcosa di reale ad altra meno
reale. La mappa non è l’Atlantico ma, a ben considerare, è pur sempre il
prodotto della testimonianza di numerose persone che sono state sul posto; se,
poi, si vuole andare da qualche parte, la mappa è necessaria: “La teologia –
conclude Lewis – è come la mappa”. Le dottrine mai coincideranno con Dio, ma
fondano sull’ esperienza di testimoni
attendibili. La mappa ci dice dei percorsi di quanti hanno cercato – non senza
sofferenze – l’argilla migliore per
lo stampo della loro teologia
affinché, in essa, come una campana, risuonasse la voce di Dio. Una teologia meramente soggettiva sarebbe soltanto (e
non anche) emozionale…una ‘religione
sentimentale’ attira in quanto divide il lavoro
dalle emozioni. La teologia, per
Lewis, si dà come “una necessità pratica”; ed aggiunge: “specialmente oggi”. Perché? Se un tempo, risponde,
l’istruzione era rara ed i dibattiti riservati a pochi specialisti, ormai tutti
pretendono spazio nella discussione intorno a Dio. Il rischio è che si
contrabbandino per coraggiosi -
volenterosi cercatori della migliore argilla personaggi che forgiano le
loro campane facendo ne lo stampo col più scadente dei materiali. Ignorare la
teologia, si dice, non rende orfani di idee riguardo a Dio; forse è così, ma di
certo non ci si renderà conto che la “gran parte delle idee su Dio che oggi si
fanno passare per novità sono semplicemente idee che i veri teologi hanno
esaminato, e respinto, secoli addietro”.
Non
conoscere i percorsi teologici che hanno condotto ad una ‘certa’ purificazione
della nostra fede, significa esporsi con più ingenuità alle idee inquinate di
alcuni falsi profeti.Lewis definisce la teologia scienza sperimentale ‘in un certo senso’. Solo in parte, cioè, essa si può accostare ad altre scienze
sperimentali. Ci viene proposto l’esempio dello geologo. Questi, può studiare le rocce soltanto se le va a cercare;
esse, ovvio, non possono raggiungerlo, né fuggirlo. Soltanto il geologo può,
deve prendere l’iniziativa. Uno zoologo,
per fotografare animali selvatici nel loro habitat, deve andare a cercarli ma,
a differenza delle rocce, gli animali possono fuggire e sottrarsi
all’osservazione. L’iniziativa, cioè, non è più in mano soltanto al cercatore.
Così, se vogliamo conoscere una persona, questa può sottrarsi alla nostra
presenza; l’amicizia, infatti, può accendersi solo col consenso pieno di due
soggetti! Chi vuol conoscere Dio,
continua Lewis, deve sapere che è Lui il solo a poter prendere l’iniziativa. Si
mostra a chi vuole e non per capriccio, bensì in risposta alla buona
disposizione di mente e cuore del cercante:
“Così
– conclude il nostro autore – come la luce del sole, pur non avendo
predilezioni, non può riflettersi in uno specchio polveroso chiaramente come in
uno limpido”. Nella scienza gli
strumenti utilizzati sono esterni a noi;
vediamo Dio, invece, con uno strumento particolare: tutto il nostro essere. Se è opaco, la visione di Dio non potrà essere limpida. La teologia non è il
frutto di una visione soggettiva di
Dio, ma di una lunga, lenta, meditata, sofferta fede comunitaria. Chiude Lewis: “il solo strumento veramente
adeguato per apprendere qualcosa su Dio è l’intera comunità cristiana (…). Ecco
perché tutti quei personaggi che di tanto in tanto se ne vengono fuori col
brevetto di qualche loro religione semplificata da sostituire alla tradizione
cristiana sono soltanto perditempo. Come un uomo che avendo per solo strumento
un vecchio binocolo da campo voglia mettere in riga gli astronomi veri (…). Se
il cristianesimo fosse una nostra invenzione, potremmo renderlo più facile (…).
Chiunque è capace di essere semplice, se non ha una realtà di cui tener conto”.
Ci
distingue dal fonditore di campane di Tarkovskij il fatto che la ricerca dell’argilla migliore per lo stampo
della nostra teologia (affinché, come una campana faccia sentire ad ogni tocco la
voce di Dio), è non avventura solitaria, bensì comunitaria. Fare teologia da soli,
quasi sempre partorisce fantasmi; il
cristianesimo non è facile, ma non lo
si può semplificare perché – essere teologi o semplici credenti – significa
sempre tenere conto di una realtà.
Quale? In Cristo si mostra che Dio è esigente. Non solo sul piano dell’agire, ma anche su quello del pensare. Dunque, fare teologia non è attività senza conseguenze. Teologi e credenti
si affratellano nella fede ricevuta e
custodita integra dalla Chiesa ed ammettono che parlare di Dio (da completare con il parlare a Dio e con il lasciarsi
parlare da Dio) accomuna nell’umiltà di fronte ad una Parola che, direbbe Rebora, finisce con lo zittire chiacchiere nostre.
Lo
studioso della teologia protestante André Gounelle, ci confida due esperienze.
La prima: “Una delle mie uditrici, dopo una conferenza sulle ricerche della
teologia contemporanea, mi disse: ‘Lei ha affrontato domande che mi pongo da
più di vent’anni, ma che non ho mai osato esprimere, perché pensavo che un
credente non dovrebbe essere preoccupato o turbato. Che sollievo sapere che dei
pastori, dei preti, dei teologi ne parlano e vi riflettono. Non sono un mostro
tra i cristiani’”. Nella seconda, lo studioso fa comprendere che, in ogni caso,
le domande teologiche sono complesse e che se ci accingessimo a
chiarire, parola per parola, cosa
meditamo, ci perderemmo; tuttavia, ci invita a riflettere anche sul fatto che
non si possono affrontare alla leggera e velocemente questioni simili. Ascoltiamolo
ancora: “Un giorno, sul treno, uno dei miei compagni di scompartimento, vedendo
il libro che stavo leggendo, mi ha chiesto: ‘Allora, lei crede che Dio
esista?’. Per essere onesto, avrei dovuto rispondere: ‘Sì e no allo stesso
tempo; dipende da che cosa lei intende per Dio,
dal senso che dà a esistere e da ciò
che significa per lei credere’. Ho
ritenuto questa risposta troppo complicata (…) e, poiché ci muovevamo ad alta
velocità, ho detto: ‘Penso che egli è’. Il mio interlocutore mi avrebbe sorpreso
e imbarazzato se avesse replicato: ‘Che cosa intende per pensare e per essere?’.
Non lo ha fatto; la teologia ad alta velocità non va mai troppo lontano”.
Non
ho discusso – per motivi di spazio – la questione se oggi la teologia è in
crisi o ancora può dire molto. Ad ogni modo, lascio una provocazione: una vera
critica all’idea di Dio, al linguaggio religioso, al modus credendi cristiano non può darsi se non attraversando
giudiziosamente i sentieri stessi della teologia (o delle teologie) messe sotto
esame! L’idea è stata espressa brillantemente da Kolakowski: “Persino quando si
scatena una conflagrazione che sembra far saltare in aria tutta la nostra
eredità, l’esplosivo si trova già nel patrimonio ereditario”. Nella stessa eredità teologica sono disseminate
cariche esplosive perché il nostro patrimonio cristiano è il precipitato di
battaglie tra teologi e di infuocati Concili. Nulla è mai stato fissato per comodo
irenismo. La Verità
– dice un poeta spagnolo – è più alta
della luna e, certo, molto al di sopra della nostra intelligenza. Cercando,
attraverso la teologia, la Verità
dobbiamo, per parafrasare Ignazio di Loyla, cercare
come se tutto dipendesse da noi e pensare
di aver trovato come se tutto non
potesse che venire da Dio. Uno zaddik, un giusto ebreo, disse che tutti i
detti l’un l’altro contraddicentesi dei saggi sono veri nel cielo, perché nel
cielo tutte le verità sono unite. Aggiunse, però: Vedremo!
Ecco
il sano senso del limite: Vedremo! Viaggiamo sulle fragili zattere di arrischiati logoi: la validità di essi ammette solo certificazione escatologica. Salendo sull’albero delle
pericolanti imbarcazioni dogmatico – linguistiche
– concettuali, possiamo, per ora, raccogliere materia per offrire – diciamo
con linguaggio platonico - bei racconti
in attesa dello svelamento pieno della Verità. Il teologo, consapevole dei suoi
limiti è, per riprendere una bella immagine di Walter Benjamin, come un
“naufrago alla deriva su un relitto” e che “si arrampica sulla cima dell’albero
ormai fradicio. Ma di lassù” – ecco il germe
di speranza da far crescere – “egli ha la possibilità di dare un segnale
che lo può salvare”. Male sarebbe lasciare l’instabile imbarcazione per
vegetare sulla terraferma di nozioni prive di vita, o attaccarsi all’albero
fradicio della zattera ritenendo inutile la fatica di arrampicarsi per mandare un segnale
che mostri la nostra volontà di essere salvati. Dobbiamo scegliere:
darci coraggiosam ente al lavoro teologico facendovi entrare il soffio dello
Spirito o cloroformizzare la nostra coscienza
inquieta affidandoci ad idoli.
Mirjam Viterbi Ben Chorin, ha detto: “Sento che noi (…) tutti ci troviamo oggi
a un bivio: seguire lo Spirito o tapparci gli occhi e le orecchie e inchinarci
agli idoli. Poiché anche le religioni non idolatre ‘hanno’ idoli. Tutto ciò che
si è pietrificato nel tempo, che è divenuto un simulacro vuoto di Spirito, o
che sopravvive per imperativi estranei alla sincerità del nostro ‘essere’ oggi,
tutto ciò, specie se si ammanta dell’oro finto di una religione stereotipata,
noi dobbiamo distruggerlo, se vogliamo andare secondo le vie che l’Eterno ha
tracciato per noi nel tempo”. Il compito del teologo consiste nel rigettare l’oro finto di una religione
stereotipata e lanciarsi, costi quel che costi, come il giovane fonditore
di campane, alla ricerca dell’ argilla più
buona preparando uno ‘stampo impeccabile’ per il proprio lavoro perché Dio
merita che suonino le campane migliori.
Nell’‘Almanacco
di scienze’ (MicroMega 2/2007), Richard
Dawkins, nel suo contributo (‘Perché quasi certamente Dio non esiste’), parte
dalla convinzione che l’esistenza di Dio non è dimostrabile.Se l’Ipotesi di Dio
viene processata scientificamente, se ne deduce che è ‘non necessaria’ ed
‘altamente dispendiosa’; meglio spiegare l’universo e l’origine della vita
affidandosi al ‘principio antropico’ ed alla ‘selezione naturale’. Nello stesso
numero dell’Almanacco, il filosofo della mente Daniel Dennett, nel contributo
intitolato ‘E liberaci da Dio’, ragiona su un libro recente di Dawkins: The God Delusion. Il titolo fa testo: Dio è stato ed è deludente! Nel saggio
si vuol dimostrare che l’estinzione della religione garantirebbe al mondo un
futuro migliore. Dennett, che non aspira a compiti di sacrestia, onestamente si
chiede cosa ne potrebbe prendere il posto “o che cosa sorgerebbe spontaneamente
– e per questo”, ammette, “sono ancora pronto ad esplorare l’ipotesi di
riformare la religione”. Dawkins, invece, chiude ogni varco al dialogo ed
annuncia programmi televisivi, pubblicizza un sito web ed in appendice al suo
libro offre “un elenco parziale di indirizzi cui possono rivolgersi le persone
che hanno bisogno di aiuto nella loro fuga dalla religione”. Questo attacco
generale alla religione viene ristretto al cristianesimo a partire dalle ironiche
considerazioni che Dawkins fa a proposito del peccato e della salvezza. Adamo,
dice il dissacrante autore, non è mai esistito e Gesù avrebbe dovuto saperlo!
Se quanto narrato nel Genesi è solamente ‘simbolico’, ne conclude Dawkins, “per
essere efficace, Gesù si sarebbe lasciato torturare e mettere a morte, come
vittima delegata a ricevere la punizione di un peccato simbolico commesso da un individuo non esistente? Come ho già detto: completamente fuori di testa,
oltre che disgustosa”. Se la conoscenza teologica rimane a livello di sentito
dire, di prima alfabetizzazione cristiana,
ecco cosa rimane dell’avventura umana in compagnia di Dio narrata nella Bibbia!
Che la teologia continui a lavorare per illuminare sempre più la fede
rendendola quanto più consapevole e critica, se si vogliono evitare disastri
alla Dawkins. Un conto è non credere nella storia teandrica giudeo – cristiana, un altro è irriderla senza averla
attraversata dotandosi dei mezzi richiesti. Ci sono autori che scrivono contro
il cristianesimo; eppure, ne conoscono superficialmente la mappa e non hanno
alcuna intenzione di arrischiare una visita sul posto!
Non
è, tuttavia, che non ci sia più voglia di religione…anzi! Purtroppo, se ne ha
un proliferare equivoco e sconsiderato. Il CESNUR, Centro Studi sulle Nuove Religioni, compilando nel 2003 l’Enciclopedia delle religioni in Italia,
recensì oltre seicento realtà religiose/spirituali. A livello mondiale, invece,
nel 1988 Beith – Hallahmi, descrisse 2.200 ‘Nuovi Movimenti Religiosi’. Mutano
linguaggi, categorie di pensiero, attese ed una teologia che voglia pensare il
futuro ed al futuro non può aggirare l’ostacolo. Sempre nel 2003 uscì un film
di Alejandro Gonzalez Iňarritu, 21grammi.
Il titolo va spiegato. Secondo esperimenti – ancora destanti perplessità –
effettuati nel 1907, al momento della morte pare che il corpo perda circa 21
grammi: che sia l’anima che va al cielo? Ci si aggrappa a tutto pur di
raccontarsi che siamo qualcosa di più che un groviglio di cellule…Ma spiritualismo non è spiritualità e meno che meno fede.
Cox scrisse che “stiamo entrando in una nuova ‘età dello Spirito’” anche se il
fatto di trovarsi in essa comporta il convivere “con tutte le promesse e i
pericoli che i risvegli religiosi portano sempre con sé”. Il fenomeno dell’atipico ritorno della religione (ma io
insisto nel dire che si tratta di una nuova
ondata di spiritualità), avvertiva Cox, ormai si verifica “su scala
mondiale”. In maniera straripante si parla, se non gradite che mi impantani
nell’espressione ‘nuova spiritualità’,
genericamente di religioni e non di fede
cristiana. Cosa vuol dire ciò per la teologia futura? Si deve dialogare con
tutto questo e farlo impiegando – diremmo con René Char – attrezzi nuziali. La Commissione Teologica
Internazionale, nel 1997, stilò un documento: Il cristianesimo e le religioni: “In primo luogo – si legge al n. 7
– il cristianesimo dovrà impegnarsi a comprendere e valutare se stesso nel
contesto di una pluralità di religioni” ed a “riflettere in concreto sulla
verità e universalità che (…) rivendica” per cercare, poi, “il senso, la
funzione e il valore proprio delle religioni nella totalità della storia della
salvezza”. Compito specifico della teologia
sarà quello di “studiare ed esaminare le religioni concrete con i loro contenuti
ben definiti che dovranno essere posti a confronto con i contenuti della fede
cristiana”. Se non abbiamo piena conoscenza dei contenuti della fede cristiana si vanifica lo sforzo di conoscere
quelli di altre credenze religiose.
Nel
2004, André Glucksmann si è chiesto perché l’Europa debba essere l’unica a produrre una civiltà senza Dio. Hans
Blumenberg ha parlato di delusione
escatologica: l’uomo post – moderno, a suo dire, non attende più dal futuro il radicalmente nuovo, ma presagisce solo angosce ed inquietudini. La
teologia deve spiegare che la riflessione
escatologica non è mai stata e mai sarà fuga
mundi perché – ricordava de Lubac – la vita
eterna è anche una speranza per
il futuro ma, in primo luogo, “è un’esigenza per il presente”. Come insegnava
Bonhoeffer, i cristiani che stanno sulla terra con un piede solo, staranno con
un piede solo anche in paradiso! La posizione autenticamente cristiana deve
essere equilibrata. Non è sano amore
per la terra quello proclamato da Nietzsche che invitava a “non ficcare più la
testa nella sabbia delle cose del cielo”, ma “a portarla liberamente”; aspirava
a dotare l’uomo di “una testa terrena, che crea il senso della terra”. Da qui
discendono disperate posizioni. Il filosofo rumeno Cioran, ad esempio, afferma
che la salvezza risiede nell’acquistare la certezza che salvezza non c’è! Se
nel tempo non si ode più il battito dell’ eterno, i giorni divengono
smorte candele che si spengono una alla volta…Il cristiano deve pensare
diversamente il tempo e pregare con Gilbert Cesbron: Signore, fate che oggi sia un giorno vero, non un giorno in più. La
teologia non può ignorare la sfida della defuturizzazione:
dell’incapacità, cioè, a credere che sia possibile un futuro. Fu questa incapacità a condurre al suicidio lo
scrittore Cesare Pavese? Non ho la presunzione di rispondere, ma è legittimo
chiedermelo quando penso che scrisse di non riuscire a sopportare l’idea di
vivere un giorno in cui nulla accadrà e
che è l’inutilità la cosa più amara. Cosa è successo?
La
delusione escatologica di cui parlava
Blumenberg, a mio avviso, origina da un fenomeno evidenziato da Michael Novak.
Da giovane desiderava essere sacerdote cattolico ma, poi, si dedicò allo studio
della ‘dottrina sociale delle chiese’. Diventò il teologo cattolico del
capitalismo democratico americano. Cucì sulla pelle del nostro secolo le
questioni teologiche di sempre; ad esempio, ripensando la Trinità
(Kant riteneva ciò infruttuoso sul piano pratico), ne ricavò l’impegno a
modellare la comunità su di essa. Chi
l’avesse seguito in questo progetto, scrisse, avrebbe condiviso la vita di Dio.
L’Incarnazione gli insegnò che
“occorre essere umili, pensare in modo concreto, affrontare i fatti, allenarsi
al realismo”.La sua visione disincantata (che
qui non fa rima con disperata) del mondo lo condusse a spiegare cosa
abbia provocato la sfiducia escatologica nell’uomo
post – moderno: “Ogni società tende ad erigere al proprio centro una ‘tenda
sacra’ che offra un sicuro punto di riferimento alla comunità; ma nelle società
secolarizzate non vi è più nessuna ‘tenda sacra’ ma soltanto ‘uno scrigno
lasciato vuoto’”. Sta alla qualità della teologia che faremo decidere – se le
tende sacre sono state rimosse – cosa
o Chi dovrà riempire lo scrigno.
In
Europa, pensare Dio è una sfida
cruciale per la teologia (oggi e domani). Lo studioso dell’integrazione europea
Weiler ci informa che gli psicologi, riferendosi ai soggetti che tentano di
nascondersi qualcosa di importante della realtà, usano il termine denial, negazione; ebbene, l’Europa nega
di avere un debito con Cristo e con il Cristianesimo. Nel Preambolo della nuova Costituzione Europea,
lamenta lo studioso, “non c’è spazio per Dio”; eppure, anche quando a dire
‘sono un europeo’ è un laico (nell’accezione estrema del termine) deve riconoscere,
“se non vuol fare lo struzzo, che nella cultura che definisce la sua propria
‘europeità’ c’è” comunque l’“importante sostrato culturale cristiano”. Weiler
non è cristiano, ma ebreo praticante e, dunque, ritiene che la Costituzione europea
dovrebbe dar spazio alla tradizione
giudeo – cristiana. La patologia dell’Europa fin – de – siècle è, a suo dire, la Cristofobia
che conduce alla rimozione di Dio e
del Cristianesimo dai testi costituzionali dell’Unione Europea e non per
“ragioni costituzionali di principio”, bensì a causa di “motivi di tipo
sociologico, psicologico, emotivo”.
Gli
strali critici di Weiler, però, si appuntano anche sulla pelle di molti
cristiani che “si nascondono” e “non tanto perché siano perseguitati da
qualcuno”, ma perché provano ‘imbarazzo’ nel confessare la loro fede. Il nostro
autore picchia duro: fatte poche eccezioni, è convinto del fatto che
“l’importanza del Cristianesimo per il progetto di integrazione europea” non è
percepita neppure dagli stessi cristiani. La teologia dovrà fare i conti
soprattutto con lo scolorimento dell’identità cristiana non più consapevolmente accolta e curata. Weiler
precisa che nemmeno una Europa pancristiana
è auspicabile. Nei suoi scritti c’è attenzione e rispetto anche per i
musulmani! In una visione allargata della questione, il nostro autore rileva
che le “sfide spirituali dell’Europa sono gravi” ma, tuttavia, cala una parola
di speranza che, ad iniziare da noi cristiani, merita di venir colta ed
amplificata.Weiler invita allo sforzo di comprendere “come attraversare il
ponte lungo della modernità e della post – modernità senza compromettere la
dignità umana e l’amore. L’importante è non aver paura”. Il coraggio di questa traversata deve
alimentarsi all’insegnamento di Mounier: la santità
è la sola politica valida.
Nel
1971, Jean Marie Aubert pubblicava uno studio: Pour une théologie de l’âge industriel. Siamo, ormai, nella società
post – industriale nella quale a costituire ricchezza sono informazione e conoscenza con
le relative tecnologie (per lo più elettroniche) che le veicolano, ma alcune
tesi di Aubert conservano intatto valore. Il cristiano, sottolineava, deve
inserirsi in un mondo “in crescita continua” per “apportarvi il fermento evangelico”. La teologia deve far dialogare
l’immutabile logos evangelico con la
fluidità inarrestabile del mondo. A voler sintetizzare la posizione di Aubert,
possiamo ricorrere alle sue stesse parole: “Illuminato dalla fede, il cristiano
deve mirare a giocare” il “ruolo di attivatore” dei germi di sviluppo
disseminati nella realtà (o nelle realtà) stimolando, contemporaneamente, valori nuovi; non va dimenticato, però,
che il cristiano è anche il “lucido
contestatore degli aspetti negativi” insiti nelle opportunità del tempo in
cui vive. Non si irrigidisce, cioè, in un solo atteggiamento: attiva quanto v’è di positivo intorno a
lui, stimola la nascita di nuovi
valori e si pone anche come lucido
contestatore di quanto non gioca in favore dell’uomo e della sua dignità.
La
teologia deve ribadire, per dirla con Merleau – Ponty, che l’autentico cristiano è sempre un elemento di disturbo per ogni potere
costituito e finanche per ogni rivoluzionario perché l’escatologia guarda molto più lontano dell’utopia. Jürgen
Moltmann parte dal presupposto che l’unico
vero problema della teologia cristiana sia quello del futuro; mentre, però, gli spiriti
dell’utopia sono creature nostre, gli spiriti
dell’escatologia fondano su Cristo. Le parole della speranza cristiana –
scrive il teologo tedesco – “non sono il risultato di esperienze bensì la
condizione perché nuove esperienze siano possibili”. Nell’Apocalisse Dio dice
che ‘fa nuove tutte le cose’. Moltmann sostiene che se la vita cristiana deve riconoscere priorità
alla fede, deve però concedere il
primato alla speranza: “Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera
vita, ma soltanto la speranza ve lo mantiene”.
La
teologia deve avvertire sempre più la necessità di distinguere utopia da escatologia ed una utopia
negativa da una positiva. Paolo
VI, nella lettera Octogesima adveniens, definiva negativa l’utopia assunta come
alibi per disertare la storia e positiva quella che si configura come immaginazione prospettica e che lascia
percepire le possibilità inscritte nel presente al fine di indirizzarci “verso
un futuro nuovo, attraverso la fiducia” riposta nelle “forze inventive dello
spirito e del cuore” (n. 37). Si tratta di far agire lo Spirito del Signore “che anima l’uomo rinnovato nel Cristo” e che
“scompiglia senza posa gli orizzonti” nei quali la nostra intelligenza vuole
pigramente pacificarsi e “sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri” la
nostra azione. Lo Spirito anima il
cristiano per spingerlo nel futuro nuovo!
Nocke sostiene che la questione del
futuro si pone con urgenza finendo col costituire la questione del senso della vita in questo mondo e proponendosi alla fede cristiana in
forma di domanda: “in che misura la speranza cristiana promette speranza per la
storia dell’umanità?”. Il quesito di Nocke sfida, senza vie di fuga, la
teologia futura. I cristiani dovranno avere sempre presente che, come dice Metz,
sono gli operai che edificano
l’avvenire e non i semplici interpreti di
esso.
Si
tratta, per Pareyson, di “fondare una nuova cultura cristiana” inaugurando
‘nuove modalità’ per ritrovare il cristianesimo. Se si trattasse, precisa,
soltanto di “riesumare un antichissimo frammento di tempo” sarebbe una impresa
inutile; riproporre contenuti della nostra fede non potrà mai risolversi in un’operazione di archeologia concettuale/dogmatica.
Gioca a favore del cristiano, secondo Pareyson, il fatto che “la nuova cultura
dipende anche da lui”. Qualcuno ammette, come fa Bellet, che – in un certo
senso – il vangelo è vecchio! Può
esso, nel luogo inaugurale della
cultura odierna, aprire un nuovo spazio
di vita? Bellet risponde affermativamente perché convinto del fatto che “il
tempo delle cose che più contano non è comandato dalla cronologia” e riproporre
la ‘lezione evangelica’ si dà come feconda “ripetizione dell’inaudito”. A tutto
questo, però, va anteposto un suggerimento di Schillebeeckx: non si deve
pensare la Trascendenza
di Dio proiettandola nell’eternità intesa come un passato reso eterno; piuttosto, Dio è Colui che verrà. L’ermeneutica
biblica deve avere sempre un occhio proteso al futuro; non bisogna, conclude
Schillebeeckx, “guardare indietro alla Bibbia, ma guardare avanti con la Bibbia ”.
Alfaro
sostiene che se la Chiesa
vuole essere “segno efficace di speranza” per questo mondo non può non proporsi
come “comunità in esodo verso il futuro di Dio”. D’altro canto, afferma
Pareyson, “l’esperienza fondamentale dell’uomo è un’esperienza di
trascendenza”. Il che, ribadisco, non equivale a disinteresse per la realtà.
Come precisa Schillebeeckx, piuttosto, la ‘verifica della fede cristiana’ trova
il proprio principio nel fatto che i cristiani “mostrano nella loro vita
pratica di possedere una speranza capace di
trasformare il mondo già sin da ora”. La vita
presente, per Agostino, è una speranza!
Questo deve far emergere costantemente la teologia cattolica. I teologi
illustrino le ‘peculiarità’ della speranza
cristiana, poiché le tematiche religiose (o spiritualiste) contemporanee
tendono sempre più – come scrive Carmelo Dotolo – a “preferire l’esperienza
anonima del sacro come via verso l’Assoluto”. Timothy Radcliffe, ex Maestro
Generale dei Domenicani, affermava che, a caratterizzare il nostro tempo è, da
un lato, lo scetticismo di chi non
riconosce l’importanza delle parole
teologiche e, dall’altro, l’intolleranza
di chi crede che a dire tutto sono le parole
secolari.
La
modernità ha secolarizzato la salvezza ritenendola
compito esclusivamente intramondano.
Si è, per dirla con Rosenzweig, compreso il divino come autoproiezione dell’umano nel cielo del mito. Per il nostro autore,
se la Rivelazione
si è un giorno incrostata in una realtà
storica, questa ne è talmente colorata
che ormai non la si può più riscrivere come quelle realtà che non hanno mai conosciuto il peso
dell’idea di Rivelazione carica di senso.
Lo storico Ēmile Poulat, afferma che l’uomo contemporaneo, se conserva la
possibilità di restare religioso, di esserlo nuovamente, fa i conti con
l’essere collocato in quadri sociali e
mentali di cultura, di attività, di valutazione che non sono più religiosi;
dunque, conclude, a finire non è il cristianesimo, bensì un certo spirito cristiano; finisce una storia, non la storia.
De Lubac poneva una domanda: “Di ogni situazione storica si può intravedere una
conclusione; ma chi ci mostrerà la Conclusione ?”. Se la teologia riaprirà a ‘tempo
pieno’ l’ufficio escatologico,
nessuno pretenderà di mostrare la Conclusione
che non è il futuro sognato dall’uomo,
ma il Futuro disegnato da Dio.
Non
ci può bastare l’atteggiamento di chi, come Henri Desrosche usava fare con i
suoi allievi, invita a definire ‘religione’ soltanto ciò che la società ritiene
essere tale. Il cristianesimo, infatti, deve dialogare con il ‘nostro tempo’, non conformarsi ad esso. Paul M. van Buren, chiedeva: chi ci libererà
dai limiti, dalle ingiustizie e finanche dalla morte? Si deve, continuava,
solidarizzare con quanti, aderendo ai vari movimenti di liberazione, gridano
“la loro rabbia e frustrazione” per i mali del mondo; tuttavia, a liberare, può
essere soltanto ciò che è “impossibile ed incoerente, empiricamente
insignificante ed irrilevante”. Van Buren fa riferimento al Dio che è grazia e conclude: “È questo
che noi tutti dobbiamo ricordare, se ci deve essere una teologia oggi”. Essa
deve ricordare all’uomo che la salvezza è dono gratuito di Dio. Parole
inattuali? La costante dell’uomo
religioso, per van Der Leeuw, è di andare oltre le minuzie della vita
perché ad essa “cerca di trovare un senso” e la “organizza (…) in vista di un
insieme significativo”. L’uomo che agisce in questo modo è certo che “qualche cosa” – che lo studioso chiama
l’estraneo, il totalmente Altro – “viene verso
di lui sulla strada”.
Se
vorremo abitare umanamente il mondo, occorrerà una analisi assai critica dei progetti orizzontali perché sappiamo di
essere cercati dal Trascendente.
Guida sicura o forza frenante, per van der Leeuw nell’esperienza religiosa vissuta “una
potenza estranea, del tutto diversa,
si inserisce nella vita” e fa passare
dallo stupore alla fede. Non si sta dicendo che la ragione, qui, non meriti diritto di cittadinanza; Gregorio di Nissa sosteneva addirittura che, se un
uomo non ha rispetto per la ragione,
non merita di chiamarsi cristiano. Giustino affermava che la Ragione divenne uomo e si chiamò Gesù Cristo. Proprio perché la teologia incoraggia
una fede pensata e pensante, deve dialogare con chi
la contesta. Dovere del teologo è allestire una dialettica animata, non animosa!
Merleau – Ponty invitava a dialogare con
le filosofie che negano Dio perché, spiegava, il nostro rapporto con il vero passa attraverso gli altri; se non
vi andiamo con chi si contrappone al nostro credo, non è al vero che andiamo.
La filosofia, però, non deve disconoscere gli indubbi meriti del cristianesimo.
Gilson disse che l’intervento della Rivelazione tra noi e i greci è un fatto: ha modificato profondamente le condizioni nella quali la
ragione deve operare. Nietzsche sosteneva che nessuna filosofia cristiana
sarebbe stata possibile senza ‘platonismo’ ed ‘aristotelismo’, ma è anche vero
che quei due nutrimenti non avrebbero sviluppato tutte le loro potenzialità restando
orfani delle provocazioni cristiane.
Per
Mounier, a minacciare il cristianesimo non è più l’eresia, come avveniva quando ancora i dibattiti teologici
appassionavano; pericoli, ormai, vengono da una silenziosa apostasia! Finisce,
per Mounier, non il cristianesimo, ma
la cristianità occidentale ed
attendiamo altre forme di cristianesimo da nuovi strati sociali e da innesti
extraeuropei Per il filosofo, il cristianesimo non è più solo, ma circondato da morali, eroismo e santità nuove; d’altro canto, non è
riuscito a legarsi intimamente al
mondo moderno come col mondo medioevale. Dobbiamo piangere sullo status quo? No! Essere cristiani è aver memoria del futuro: ricordare che
ci è stata fatta una promessa
escatologica. Sottoscrivo questa tesi di Mounier: “se si aderisce troppo
alla storia quale è, si finisce per non costruire più la storia quale deve
essere”. Sappiamo qual è e quale è stata la storia del cristianesimo? Bene,
ombre e luci a parte, cerchiamo di comprendere cosa dovrà essere! Un fecondo elemento
di discussione è sorto in Tanzania, nel 1976, al primo Congresso dei teologi e
teologhe del Terzo Mondo: si chiedeva di interpretare
la Parola di
Dio in relazione alla nostra propria realtà. Nei paesi poveri, la Parola, pur conservando la propria identità
cattolica, dice anche altro!
Il
sacerdote Raimon Panikkar, filosofo e scienziato, si disse, essendo nato da
madre spagnola cattolica e padre indiano indù, al 100% cattolico ed al 100%
indù. Seminando nel solco di tale consapevolezza, si è domandato: “c’è bisogno
di essere spiritualmente semita e intellettualmente greco per essere cristiano?”.
Ammette che ‘queste due nozioni’ hanno una vastità tale da coprire ‘una grande
varietà di interpretazioni’ ma resta, conclude, che entrambe “non esauriscono
l’umano”. Panikkar auspica che il linguaggio cristiano venga parlato
‘liberamente’, ‘creativamente’ fuori dall’Occidente in quanto una teologia
cristiana convincente non può darsi
“senza prendere in considerazione il più ampio spettro delle differenti tradizioni
religiose del mondo”. Riconosciuti i meriti delle giovani Chiese ricche di
nuova linfa per la cristianità occidentale, va detto che già il Vaticano II
aveva aperto simili prospettive. La
Gaudium et Spes, infatti, apre con l’invito ai
cristiani a condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce
degli uomini di oggi”. Dobbiamo unire le istanze provenienti dalle comunità
cristiane del Terzo Mondo e gli insegnamenti conciliari se la teologia in
futuro vuol dire qualcosa meritevole di ascolto. Dal Brasile giunge alla
teologia occidentale l’invito a ripensare Dio in termini di freschezza,
quotidianità. Maria de Soledade da Silva, riconosce di aver appreso dalla Teologia della liberazione a vedere piccoli segni del Regno, cose belle nascoste nell’immondizia della
società. È rimasta fortemente impressionata da quanto disse un suo amico
analfabeta: ‘Come non vivo senza l’aria che respiro, così non vivo senza Dio
nella mia vita’. Se la teologia saprà suscitare simili posizioni, avrà fatto un
passo avanti. Insegnarci a vedere i piccoli
segni del Regno ovunque è il compito della futura teologia. La nostra piena
umanizzazione va costruita attingendo all’antropologia cristiana mirabilmente
sintetizzata in una frase del poeta Paul Claudel: Dovremmo somigliare sempre più al Figlio Gesù tanto che il Padre non
saprebbe più come distinguerci. La teologia deve mostrare sempre più le ragioni
che le fanno dire – con Paolo VI, che il cristianesimo non è facile, ma felice.
Siamo
nel già e non ancora: il Regno di Dio è tra noi, ma non pienamente
realizzato. Gregorio di Nissa sosteneva che quanto qui attendiamo lo
sperimenteremo personalmente e
“mostrerà la nullità di qualsiasi discorso” attuale teso nello sforzo di
rappresentarci “il nostro futuro”. Marcel, infatti, non esita a ricordarci che,
oltre al problema che comprendiamo c’è
il mistero che ci comprende e questo
può svelarsi solo per la sovrana, libera volontà divina. Mauriac, dal canto
suo, tentava di rappresentarsi il ‘paradiso cristiano’, ma doveva ammettere che
il “possesso fuori dallo spazio e dal tempo di quell’amore in cui ho più
fiducia che nella mia stessa vita, è letteralmente inimmaginabile, sfugge alla
capacità della vita umana, a ogni approssimazione”. Ci è concessa appena una
inesausta tensione escatologicamente
orientata che l’esercizio della teologia può e deve pensare. Una tensione che interessa l’intero creato.
Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive: “la creazione attende (apokaradokía) con gran desiderio la
manifestazione dei figli di Dio” (8, 19). Lutero, nel 1516, a proposito della expectatio creaturae, precisò che,
mentre i filosofi si concentrano sul ‘presente delle cose’ riflettendo su
qualità e caratteri, Paolo orienta lo sguardo
teologico “a quello che esse saranno in futuro. Infatti egli (…) parla (…)
usando un termine teologico nuovo e singolare” dell’attesa del creato. Il
teologo deve allenare lo sguardo a cogliere l’intrinseca tensione escatologica. La Speranza dell’attesa cosmica è ammissibile, per
Moltmann, in quanto, quella cristiana, è speranza
rammemorata; riferita, cioè, “alla memoria della passione di Cristo” la Cui Risurrezione
fa comprendere che “nella sua fine sulla croce va trovato il nuovo inizio”.
Cristo, vincendo la morte, mostra che “l’ordine di questo mondo mortale è stato
stravolto”. Non va dimenticato – sottolinea il teologo tedesco – che nella Risurrezione si rivela “non l’eternità
del cielo, ma il futuro di quella stessa terra in cui si innalza la sua croce”.
Immaginare il futuro secondo le linee guida dell’escatologia lascia pensare ai
fini della Storia e non – allucinati ed impauriti – alla fine della Storia.
In un tempo come il nostro, nel quale è lecito, come
fa Tillard, chiedersi se siamo gli ultimi
cristiani, non esagera Jäger a parlare del coraggio di fare teologia. Se si dà come ‘pensare di Dio’ si
configura, radicandosi nel ‘nostro tempo’, in una lezione di speranza. Dio va trovato, però, precisa Jäger, in situazione di difficoltà e non posto,
con artifici teorici, in collocazioni di senso tranquille. La realtà di Dio, conclude, “è
l’inquietudine dell’odierna teologia”. Essa, se vuole essere onesta, non deve
operare come se avesse Dio in tasca! Pensare
e ripensare Dio tra sfide ed opportunità: ecco l’esercizio
che assicura un futuro alla riflessione
teologica. Von Balthasar aveva
ragione: la teologia deve essere una occupazione
perenne; infatti, come la manna del
deserto è commestibile per un giorno, così non si può trasmettere una
riflessione teologica che non si rinnovi, pur nella fedeltà agli immutabili
principi cristiani. Si tratta di animare una creatività interna alla fedeltà alla Parola. Lingua, immagini,
concetti – continuava von Balthasar – sono il vaso che contiene la rivelazione cristiana; esso, però, può
impolverarsi e finanche sbriciolarsi. Garantire alla fede ed alla riflessione
sistematica su di essa “il più giovanile vigore”, impone che tutto venga
riferito a quanto è “ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”.
Il futuro della teologia è garantito
dal ‘giovanile vigore’ attingibile soltanto alla Rivelazione che attende di
realizzare, a partire dal già in cui
siamo, il non ancora promesso. Dire,
come faceva San Giovanni della Croce, che in Cristo Dio ci ha dato la
Sua Parola definitiva, impone un lavoro,
lungo i sentieri del tempo, individuato da Antonio Piolanti: mentre lo storico
lavora per assegnare a Gesù un posto
nella storia, il cristiano opera perché sia la storia ad avere un posto in
Cristo ottenendo, così, la realizzazione
escatologica della stessa. Si deve promuovere la cristificazione del ‘cosmo’ e dell’‘uomo’. In futuro la teologia
lavori alacremente per convertire la Cristofobia (Weiler) in Cristophilìa: dalla paura di
Cristo, alla gioia amorevole in con e per Cristo. Si
rivoluziona il proprio tempo solo lavorando ad una configurazione escatologico/cristica della storia.
Scrive Moltmann: chi spera in Cristo “non può più accettare la realtà come si presenta”.
È la speranza a fare in modo,
aggiunge, che la comunità cristiana
rimanga centro di costante movimento all’interno
di società che tendono,
maleficamente, a “cristallizzarsi in una ‘città permanente’”. Una teologia che
abbia a cuore il futuro torna all’antica lezione di Giovanni Crisostomo: il
cristiano dovrà rendere conto del mondo intero! Chi è il cristiano che guarda positivamente
al futuro? Provo a rispondere con Karl Rahner: non aspirava, disse, che a
diventare un cristiano per il quale il
cristianesimo è una cosa seria, capace
di innestarsi come forza vitale nel mondo contemporaneo, senza complessi; muovendo
da queste premesse, il cristiano, continuava Rahner, deve ammettere alcuni
problemi sui quali riflettere.
Concludeva: “Se questo lo si vuol chiamare teologia, allora va bene”. Il
cristianesimo era una ‘cosa seria’ anche per Bonhoeffer. Confessò che sapere
cosa fossero veramente nel Novecento ‘Cristo
ed il Cristianesimo’ è “il problema che non mi lascia tranquillo”. Siamo nell’epoca del disincanto, della complessità e se la sociologa Rosa
Alberoni parla della cacciata di Cristo,
Massimo Introvigne riflette sul dramma
dell’Europa senza Cristo. Difficoltà in aumento e minacce sempre più gravi
alla nostra fede, tuttavia, non devono scoraggiarci dal cercare di offrire,
come si legge nel Nuovo Testamento, le ‘ragioni della nostra speranza’. Tutti
faremo i conti con – per dirla con Nietzsche – quel “terribile punto interrogativo che si chiama cristianesimo”, ma in
relazione a nuove o riesumate proposte religiose/spiritualiste/magico/ esoteriche.
C’è chi lamenta che la teologia dovrà agire, a causa degli attacchi subiti dalle
altre forme di sapere, con strumenti devitalizzati. E se fosse? Inviterei a
seguire la strada tracciata dal filosofo e teologo berlinese Helmut Gollwitzer:
ascoltare “insieme a tanti altri messaggi vecchi e nuovi” quanto ci comunica il
cristianesimo perché nelle vicende di Gesù non si fa riferimento a dei o ad un
Dio “sopra o al di fuori della nostra vita”, bensì viene svelata in Lui “senza
abbellimenti la miseria e la povertà della nostra condizione umana”.
Qui non ci viene chiesto di “saltare oltre la nostra
situazione”, ma di trovare all’interno di
essa “un soffio di speranza”. Soltanto un po’ per volta, scrive Gollwitzer,
scopriamo il significato che ha per noi
Gesù. Il fatto è che, ammette il nostro autore, le grandi costruzioni dottrinali della tradizione valgono soltanto per
quegli uomini vissuti “in un mondo pieno di Dio”; noi, invece, possiamo pensare e dire Dio soltanto restando “fedeli (…) alla nostra povertà” e
“costruire la nostra comprensione
della fede cristiana soltanto a partire dai suoi elementi più semplici”. La
figura di Gesù indica che dobbiamo
amare il nostro prossimo e promette un
amore vero per noi. Per Gollwitzer, dunque, questa è “la nostra modesta
teologia e cristologia: solo una capanna in paragone alle grandi costruzioni
del passato, ma pur sempre una capanna in cui si può vivere”. Se i voluminosi
trattati di dogmatica del passato vantavano sicure descrizioni dell’universo
dal punto di vista di Dio, a noi restano “un piccolo paletto indicatore, un
sottile raggio di luce; è poco ma è già qualcosa che ci permette di proseguire
a tastoni la nostra vita non totalmente al buio”.
Dobbiamo farci bastare poca luce, una esigua
‘speranza’ per guardare avanti, direbbe Boccioni, fino allo scoppio delle pupille. Un
insegnamento viene da una storiella. Quattro candele tengono un amaro dialogo.
La prima, il cui nome è Pace, lamenta
il disinteresse ad essa mostrato dagli uomini e sa che non può che spegnersi.
La seconda, Fede, piange ed è
prossima a non brillare più a causa della sua inutilità. La terza, Amore, afferma che gli uomini, ormai,
non comprendono più la sua importanza in quanto odiano finanche le persone più
care! Anch’essa si spegne e, nel frattempo, un bambino entra nella stanza dove
la semioscurità si è fatta minacciosa. Il piccolo ha paura ed esclama: ‘Ma cosa
fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio’. Scoppiò in lacrime e,
la quarta candela, inteneritasi, disse: ‘Non temere, non piangere: finché sarò
accesa, potremo sempre riaccendere le altre: io sono la Speranza ’.
Il bimbo si rincuorò, la prese e riaccese le altre candele.
La filosofa Graziella Berto ricorda una lezione di
Freud: solitudine, silenzio, oscurità sono in stretta connessione con l’angoscia infantile e la maggior parte degli esseri umani non se
ne libera del tutto. Nel terzo dei Tre
saggi sulla teoria sessuale, sottolinea la Berto , Freud sfiora il tema dell’angoscia
infantile dovuta all’oscurità: non è il buio ad angosciare, ma il fatto di non
poter vedere in esso la persona amata patendone, così, la ‘mancanza’. Non
indirizzandosi alla persona importante per noi, la libido si muta in angoscia.
Come era arrivato Freud a questa tesi? Racconta di aver sentito pronunciare
queste parole ad un bambino di tre anni in una stanza buia: ‘Zia, parla con me;
ho paura del buio’. La zia, rispose: ‘Ma a che serve? Così non mi vedi lo
stesso’. ‘Non fa nulla – ribatté il bambino, - se qualcuno parla c’è luce’. La luce, l’altro, la voce…(non sono
termini assiduamente frequentati in teologia?). Anche il buio dell’assenza di senso in cui sempre più precipita il
mondo alimenta la nostra angoscia. La teologia, dall’uomo post – moderno che si
dibatte incerto nella stanza buia del
presente, è invitata a parlare di Dio
senza preoccuparsi di farsi vedere.
Non si pensi che una visibilità eccessiva porti frutto; molto, se non tutto,
dipende da cosa avremo da dire, in quanto cristiani, a chi cerca il senso della
vita. L’altro attende una parola, ma
che sia ricca di senso: se si parla
c’è luce! Si legge in un passo evangelico: Signore,
da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna.
La parola teologica non tema il buio andando lungo i sentieri della storia, interrotti per quanto attiene la
comunicazione col Trascendente, e si
sforzi di aprire varchi al Dio che viene.
Sui sentieri interrotti se, per dirla
ancora con Heidegger, ormai solo un dio
ci può salvare, riattiviamo i collegamenti con l’Oltre trovando ragioni che mostrino che non un dio, ma il Dio
manifestatosi in Gesù di Nazareth salva!
Conclusione
Ha senso parlare di teologia ad un uomo sempre più
attento a conoscersi ossequiando parametri
scientifici, narcotizzato da seduzioni tecnologi che? In un mondo sempre
più popolato da vecchi credenti vanamente nostalgici ed uomini indifferenti, si può sperare che religione e fede cristiana
trovino spazio? Rispondo attingendo dal saggio di uno psicologo e
psicoterapeuta, Pasquale Ionata: Nati per
amare (Roma 2006).
In un mondo che tende sempre più a rimuovere la paura
di invecchiare, a deprezzare il patrimonio culturale e religioso di quanti sono
avanti negli anni, proprio l’anziano può insistere nel mostrare il senso e la
bellezza della comunicazione col
Verticale. Lars Tornstam, ricercatore svedese, ha coniato il termine gerotrascendenza.
In età avanzata, dice, si passa da una visione
materialistica e razionale ad una più disponibile verso la dimensione
cosmico/trascendentale. Ci si sente in comunione cosmica con lo spirito
dell’universo. L’anziano è meno attaccato alle cose…Scrive Ionata:
“forse non è un caso che il Vangelo di Luca si apra
con due figure di anziani, Simeone e Anna, che riconoscono e indicano Gesù come
Messia”. Anche la vita nascente è terreno fertile per le tematiche religiose.
Ionata ci ricorda che “Erikson ritiene che un’educazione dei bambini fondata sulla
religione e sulla tradizione rafforzi la fiducia originaria del bambino” e,
tale fiducia in Dio, “deve divenire la base
di ogni discorso su di Lui”.
Dalla nascita alla
vecchiaia, dunque, la religione non è
incompatibile con una ben condotta vita umana. Questo deve significare molto
per una teologia volta al futuro. Otto
Rank sosteneva che l’uomo
è un essere teologico, non biologico!
Pensava, perciò, che l’esigenza di
un’autentica ideologia religiosa è insita
nell’umana natura. Anche la scienza che si occupa dell’hardware umano innerva di speranza la teologia futura. Ionata
richiama l’attenzione sugli studi di Dean Hamer, biologo molecolare, che
inquadra la religione come un prodotto dell’evoluzione. Si è individuato un gene, che Hamer chiama The God Gene (gene di Dio), preposto, diremmo, all’attività religiosa.
Ramachandran sostiene vi siano ‘circuiti cerebrali’ che garantiscono
l’esperienza religiosa; strutture che definisce modulo di Dio. Il neuroscienziato canadese Michael Persinger,
stimolando magneticamente i lobi temporali di molti soggetti, ha rilevato che,
nell’80% dei casi, si prova la
sensazione di ‘non essere soli’, che si dia la ‘presenza di un altro’!
Il radiologo Andrei Newberg e lo psichiatra Eugene
d’Aquili, ricorrendo alla risonanza magnetica, hanno visto che meditazione e
preghiera attivano specifiche regioni cerebrali. L’istinto al divino è fondato neurobiologicamente? Matthew Halper è
l’autore del libro The God part of the brain (Dio parte del
cervello). Nel saggio spiega che la religiosità
consegue dal fatto che l’uomo – dotato di autocoscienza – sa di essere mortale e, per superare l’angoscia che
ne deriva, ha fatto in modo che si selezionasse un meccanismo cognitivo che convinca della superabilità della morte
fisica. Anche laddove c’è sconforto, manca consolazione, la scienza ritiene si
possano rinvenire – neurobiologicamente – tracce di Dio. Il famoso esperto di
psicotraumatologia, Bessel van der Kolk, ha esaminato migliaia di persone
scampate a “guerre, abusi, terremoti, terrorismo” ed ha rilevato “un aspetto
fondamentale della psicologia del traumatizzato, e cioè quella che lui chiama ‘Godforsaken’ (…), la sensazione tremenda
di essere abbandonati da Dio”. Questi non sono dati che, di per sé, possano
giustificare l’interesse futuro per la nostra ‘dimensione religiosa’ e meno che mai valere per accendere o
accrescere l’interesse per la fede
cristiana. Deve far comunque pensare il fatto che l’interesse per la religione non ha detto l’ultima parola nemmeno in
ambito scientifico e, con tutto questo, la teologia non può non confrontarsi.
Ci basti, per ora, quello che dice Ionata: “la religione, e in particolare la
cristiana, offre un’interpretazione della vita e una sua regola imperniata
interamente sull’amore”.
E se l’amore
– ed è certo il caso di quello cristiano – spinge a dire all’altro tu non morrai (Marcel), la speranza
cristiana – che pone tutto entro la categoria della pienezza di vita (cioè, della sua destinazione escatologica), contiene quanto vale la pena pensare ora ed in futuro.
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