Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Teologia: Riflessioni


O Signore Dio mio, mai io ti ho visto, non conosco il tuo volto. Insegnami a cercarti e mostrati quando ti cerco: non posso cercarti se tu non mi insegni, né trovarti se non ti manifesti. Che io ti cerchi desiderandoti, che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti
sant’anselmo

Don Luigi Giussani invitava ad avere una ragione aperta come “una finestra spalancata su una realtà nella quale” l’uomo “non ha mai finito di entrare”. Il mistero cristiano sarà sempre un passo avanti allo sforzo di farne la nostra realtà. Ci riterremo sempre, perciò, perennemente on the road. Credere è un esercizio relazionale e, affermava de Saint – Exupéry, con nessuno, nemmeno con Dio, si può essere solidali se non si inaugurano legami. La ‘strada’, l’‘annuncio’, a suo dire, sono interdipendenti; amare Dio, diceva, significa andarsene, zoppicando, per la via per portarLo agli uomini. Tutti noi, insieme, aggiungeva, siamo il passaggio per Dio che prende e si serve – “per un istante” - della generazione alla quale apparteniamo per manifestarsi. Fare questi ‘bei discorsi’ è cercare il senso della vita. Gandhi pure affermava che realizzare il regno di Dio sulla terra è precisamente quel senso che cerchiamo. Si deve passare, spiegava, da una vita asservita all’egoismo, alla violenza ed all’irrazionalità, ad una vita intrisa di amore, fraternità, libertà e ragione.
Questi temi devono stare ai primi posti nell’agenda del teologo contemporaneo, affiancati dalla preoccupazione riguardo al linguaggio (o ai linguaggi) opportuno/i per affrontarli. Affrontare la questione del linguaggio riguardo al come ‘comunicare la fede’ nel mondo odierno, impone la previa convinzione che l’intelligenza della Parola è compito comunitario, non affidabile all’acume di un solo teologo. La Parola genera inevitabilmente una ermeneutica ecclesiale. Gregorio Magno dichiarò che quanto delle Scritture gli appariva incomprensibile, si illuminava esaminandolo assieme ai fratelli. In Moralia, riprendendo il tema, scrisse: “L’intelligenza della Parola spesso allo stesso maestro della comunità viene concessa per la santità del fedele che lo ascolta”(30, 27.81). Per gli antichi teologi l’apporto dei fedeli era necessario anche nelle faccende che competevano all’autorità ecclesiastica. Significativa l’esortazione che Cipriano di Cartagine rivolgeva ad un vescovo: nihil sine consilio vestro et consensus plebis, non emettere deliberazioni senza previo ascolto del parere del popolo! L’altro è sempre implicato in tutte le forme di relazione con l’Altro. Origene, nelle Omelie sulla Genesi, chiede un aiuto ai fedeli: “Pregate per noi, fratelli, perché i nostri discorsi non siano falsi”(12, 1).

Un tempo si poneva maggiore attenzione sul dettato biblico e meno su teorie teologiche impregnate di saperi specializzati (filosofia, psicologia…). Basilio di Cesarea, infatti, sostenne che erano proprio le difficoltà emergenti dalla Scrittura a rendere complicata la penetrazione delle dottrine cristiane (Trattato sullo Spirito Santo, 27, 66).
Vigilare su quanto realmente insegnano le Scritture era, perciò, carità verso i credenti più deboli intellettualmente. Lasciare la Parola nelle mani di persone disoneste era ed è pericoloso. Ambrogio di Milano, nel Trattato sul Vangelo di Luca, traccia parole di fuoco: “Anche il diavolo usa testimonianze della Scrittura, non per insegnare, ma per imbrogliare e ingannare”(4, 26). Questo impone al teologo di invitare i cristiani ad un rapporto diretto con la Bibbia, con l’ausilio di manuali attendibili e seguendo le direttive del Magistero. Non si tratta di esercitazioni accademiche, ma dell’obbligo riguardante tutti i credenti di salvaguardare la Parola da sofisticazioni. Quello che conta, però, è di attuare questo movimento: dalla fede sincera alla maggiore conoscenza della Parola per rafforzare la fede sincera che, nutrita di scienza teologica, evita di svilirsi in fede ingenua.
Lo sforzo intellettuale di chi si occupa di questa scienza, che ci vuole totalmente compromessi con essa, ha come fine quello di offrire un servizio. Vorrei ci guidasse una lezione che Origene inserì nelle Omelie sul Levitico: “Da questa dottrina umana (grammatica, retorica, dialettica) nulla si può ricavare per il sacrificio; ma il parlare brillante, lo splendore dell’eloquenza e l’arte del discutere ci è comandato di impiegarli al servizio della parola di Dio”(5, 7). Il teologo deve insegnare come mettere a servizio della migliore intelligenza della fede i saperi mondani, non disprezzarli.

Chi difende la propria fede con argomenti, con argomenti può essere confutato – R. Hamerling

Le dottrine umane vanno indagate senza farne dei fini; le nostre parole devono essere strumenti della Parola alla quale non va reso un omaggio meramente intellettuale; per convertire il ‘fare teologia’ in servizio, dobbiamo animare una ortoprassi: tradurre in vissuto autenticamente cristiano quanto delle Scritture ci è divenuto chiaro. Siamo scolari ed abbiamo di fronte a noi la cattedra sulla quale siede il solo nostro Maestro. Agostino ha disegnato virtualmente l’aula nella quale dobbiamo ritrovarci: “Il legno della croce (…) diventò la cattedra del maestro che insegna”(Commento al Vangelo di Giovanni, 119, 2).
Siamo abituati, ahimé!, a seguire quanto è generalmente ritenuto degno di attenzione e ragioniamo ossequiando quanto appare ovvio, consueto ai più. Se vogliamo cambiare le nostre categorie di pensiero, ci tocca ragionare – per dirla con Paolo – avendo gli stessi pensieri di Cristo che, ricordava Tertulliano, disse di sé ‘Io sono la Verità’: “Cristo nostro Signore chiamò se stesso verità, non consuetudine”(Sul dovere delle vergini di portare il velo, 1, 1 – 3). Veritatem non consuetudinem. Ragionare teologica – mente significa avere una prospettiva – altra entro la quale considerare le cose del mondo. Si tratta di pensare con i pensieri di un Altro, ma di renderli visibili in gesti personali e personalizzanti.  

La fede è un senso che ci permette di leggere il significato del mondo – J. Steinmann

Vorrei suggerire di non sottovalutare l’Antico Testamento, il retroterra ebraico del Vangelo. È necessario perché alla paziente pedagogia di Dio deve corrispondere la nostra pazienza ermeneutica imprescindibile per comprendere il senso del lungo cammino nel quale si è snodata la Rivelazione . Cristo diverrà ancora più familiare dopo aver studiato quanto, apparentemente, pare a Lui estraneo. Aelredo di Rievaulx sostenne che la Bibbia consiste in un insieme di affermazioni e precetti diversi che, tuttavia, si armonizzano in base al principio ‘una è la fede’. I diversi insegnamenti, i molti precetti, alla fine “emettono una dolcissima melodia nel cuore dei fedeli” e nelle loro orecchie  (De oneribus 31). Come un fine musicista, il teologo deve educare a percepire armonia laddove un ascoltatore impreparato coglie solo insensate dissonanze. Per Bonaventura non “può conoscere le cose future colui che non conosce quelle passate. Se (…) non conosco di quale albero è il seme, non posso conoscere quale albero nascerà” (Sull’Esamerone, 15, 11). L’albero cristiano nascerà ben radicato nei nostri cuori se comprenderemo il seme ebraico dal quale origina. Da lì discendono, poi, tutte le forme che assume, fino a noi, la teologia. Ha ragione Ngindu Mushete nel dire, esponendo i tratti caratteristici della black theology, che “non c’è un mondo, ma dei mondi, non una storia, ma delle storie, non una teologia, ma delle teologie”; tuttavia, non ha torto nemmeno Hemel nel dire che la teologia è ‘il tutto nel frammento’.
Spiega: “In ogni singola branca teologica, la teologia è (…) completamente e assolutamente teologia”. Questa unione profonda, in tutta onestà, precede l’impianto teologico in quanto elemento costitutivo del cristianesimo stesso. Come disse Edith Stein, “i misteri del cristianesimo costituiscono un tutto indivisibile. Quando si è penetrati in uno, si comprendono tutti gli altri”. Raccomando, perciò, di frequentare pure il pensiero dei teologi più vicini alla propria sensibilità, ma sempre tenendo vivo il riferimento alla Bibbia per verificare se coincidono le parole e La Parola. Immancabile deve essere, in ogni caso, il riferimento alle fonti della nostra fede. Ce lo insegna San Francesco di Assisi del quale, negli Opuscula Sancti Patris Francisci Assisiensis, si legge questo istruttivo pensiero: “Nessuno mi mostrava cosa dovevo fare, ma lo stesso Altissimo mi rivelò che dovevo vivere secondo la norma del santo vangelo”. Non è da noi che dobbiamo estrarre i succhi vitali della vita cristiana, ma da quanto ci è stato rivelato.
Le Scritture, questo il teologo deve mostrarlo  continuamente, non presentano concetti teologici, ma li si trova profondamente intrecciati con storie di vita, con le storie di singoli e di popoli. Basilio di Cesarea aveva, a tal proposito, idee chiare e condivisibili. Scriveva nelle Omelie sull’Esamerone: “La dottrina teologica si trova sempre misteriosamente mescolata nel racconto biblico” (6, 2). Se il pensiero di un teologo non è fondato sul misterioso intreccio di dottrina teologica e racconto biblico deve suscitare in noi più di una perplessità.

Lo scrittore Léon Bloy – che si diceva assettato ed affamato dell’Amore di Dio – ammise che la sola infelicità consiste nel non essere santi! L’esercizio della fede deve santificarci, spingerci a stare dalla parte di Dio. Senza questo obiettivo ci si occupa di teologia solo per elargire parole parlate e non parlanti (Merleau – Ponty). Bloy rimpiangeva di non essere divenuto ‘un santo’, un ‘taumaturgo’. Sentiva di non essere diventato, insomma, ciò che Dio voleva da lui e, concludeva amareggiato, “eccomi con in mano solo della carta”. Se con la conoscenza teologica tentiamo di parlare di Dio, con la fede tradotta in carità, parliamo a Dio. Le parole devono – in quanto necessarie – lasciar trasparire la loro esposizione alla Parola e possono farlo soltanto se davvero producono frutto, se sono relativamente efficaci perché riflesso della Parola che è assolutamente efficace: “al servo della Parola (Logos) – ricordava Gregorio di Nazianzo predicando sulla Pentecoste – abbisogna la parola (logos), e fra le parole” dobbiamo eleggere “quelle che meglio si accordano con la circostanza” (Discorsi, 41, 1).
Dobbiamo trovare sempre, occupandoci di teologia, una parola che testimoni di essere figlia della Parola. Il linguaggio della fede deve essere vivo, produttivo. Non troviamo un solo passo biblico nel quale dire e agire divino stiano separati. Per fare di questa costante il nostro modo di essere cristiano, annotiamo quanto diceva Agostino in Commento ai salmi: in ipso facto, non solum in dicto. Non solo in una frase biblica, ma nello stesso fatto si deve cercare il mistero (68, 2, 6). Il dire di Dio non viene mai tradito dai fatti. La stessa coincidenza tra gesto e parola dobbiamo, fin dove ci è consentito, realizzare nel vivere da cristiani.

Mi rimproverarono, in una conferenza, quando toccai il tema ‘parola e verità’, che miravo troppo in alto. Devo dire, però, che un conto è l’umiltà con la quale vanno usate le nostre facoltà intellettuali e linguistiche, un altro è l’umiliazione alla quale – una forma patologica di devozione – le vorrebbe sottoporre. Quello che importa è comprendere che noi facciamo parlare la Verità rivelata e non la nostra verità. Nel primo caso, si sceglie un giogo leggero e portato con gioia. Ancora commentando i salmi, Agostino insegnava: “Chi intende parlare secondo verità, non incontra difficoltà: lascia parlare la verità che parla senza fatica”(cit., 139,13). Il teologo non fa la verità, ma è il vetro che si preoccupa di tenersi pulito per lasciar passare la luce. La verità cristiana va lasciata apparire senza vergogna perché mai essa sarà, per noi, occasione di vergogna; come disse Tertulliano, infatti, nihil veritas erubescit nisi solummodo abscondi, la verità non arrossisce di nulla se non di nascondersi. La Verità va lasciata parlare attraverso noi; la verità fa fatica a parlare solo quando non ha un Fondamento credibile. Fare teologia è non scadere in un amletismo tinto di pseudomisticismo, o di qualunquismo morale. Il vero teologo assume questa regola: veritas sine labore loquitur. Essere fedeli alla Verità ci farà meritere le parole che Gregorio il Taumaturgo scelse per parlare del suo maestro Origene: aveva da Dio ricevuto il dono (“grandissimo”), il privilegio (“eccezionale”) di “essere presso i mortali l’interprete della Parola del Creatore, di intendere i precetti del Signore quasi fosse Dio medesimo a parlargli, e di spiegarli agli uomini adeguandosi alle loro possibilità di percepire”. Anche se ci sentiamo ‘la bocca di Dio’, l’umiltà teologica impone la carità di spiegare la Parola agli altri – e questa lezione è fondamentale – adeguandosi alle loro possibilità di percepire. Come dicevano i medievali, quidquid recipitur ad modum recipienti recipitur, qualsiasi cosa si recepisce, si recepisce a seconda di colui che la recepisce.

Uno degli sforzi che il teologo deve compiere è quello di tentare di guarire l’uomo contemporaneo da una particolare forma di ‘amnesia’. Una patologia, in verità, che affliggeva anche gli antichi ebrei. Nel Libro del Profeta Baruc, al capitolo 4, versetto 8, infatti, si legge un ammonimento: avete dimenticato chi vi ha allevati, il Dio eterno. Ilario di Poitiers, commentando il Salmo 118, erompeva in una lamentela analoga: “Ma vi è qualcosa di così difficile, una fatica così ardua, che trovare un uomo il quale si ricordi che è stato ‘fatto’ secondo ‘l’immagine e la somiglianza’ di Dio?”. Se è arduo guarire questa ‘amnesia’ negli uomini del nostro tempo, ancora più difficile è fare accettare loro che, malgrado la dimenticanza lamentata sia spesso volontaria, Dio – per dirla con Cirillo di Gerusalemme – “concede un tale perdono, una tale quantità di grazie al punto di esser perfino chiamato Padre”(Catechesi mistagogiche, 5, 11). D’altronde, è difficile sentirsi perdonati, aver bisogno di perdono quando si ritiene di non aver recato offesa a chicchessia. Dio, per aiutarci a recuperare la memoria della nostra identità è diventato uomo, si è incarnato! Dio stesso – dice Rahner – è uomo e lo rimane in eterno e, dunque, in eterno noi siamo il mistero di Dio espresso. Sì, ci aiuta il fatto che Dio ha espresso il Suo mistero in forma umana: rende l’uomo teomorfo e se stesso antropomorfo! Rahner, perciò, ritiene che Dio non possa trovarsi che nell’uomo Cristo e nell’uomo in genere. Con l’Antico Testamento, aggiunge il teologo tedesco, era giustificato dire ‘noi siamo qui, Lui in cielo’; la venuta di Cristo, invece, impone di ammettere che “egli è esattamente dove siamo noi e che solo là deve essere trovato”. Se il teologo vuole sconfiggere l’amnesia dell’uomo contemporaneo, dimentico della sua identità di ‘figlio di Dio’, sappia mostrargli Dio in Cristo che è – in quanto uomo – il mistero di Dio espresso.

Sento il dovere di avvisare che lo studio della teologia non eliminerà le ‘zone d’ombra’ che circondano – inquietandola non poco – la nostra anima. I Padri della Chiesa riconoscevano i limiti della loro teologia, ma avevano anche la forza di non confondere l’umiltà dell’intelligenza con la sua umiliazione. Quando Ilario di Poitiers faticava a meditare il mistero della Trinità non si avviliva e non scoraggiava chi era immerso nelle sue stesse fatiche: “so bene che tu non ci arriverai mai” – scriveva ad un interlocutore – “e tuttavia mi rallegro dei progressi che farai. In realtà, colui che con pietà persegue l’infinito sa bene che non lo raggiungerà mai, trae però profitto, allo stesso tempo, dal suo stesso camminare avanti” (La Trinità, 2, 10). Sì, c’è guadagno anche impiegando al massimo la nostra povera ragione solo per incontrare limiti se l’infinito è perseguito con pietà (umiltà). Camminare avanti! Non è precisazione vana; infatti, si cammina anche quando si va indietro, quando si regredisce! Ilario dice che bisogna camminare verso la meta anche se non la si raggiungerà. L’esercizio teologico persegue l’infinito con pietà e va sempre avanti perché si rallegra dei progressi concessici. La ragione orientata teologicamente apprende molto dallo scoprire fin dove si può spingere. Ogni limite ha il pregio di farci almeno intuire un oltre. Gregorio di Nazianzo, anch’egli occupato col mistero della Trinità, afferma qualcosa che si salda all’incoraggiamento di Ilario: “Se ho trovato espressioni che le convengono, ne sia ringraziata la Trinità. Ma se sono state al di sotto di ciò che si dovrebbe desiderare, anche così il discorso trionfa, perché l’intento era proprio quello di far capire che (…) essa è al di sopra della nostra intelligenza”(Discorsi, 28, 31). Quando la nostra teologia si rivela assai misera rispetto al proprio Oggetto, pure trionfa perché è riuscita a far risaltare l’incommensurabilità dell’Oggetto stesso. In un sermone (52, n. 16), Agostino afferma che Dio è sempre oltre il più alto volo del pensiero. Dobbiamo riuscire, se si vuole essere davvero teologi, a trasformare la nostra attività intellettuale in preghiera. Paolo afferma di voler pregare con lo spirito, ma anche con la mente; di voler lodare con lo spirito, ma senza escludere la mente (1Cor 14, 15). Il vero cristiano fa dello ‘spirito’ e della ‘mente’, allo stesso tempo, l’ininterrotta occasione di preghiera.

Peter van der Meer, protagonista di una clamorosa conversione, scrisse: “Mi piacciono gli uomini che cercano (…) che indagano (…) che non si accontentano delle cose comuni, che gridano verso Dio”. Era questa, ammette, una follia di grandezza che mostra come non ci si possa accontentare “della vita di tutti i giorni”. Esclama van der Meer, Io voglio Dio! Volere Dio: ecco la nostra aspirazione quotidiana. Ilario di Poitiers, nel De Trinitate, chiariva che conoscere Dio è qualcosa da perseguire tenendo conto del fatto che non Lo si può descrivere, ma nemmeno si può ignorarLo (II, 7). Non si tratta di conoscere un oggetto; etimologicamente, qualcosa di posto avanti a noi su cui condurre una indagine analitica. Anche l’antropologia filosofica sbaglia quando si chiede cos’è l’uomo? e non chi è l’uomo? Maritain affermava che la filosofia finisce contro il suo limite insormontabile quando conosce sì i soggetti, ma come oggetti e si rinchiude nell’angusta relazione intelligenza – oggetto. La religione, invece, “si inscrive nella relazione soggetto e soggetto”. Uomo e mondo: il primo soggetto, il secondo oggetto; Dio e uomo: entrambi soggetti perché si incontrano nella relazione, non nell’investigazione. Ci si deve avvicinare al Mistero seguendo quella che Italo Mancini definiva la tecnica dei doppi pensieri: far coesistere – in ogni indagine teologica – affermazione e negazione in crescendo “fino a quando sulla cima il discorso si farà brevissimo, anzi silenzioso”. Solo così sperimenteremo – gridandolo nella nostra anima – cosa provava van der Meer nell’esclamare io voglio Dio! E volere è il modo più sicuro di trovare perché Gesù insegna: colui che viene a me non lo respingerò (Gv 6, 37).

La fede cristiana non si basa su idee, ma su persone, le persone della Trinità - Rougier

Il percorso di vita proposto dalla ricerca teologica è, oserei dire, il segreto per rimanere sempre giovane! Dio è inesauribile e cercarLo richiede una mente ed un cuore sempre pronti a lasciare, come Abramo, la terra delle proprie certezze. Giovanni XXIII stilò il programma del credente che vuole conservare la freschezza della sua voglia di Dio che è sempre antico e sempre nuovo: “Io – scriveva il papa buono – sono disposto ad ogni evenienza, e mi studio di fare giorno per giorno ciò che il Signore vuole da me (…): facendo tutto ciò che posso, di ora in ora, con molta confidenza ed abbandono, vedo che si può andare lontano e in benedizione”. Nello studio, nella vita, andare lontano non basta; occorre anche andare in benedizione; aprire cammini è giusto, ma è fondamentale verificare se Dio li benedice. Lasciare che la vita, lo studio, si rinnovino giorno per giorno avendo “confidenza ed abbandono” in Dio rinnoverà lo spirito e proveremo entusiasmo verso tutto ciò che faremo! Ireneo suggerisce che la forza della fede è ciò che davvero fa nuovo il cuore dell’uomo giorno dopo giorno: “Questa fede che noi abbiamo ricevuto dalla Chiesa, la conserviamo con cura perché senza posa, sotto l’azione dello Spirito di Dio (…) ringiovanisce e fa ringiovanire il recipiente che la contiene” (Contro le eresie, 3, 24, 1). Dobbiamo diventare il contenitore mai consunto di Dio. San Bonaventura citava San Francesco d’Assisi’: tanto valiamo, quanto siamo davanti a Dio.

Quanta più cura metteremo nel custodire ciò che è eterno, meno soggetto al tempo renderemo il cuore. Ognuno di noi deve diventare recipiente della fede, il ricettacolo vivente dello Spirito di Dio. Per dirla con Origene, impariamo soprattutto ad “aprire più spesso la (…) bocca ‘in salmi e cantici spirituali’” ed a “pregare Dio” (Omelia sul salmo 36, 51). Questo suggerimento è l’esercizio quotidiano che garantisce quella giovinezza dell’anima che consente alle domande fondamentali di non estinguersi mai. Se la nostra interiorità risulterà sempre più giovane e bella, ci accorgeremo che vi si poserà ‘fisso’ lo sguardo di Dio. È dentro di noi che preferisce fermare il Suo occhio. Secondo Gregorio Magno – “se per un uomo è il nostro viso fisico che ci fa conoscere, chi fa percepire il nostro essere, rispetto a Dio, è la nostra immagine interiore”(Omelia su Giobbe, 16, 25). Lasciamo esplodere la nostra intelligenza verso la Trascendenza senza remore e paure. Maritain insegna che è un sapere istintivo dell’intelligenza, qualcosa che nasce con noi, voler entrare nel transintelligibile; solo in esso “troverà il suo riposo” la nostra volontà di conoscere. “L’intelligenza – concludeva - si trascina a carponi verso il divino”. L’augurio è di assecondare sempre questo movimento in verticale!

Fare teologia deve insegnarci a vedere l’uomo com’era nelle intenzioni di Dio; e, riportando un insegnamento di San Francesco d’Assisi, Bonaventura annotava che quel che è l’uomo agli occhi di Dio, quello è, e niente più! Molto conta pure, in verità, chi ci si sforza di diventare. Concordo con Isidoro di Siviglia: “cristiani si diventa, non si nasce” (Ep 107, 1). Diventare cristiani è sviluppare consapevolmente l’impronta ontologica di creature, crescere con una mentalità filiale. Fare la volontà del Padre è realizzarsi davvero. Nel Sermone n. 2, il beato Enrico Susone dichiarava che avrebbe preferito essere il più piccolo degli animali in terra con la volontà di Dio, piuttosto che un ‘serafino del cielo’ con la propria volontà. Il dramma è volere di Gesù soltanto quanto in Lui ci piace. Volere Cristo, invece, è aderirvi totalmente. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi disse che Gesù stesso le aveva rivelato che ci sono persone che vogliono il Suo spirito, ma scelgono in piena autonomia il come e, così, perdono la capacità di riceverLo. Paolo, nella Lettera agli Ebrei (12, 2), insegna che Gesù è archegòs (autore) e teleiotés (perfezionatore) della fede. Tutto da in e per Lui: ecco la fede autentica del cristiano! Si rinuncia all’ego per il Dio che ha rinunciato alla propria Onnipotenza. Dio, ricordava Giovanni Crisostomo, si è dato tutto a te, senza riservare nulla per sé.

Fare teologia è vivere fino in fondo il dono di sé. Dio non è, agli occhi di chi possiede una robusta intelligenza teologica, un blocco monolitico. Giovanni Paolo II, nel suo primo viaggio in America Latina visitò il Messico e, a Puebla, nel 1979, disse: “La natura intima di Dio non è solitudine, ma comunione, perché Dio è famiglia, è Padre, Figlio e Spirito Santo”. Come la ragione deve accogliere le provocazioni di tutti i saperi e di tutte le fedi per animare una teologia sorretta da una fede inclusiva e non esclusiva, così il nostro ethos cristiano deve essere cattolico nel senso di universale; e, la vera universalità, consiste nel saper convivere – consapevoli della propria identità – con tutti i particolarismi (etnici, culturali, religiosi, filosofici…). L’importante è che il desiderio di fare comunione abbia come Fondamento Dio e non motivazioni emozionali o convenzionali. Florenskij, scienziato e sacerdote russo perseguitato e morto in carcere, scrisse: “L’amore per l’altro è un riflesso su di lui della conoscenza e la conoscenza è rivelazione della verità triipostatica stessa al cuore, cioè l’inabitazione nell’anima dell’amore divino per l’uomo”. La santità del teologo consiste nel testimoniare con la Dottrina e, soprattutto, con la vita, che ama l’altro perché pieno dell’amore dell’Altro. Essere santi, in fondo, si dà senza sforzo solo in Dio, mentre per noi è uno stato da perseguire volontariamente. Agostino, nei Discorsi, lo conferma: “La santità può stare in Dio senza la tua volontà, ma senza la tua volontà essa non può esistere in te”(169, 11, 13).

L’amore cristiano non è questione di buon cuore, né di sentimentalismo. È quando si riceve la vita soprannaturale – un dono – che si ha il vero amore, la carità. Il pensiero non teologico, non metafisico legge entrambi come un fatto dialogico, liberamente negoziato, non comandato. Per noi deve essere l’opposto. L’autorevole insegnamento di Tommaso d’Aquino è il nostro faro: “L’amore non è una forza dell’uomo in quanto uomo, ma in quanto, mediante la grazia, diviene (…) figlio di Dio”(De car., 2, 15). Abbiamo un luminoso esempio che mostra come fede, amore, carità insegnino a vivere la teologia in quanto percorso necessariamente ecclesiale. Pacomio viene considerato il padre del monachesimo cenobitico. Era figlio di pagani e, dunque, aveva una formazione religiosa lontana dai principi e valori cristiani. Venne arruolato per una guerra e, con altri giovani soldati egiziani come lui, risaliva il corso del Nilo quando il barcone fece scalo a Sne. In questa città furono tutti fatti prigionieri! Ogni giorno, un gruppo di persone, veniva – senza ricevere nulla in cambio e senza vantare appartenenze religiose – a visitarli, a consolarli. In una delle redazioni della vita di Pacomio si legge che, oltre a portare loro il pane, i caritatevoli e misteriosi visitatori “li sforzano a mangiare perché li vedono preda di un grande dolore”. Il cristiano deve donare il pane ed anche la gioia di mangiarlo! Colpito da questi atteggiamenti, il giovane chiese chi fossero. Nell’edizione greca della sua biografia, si dà questa risposta: ‘Sono cristiani e sono misericordiosi verso gli stranieri e tutti gli uomini’. Finì la guerra e lui andò a Seneset, villaggio flagellato dal caldo; eppure, lì, coltivò la terra per trarne quanto bastava a sfamare gli stranieri di passaggio. Volle restituire il bene ricevuto quando era in carcere! Lo raggiunse il fratello Giovanni e, ricevuto il battesimo, Pacomio fondò, con lui, una comunità il cui tratto distintivo consistette proprio nel servire fraternamente il genere umano. Non era stata l’accademia, un titolo in teologia a cambiare il cuore di quel giovane cresciuto ed educato in ambiente pagano, ma la testimonianza di cristiani veri. Col dono del pane e di parole di conforto, Pacomio ricevette il seme della fede che germogliò nella sua vita a beneficio di tanti. Dio lo aveva cercato e trovato attraverso la carità dei Suoi testimoni. Non si tratta solo di cercare, ma soprattutto di farsi cercare; non solo di studiare, ma anche di osservare come si comportano quelli che davvero hanno ricevuto il dono della fede. Nei Discorsi di Agostino, ciò viene ribadito: “Dio realizza le cose che sei stato tu a promettere (…) quando prometti, se Dio non interviene a fare, la tua promessa è a vuoto. Ma tu dici: Io ho creduto. Lo ammetto. Ma non sei tu a darti la fede (…). In te la fede è dono di Dio”(168, 1, 1). Studiare per accrescere la fede? Non si dimentichi, però, che la realizzazione dei nostri progetti sarà donata. Crederai sempre con più forza? Ricavi frutto da un seme che non ti appartiene. Il teologo deve ricordare a tutti che Dio è – contrariamente a quanto pensava Aristotele – Amante e non solo Oggetto d’amore. Il dio aristotelico attira, ma non si china verso le creature; il Dio ebraico cristiano, invece, ha interesse all’uomo. Un pensatore contemporaneo, ebreo, ha intitolato un libro Dio alla ricerca dell’uomo per parlare del pathos di Dio (Heschel). Massimo il Confessore, in Sui Nomi divini, spiega che possiamo dire che Dio è Amore in quanto ha messo fuori di sé tutto quanto era in Lui, le ‘creature’. Se l’eros amante proviene da Lui, non è sbagliato affermare che si ‘muove’; essendo, però, anche “il vero oggetto dell’amore” consente a quanti guardano a Lui di muoversi e, questi, “posseggono la potenza del desiderio secondo la propria natura”(IV, 4). Occorre sentirsi attratti da Dio e sentire che Dio è attratto da noi. Non aveva  torto lo Pseudo-Dionigi nel definire la teologia divina pati, un sentire le cose divine.

Impariamo a dare le ragioni della speranza che sono in noi in maniera semplice, accessibile. Nietzsche, ne L’Anticristo, ammetteva: “Confesso che di pochi libri mi è difficoltosa la lettura come dei Vangeli”. Questo, credo, perché vi si accostava pieno di pregiudizi e senza volontà di abbandonarsi alla Parola. Questo genere di lamentela, purtroppo, sorge spesso anche sulle labbra di chi si professa credente e, diciamolo, molte colpe hanno i teologi e quanti, con compiti e carismi diversi, dovrebbero essere testimoni della fede. Se ci si assume il compito di parlare, di scrivere di cose teologiche, si tenga in considerazione la capacità di comprendere i destinatari dell’annuncio. Il consiglio è di pregare quando si pensa e di fare del pensiero un modo di pregare fino a che ciò diverrà spontaneo perché, diceva Sant’ Antonio Eremita, non c’è preghiera perfetta se ci si accorge di pregare. Chi prega si accorge di essere sotto lo sguardo di Dio. Agostino insegna: orare est videre videri, pregare è vedere di essere visti!
Per comprendere la Parola non occorre avere una laurea (…) sapere l’ebraico, l’aramaico (…): occorre avere un cuore puro. Chi ha il cuore puro percepisce nella Parola la presenza di Cristo. E la percepisce un ragazzino di 5 o 6 anni, come la percepisce un vecchio di 90 anni, un analfabeta o un professore: quello che conta è la purezza di cuore – Il monaco Bonifacio Baroffio)

Il credente (Glaubende) – rilevava il filosofo Jaspers – rischia di diventare un militante (Glaubenskämpfen). Ebbe, a causa di questa metamorfosi negativa, sempre difficoltà a colloquiare coi teologi. C’è un passo in una opera di Jaspers, La fede filosofica che, meditato, fa comprendere qual è l’errore da evitare nel fare i conti con i filosofi coi quali immancabilmente ci si confronta nei dibattiti teologici:  “È una sofferenza della mia vita, che si affatica nella ricerca della verità, il constatare che la discussione con i teologi si arresta sempre nei punti più decisivi, perché essi tacciono, enunciano qualche proposizione incomprensibile (…) discorrono amichevolmente senza aver realmente presente ciò che prima si era detto, e alla fine non mostrano alcun autentico interesse per la discussione. Da una parte, infatti, si sentono (…) terribilmente sicuri nella loro verità, dall’altro pare loro che non valga la pena prendersi cura di noi, uomini duri di cuore. Ma un vero dialogo richiede che si ascolti e si risponda realmente, non tollera che si taccia o si eviti la questione, e soprattutto esige che ogni proposizione fideistica, in quanto enunciata nel linguaggio umano, in quanto rivolta ad oggetti ed appartenente al mondo, possa essere messa di nuovo in questione, non solo esteriormente e a parola, ma dal profondo di noi stessi. Chi si trova nel possesso definitivo della verità non può più parlare veramente con un altro, perché interrompe la comunicazione autentica a favore del proprio contenuto di fede”. Per non correre il rischio di meritare il rimprovero di Jaspers, ci si tenga ancorati saldamente alla Parola che, mai esaurientemente lumeggiata, impedisce di considerare il proprio contenuto di fede un possesso sicuro. La modestia nel fare teologia viene – per riprendere Isidoro di Siviglia – esercitandosi nel leggere e nel pregare. Nel primo caso, spiegava, parliamo con Dio; nel secondo, Dio parla con noi (Sentenze 3, 8, 2). Isidoro aggiungeva che si legge per conoscere ciò che non sappiamo e si medita (prega) per conservare quanto appreso (3, 8, 3). Origene consigliava, a chi ha il desiderio di conoscere qualcosa dei segreti divini, di mettersi alla ricerca con fedeltà ed umiltà. Solo così potremo afferrare qualche scampolo di quanto “piuttosto velatamente” è contenuto nella Bibbia. La ricerca, in più, va affrontata divenendo uomini di desideri, non di contestazioni. La polemica gratuita, premeditata non è buona guida in teologia. La docilità di fronte alla Parola allena alla comprensione che dovremo mostrare di fronte a filosofi come Jaspers che non consentono scappatoie quando pongono domande provocatorie circa il contenuto di fede che professiamo. La lontananza dagli altri, da chi stenta a credere, sarà letale solo se non ci si chiede – come faceva l’esegeta Alonso Shökel – quanto tempo si dedica, nella scienza biblica, ad una esegesi filologica e quanto ad una esegesi di attualizzazione; a rendere, cioè, gesto concreto quanto insegnato dalle Scritture! Gli uomini, sottolineava Shökel, chiedono il pane e l’esegeta si limita a commentare un versetto del capitolo del Vangelo di Giovanni sulla ‘moltiplicazione dei pani’; se ci chiedono di Dio, proponiamo teorie sul genere letterario di un salmo; se qualcuno denuncia il suo bisogno di giustizia, finiamo col proporre un’analisi etimologica di sedaqah (giustizia in ebraico). La Bibbia, in realtà, rispecchia fedelmente la condizione esistenziale, interiore ed esteriore, dell’uomo. Anche noi dobbiamo, leggendo, assumere gli atteggiamenti umani, troppo umani che essa mostra attraverso i suoi protagonisti. Agostino dice che se il testo che abbiamo davanti è preghiera, occorre pregare; se gemito ci tocca gemere; se viene espressa riconoscenza, occorre gioire; se comunica speranza, dobbiamo sperare e se, al contrario, parla di timore, allora, temiamo: “le cose che sentite nel testo biblico sono lo specchio di voi stessi”. Se impariamo l’umanità alla scuola della Bibbia, sapremo mostrare la nostra umanità a quanti hanno bisogno di comprendere le ragioni della nostra speranza.

Vorrei rubricare una riflessione di Teresa di Gesù Bambino che, pur essendo una santa di grande spessore intellettuale, reclamava semplicità, che non è superficialità, nel trattare le cose dello spirito: “Qualche volta, quando leggo certi trattati spirituali il mio povero piccolo spirito non tarda a stancarsi. Chiudo il libro dei sapienti che manda in pezzi la mia testa e dissecca il mio cuore, e prendo in mano la Sacra Scrittura. Allora tutto mi diventa luminoso, una sola parola dischiude all’anima mia orizzonti infiniti e la perfezione mi sembra facile”. Che le nostre parole, gli scritti dei teologi siano pieni della freschezza della Parola e mai esercizio superbo e raggelante di parole. Una nuova cristianità (Mounier) sta tentando di nascere per accompagnare l’uomo verso un futuro sempre più esposto a sfide fino ad oggi impensabili (nella bioetica, nell’ecologia, nella politica…). Dunque, immensa è la responsabilità del cristiano di fronte al futuro. Diciamolo con le parole che Christopher Dawson ha scolpito nel suo Religione e cristianesimo nella storia della civiltà: “Tutto dipende dal fatto se i cristiani della nuova età saranno all’altezza della loro missione; se essi saranno capaci di comunicare la loro speranza a un mondo in cui l’uomo si trova solo e disperato di fronte alle forze mostruose che sono state create dall’uomo per servire ai suoi fini, ma che adesso sono sfuggite al suo controllo e minacciano di distruggerlo”.
      
Fare teologia è rispondere alla domanda che Paolo pone nella 1 Cor 4, 7: “che cos’hai tu che non l’abbia ricevuta?”. Il teologo nulla possiede che non sia dono della Rivelazione. Si tratta, tuttavia, di un ricevere creativo, dello sforzo di pensare, profondamente inseriti nel ‘proprio tempo’, il depositum fidei. Non una revisione arbitraria di esso, ma una rielaborazione al tempo stesso fedele e creativa. Von Balthasar non si discostava da questa lezione quando scriveva: “La parola e i sacramenti sono da noi ricevuti: non siamo in grado di mutarli, accrescerli o diminuirli”. Ad ogni modo, occorre lo sforzo costante di rendere entrambi intelligibili agli uomini del proprio tempo. Cristo non è stato inviato soltanto per gli uomini di Israele, Suoi contemporanei, ma Lo è ogni volta che, ciascuno di noi, comprende, secondo le proprie capacità, la portata della Incarnazione. Tommaso, nella Summa, a tal proposito, cita un passo di Agostino tratto dal IV libro del De Trinitate; secondo il vescovo di Ippona, il Figlio è inviato “quando da qualcuno viene a essere conosciuto e percepito secondo la capacità dell’anima che progredisce o che ha raggiunto la perfezione in Dio”. Ragionare intorno al Logos sarx – va detto – non è lo stesso che affaticarsi attorno ai logoi della filosofia. L’oggetto della filosofia è qualcosa (enti, essere…), quello della teologia, Qualcuno. Proprio Agostino, nel libro IX del citato De Trinitate, insegnava: “Il Verbo di cui ragioniamo è una cognizione piena d’amore”. Il filosofo è preso dall’amore per la sapienza, il teologo è afferrato dalla Sapienza amante perché Persona. Nel fare teologia si deve accendere la piena percezione di Cristo e, come insegna Tommaso nella Summa, percepirLo, cogliere la Sua missione “indica una conoscenza sperimentale, la quale è chiamata propriamente sapienza, vale a dire, conoscenza saporosa”. La conoscenza teologica deve avere sapore, dare il senso di Cristo. Un gusto che non scade mai in degustazione privata della Parola, ma è sempre chiamata a condividerLa. L’alterità resta una categoria imprescindibile in atmosfera teologica. Il poeta tedesco Hölderlin, ne ‘I Titani’, scrisse: keiner trägt das Leben allein, nessuno porta la vita da solo; in ‘Patmos’, scendendo su terreno decisamente teologico, sentenziava: keiner aber fasset allein Gott, ma nessuno comprende da solo Dio.

Quando vogliamo rintracciare il banco di prova per stabilire se   l’ufficio di teologo corre verso il proprio fine autentico, verso la piena realizzazione, tornano utili le parole che Bernardo di Chiaravalle rubricò nei Sermoni sul Cantico dei Cantici. A suo dire, se in quanto si scrive non vi si legge Gesù, non vi è sapore (“non mi sa di niente”). Il Verbo era, per lui, miele nella bocca e melodia nelle orecchie. Una teologia che non metta Cristo al centro sa di niente. Non si tratta, sia chiaro, di trovare un fondamento logico ma, soprattutto, un referente affettivo. Il teologo deve dialogare, inaugurando un vivo rapporto interpersonale, con il Fondamento - Logos. In gioco, più che lo sforzo intellettuale, vi è l’affettività. Credo che, per questo motivo, Bernardo non esitava a dichiarare che instructio doctos reddit, affectio sapientesl’istruzione rende dotti, l’affetto sapienti. Il sapore del senso viene non dall’instructio, ma dall’affectio. Ancorarsi al Cristo significa avere la possibilità di fare teologia attenti alle istanze del proprio tempo e proporre un messaggio che non si assoggetta alla contingenza. Paolo, nella Lettera agli Ebrei (13, 8), infatti, ci ricorda che Gesù è echthès (ieri), kai sémeron (oggi), eis toùs aiônas (per tutti i secoli). Come disse Pascal, per sottolineare la portata universale della figura del Figlio, Mosé è per un popolo e Cristo per tutti! O, per dirla con Tertulliano, Cristo è ‘sempre attuale’ perché è antico nelle cose nuove e nuovo nelle cose antiche. Da Lui, dunque, se vogliamo davvero crescere nella fede, occorre essere presi per riconoscerlo come Fondamento dei nostri ragionamenti teologici. Ancora Paolo, scrivendo ai Filippesi (3, 12), usa il verbo greco katelémphthen che viene da katalambáno, essere presi dal basso verso l’alto. Cristo ci afferra ed attira a sé per essere, come si legge negli Atti degli Apostoli, choregós, guida. Il teologo, a mio avviso, non deve mai smettere di considerarsi un apprendista nelle cose della fede. Mi ha impressionato, in tal senso, quando scrisse in una lettera dal carcere del 21 luglio 1944, il teologo luterano impiccato dai nazisti, Dietrich Bonhoeffer. Confessava ad un amico che, un giorno, aveva espresso in questi termini il suo più grande desiderio: Io vorrei imparare a credere. Si è sempre all’inizio nelle cose della fede perché il credente non si libererà mai del tutto dell’ateo che è in lui. Quello che conta, tuttavia, è non perdere mai di vista il fine della ricerca. Come scrisse Tommaso, semper inchoatio alicuius ordinatum ad consum mationem ipsium, l’inizio di una cosa è sempre ordinato alla sua perfezione. In questo percorso è sempre Cristo il choregós, la ‘guida’.

Gregorio di Nazianzo elaborò una ‘metodologia teologica’ ed è utile ancora ripercorrere la sua opera Cinque discorsi teologici nella quale sostenne che ci vengono donate soltanto illuminazioni parziali ed invitava, perciò, ad osservare l’ordine della teologia: non manifestare, cioè, di colpo la verità, né occultarla sino alla fine; nel primo caso, spiegava, mostriamo la nostra incapacità mentre, nel secondo, la nostra empietà. Nel primo caso, infine, si danneggia chi non crede e, nel secondo, quelli che credono. In alcuni Padri c’era già la giusta valorizzazione della filosofia, della cultura…assai prima che Giovanni Paolo II aprisse nuovamente il dibattito su fides e ratio con la Sua nota e discussa enciclica. Clemente Alessandrino, infatti, nel Protreptico, disse che soprattutto negli uomini che impiegano molto del loro tempo a ‘ragionare’ è stata “instillata una emanazione divina”. Il teologo, ad ogni modo, deve previamente ammettere ‘tutte le vie’ per poter arrivare a Dio; nessuna preclusione pregiudiziale ha senso! Per quanto mi riguarda, ho eletto a mio principio guida quanto Agostino rubricava nei Soliloquia: “Se è la fede che ti rivela a chi a te ricorre, concedimi la fede; se è la virtù, concedimi la virtù; se è la conoscenza, donamela”. La vita cristiana, da qualsiasi lato si cominci a svilupparla, resta una realtà agonica, rappresenta l’apertura di un campo di lotta, di lavoro. Il vescovo martire Cipriano, infatti, invitava i cristiani a gareggiare. Tutti, diceva, devono meritare corone: bianche (“per le buone opere”) o rosse (per le sofferenze). Concludeva: “Nel campo di Dio, lotta e pace hanno ciascuna i loro fiori, e il soldato di Cristo può farne corone di gloria”. Una lotta non da disperati, ma da uomini certi di una speranza che non delude perché ancorata al compimento della vicenda di Gesù che riscatta dal limite ultimo, la morte. Sempre Cipriano, infatti, lanciava una provocazione che il teologo deve incessantemente richiamare alla memoria di quanti, con troppa leggerezza, si professano cristiani, pur imbevendo di un inspiegabile pessimismo la propria esistenza: “Perché chiamare cristiano chi non ha alcuna fiducia in Cristo?”.
Fidarsi di Cristo è la ‘radice’ di ogni discorso credibile in termini di adesione al cristianesimo. Centrati in Cristo, poi, ci si può decentrare nel mondo senza perdersi in esso, ma per super-centrarlo in Dio. Si tratta di comprendere che Cristo, per riprendere una bella espressione del teologo svizzero Leonhard Ragaz, va servito all’aria aperta. Comunicare Dio, allora, quando ci si mette sul serio davanti alle durezze dell’esistenza, diviene la testimonianza di una relazione e non più l’annuncio di una teoria. In un articolo dal titolo ‘Che cos’è la verità?’, il filosofo Gadamer scrisse che, quando ci si dibatte tra problemi veri, esistenziali (finitezza, storicità, colpa, morte…), quando si è, insomma, davanti a situazioni-limite, “la comunicazione non è più trasmissione di conoscenze per mezzo di dimostrazioni conclusive, ma una sorta di rapporto diretto tra un’esistenza e l’altra”. Il teologo che vive le lacerazioni esistenziali senza il paravento di pseudo-certezze religiose, comunica Dio agli uomini mostrando il rapporto diretto che costruisce faticosamente tra la sua esistenza e quella di Dio. 

Il teologo deve insistere senza pause nel ricordare gli insegnamenti cristiani, soprattutto in un mondo che si ostina a presentarsi fortemente scristianizzato. Rifacciamoci, per rafforzare l’argomento, ad un antico testo cristiano, Il Pastore di Erma che, secondo alcune fonti, è costituito da scritti nati in tempi diversi tra il 100 ed il 150 e che, per un certo periodo, venne addirittura considerato appartenente alle Scritture. Contiene delle rivelazioni fatte ad Erma da parte di due esseri celesti, a Roma: una donna anziana (simboleggia la Chiesa) ed un angelo che ha assunto le sembianze di un pastore. L’anziana dice ad Erma qualcosa che può valere come un consiglio sempre attuale da offrire al teologo: “Come il fabbro che a colpi di martello piega il ferro che lavora alla sua volontà, così anche un discorso giusto, ripetuto ogni giorno, viene a capo di ogni malvagità”. Contro le malvagità ordite senza requie a danno della proposta cristiana, il teologo non deve fare altro che assumere i panni del fabbro: forgiare, ogni giorno, discorsi giusti. Non che il ricorso a mezzi come l’argomentazione razionale, il riferimento alle scienze siano inutili o, peggio, dannosi; piuttosto, si tratta – pur utilizzando gli strumenti dei saperi oggettivi – di far risaltare che, in fatto di fede, contano le verità che si sono tradotte in vita. La Bibbia non presenta concetti teologici, ma figure e storie che li propongono in maniera narrativa. Quando, in Dialogo con Trifone, Giustino Martire si confronta – da filosofo – con un vecchio cristiano, si sente dire che a Platone e Pitagora sono da preferire i Profeti in quanto i loro discorsi non hanno la forma della dimostrazione; piuttosto, sono logoi di quanti sono stati testimoni fedeli della verità. In teologia si può essere professori finché si vuole, ma nella fede ebraico – cristiana, sono i testimoni a contare davvero. Quanti annunciano i principi della fede cristiana possono far leva su un dato di fatto evidenziato magistralmente dal filosofo Claude Tresmontant in un saggio del 1977, La mistica e il futuro dell’uomo. Nel testo viene detto a chiare lettere che l’uomo è un animale che non si appaga di una ‘finalità naturale’; non è fatto per questo, bensì, conclude il pensatore francese, può solo ‘accontentarsi’ dell’Assoluto vivente e personale. Non l’assoluto filosoficamente inteso, ma quello che si fa Persona e che accende con noi una relazione reale. Ci si può riallacciare, a tal proposito, ad Heidegger. A suo dire, il gott – lose – Denken (pensare fuori di Dio) è il necessario abbandono del ‘Dio dei filosofi’, la ‘Causa Sui’ e ciò porta più vicino al ‘Dio divino’ (göttlichen – Gott) perché l’uomo, davanti alla ‘Causa Sui’, non si inginocchia, non conosce tremore, né fa musica, non canta né danza. Una teologia che disconoscesse, per partito preso, il valore affettività si condannerebbe ad essere arida e lontana dagli uomini che non coltivano, assiduamente, le fatiche del pensare. Non è una posizione polemicamente antiaccademica perché, nel 2000, il teologo Pier Angelo Sequeri, in L’estro di Dio, annotò: “Il problema della ‘verità’ degli affetti è un problema squisitamente religioso: ma la teologia non se ne occupa (più) come tema che attiene alla costituzione originaria della coscienza credente”. Non è solo nella ricerca teologica condotta concettualmente che si trovano occasioni forti per incontrare Dio, ma anche in atteggiamenti mistici, intrisi di affettività.
Se per Bernard Welte Dio resta aldilà del concetto, per Pareyson Dio preferisce manifestarsi nascondendosi in fondo a ciò che l’uomo non giunge a comprendere e a padroneggiare completamente. Dio, il teologo non disdegni questa lezione, si manifesta anche nel mistico (cosa che non sempre le gerarchie ecclesiastiche hanno accettato di buon grado). Il filosofo finanche che non disprezza l’esperienza mistica, ammetteva Bergson, giungerà alla conclusione che la creazione appare come un’ impresa di Dio per creare creatori, per aggiungere a se stessi esseri degni d’amore. Monsignor Magrassi sosteneva che finanche l’esegesi è una mistica e meno una prassi. Il rapporto con la Parola è coinvolgente in due direzioni: “Applicati tutto al testo: tutto il testo applicalo a te!”(A. Bengel). All’uomo non basta una finalità naturale, ma nemmeno il rapportarsi intellettualmente all’Assoluto; anzi, non lo desidera se non vivente e personale. Il teologo deve insegnare ad ogni credente, nel mentre lo sperimenta ogni giorno, a dire con Sant’Ignazio Martire: mi sono rifugiato nel Vangelo come nella carne di Gesù. 
La concretezza del Dio cristiano impone, potrei dire, una teologia radicata nel concreto; il che, va precisato, non vuol significare che essa debba essere prona di fronte ai dettami del contingente. Barth sosteneva che era improponibile affrontare il lavoro teologico ‘per se stesso’, come si usa coltivare l’arte per amore dell’arte. Senso, orizzonte e télos dell’ufficio teologico si danno solo, a suo dire, come servizio di Dio e servizio dell’uomo. Il teologo protestante invitava ad evitare ad ogni costo una “gnosi librata per aria, che propriamente serve soltanto al piacere intellettuale o estetico del teologo”. Radicarsi nelle cose del mondo, ribadendo che ciò non è ossequio sconsiderato al contingente, rimane un punto imprescindibile per chi si occupa delle cose della fede. Il teologo è veramente tale – per von Balthasar – se è anche filosofo e si è immerso nelle misteriose strutture dell’essere creato. Rimane fermo che bisogna soprattutto guardarsi dal non assumere il ruolo di forgiatori di parole ed espressioni lontane da quella realtà viva che è la storia ebraico - cristiana che si snoda in un difficile ma appassionato dialogo tra Dio e l’uomo.
W. James, a tal proposito, lamentava che attributi metafisici della divinità, cari a certi teologi, hanno portato ad una involuzione del loro lavoro: il verbalismo, infatti, ha preso il posto della visione ed il professionismo ha soppiantato la vita. Il teologo deve mostrare, con tutto se stesso, quanto incidano realmente nella vita i principi cristiani. La lezione è antica e risale a Sant’Ambrogio che non esitava a ricordare che i “principi della fede devono essere trasformati in valori per l’uomo, devono risultare visibili e appetibili per gli altri”. D’altro canto, a differenza del ‘Dio dei filosofi’, quello in cui diciamo di credere è un Dio col Quale si entra in ‘dialogo’. A differenza del monologo filosofico, dove l’io e l’altro sono finzioni poste dal soggetto, il dialogo della fede presuppone l’Altro in quanto imprevedibile: può spiazzarci con le Sue risposte o può addirittura non manifestarsi. Il credere deve fondarsi proprio su questa libertà rischiosa che si apre nella vita autentica di fede. Il filosofo ebreo Martin Buber ha ben espresso questo punto fermo: Se Dio fosse solo oggetto di un discorso, un Dio di cui si parla, non crederei. Ma il mio Dio è un Dio con cui posso parlare. Perciò credo.
Quando si presenta il Dio ebraico-cristiano con categorie inadatte, si genera nell’uomo assetato di senso una disperazione inguaribile. Sopra ricordavamo l’espressione di Tresmontant: un Assoluto vivente e personale. Chi si agita la cercando e desiderando un Infinito senza volto, impersonale, si blocca in amletismi privi di centro e direzione. Il pensiero vaga in pena senza un télos che ne giustifichi le fatiche. Il caso del commediografo Ionesco è emblematico. Aveva sessantasei anni e, nell’appartamento di Parigi, a Montparnasse, tentava di chiudere il suo diario. Confessava, ormai, di essere preda di una invincibile nausea, di essere vittima di un forte esaurimento nervoso perché non riusciva a capire la parola inesauribile. Si definiva l’Uomo teso nello sforzo di capire l’Infinito; anzi, precisava, era uno desideroso di Qualcuno che gli spiegasse l’Infinito. Era in trappola perché aveva subordinato la realizzazione della sua intelligenza al rapporto con un Infinito senza volto, incapace di parlare la lingua dell’uomo. Dopo alcune frasi degne di un febbricitante, si definiva un ‘incorreggibile’ perché – scriveva esprimendosi in terza persona – ostinato a voler ricuperare l’irrecuperabile, a voler definire l’indefinibile, a dire l’indicibile, ad udire l’inaudito.
Le ultime righe del diario oscillano in una tensione dialettica, più esistenziale che teoretica, tra sconforto ed attesa fiduciosa: “Pregare: il Non So Chi. Spero: Gesù Cristo”. Quando il Non So Chi appare più reale di Gesù Cristo, che genere di speranza resta a chi invoca il Senso? Il positivo nell’esperienza di Ionesco è la determinazione con la quale vuole recarsi oltre la propria finitezza; il negativo sta nel porre tutto entro le categorie dello ‘spiegare, capire’ aggirando quelle del ‘dono’ e della ‘rivelazione’. Il fatto è che il commediografo aveva subordinato il riflettere intellettuale alla capacità ricettiva; il capire al fidarsi. Un esponente della Scuola di Francoforte, critico verso le pretese esagerate della ragione, Horkheimer, ammoniva: “se viene soppressa la dimensione teologica, scomparirà dal mondo ciò che chiamiamo senso; magari regnerà una operosità maggiore, ma senza un vero significato, e quindi condannata alla noia”. Ionesco era, nell’ultima pagina del diario, in preda ad una operosità intellettuale enorme, ma non la faceva esplodere verso la dimensione teologica e, dunque, non riusciva a dare ad essa un senso, un vero significato. Di queste disperate ricerche, talvolta, responsabili sono proprio i teologi che indicano vie, ma non la Via Agostino, a quanti cercano la ‘via’, ricorda innanzitutto che Cristo è ‘la Via’: “Prima di dirti dove devi andare, scriveva, ha premesso per dove devi passare (…). La via per andare dove? Alla verità e alla vita. Prima ti indica la via da prendere, poi il termine dove vuoi arrivare”. Se dobbiamo, perciò, rintracciare il metodo della teologia e se ‘metodo’ viene da meta – odos, attraversare una via, se ne ricava che Cristo è il Metodo – cioè la Via da attraversare – della teologia. Cristo è la Via da prendere e solo su di essa si può essere certi di muovere verso il termine dove vuoi arrivare. Nel caso in cui non fosse questo il nostro modo di procedere finiremo – nauseati come Ionesco – nell’abbraccio mortifero con il Non So Chi.

Abbiamo sperimentato che Horkheimer aveva ragione: decapitare quanto facciamo della ‘dimensione teologica’ fa sfociare in un bruciante non senso. Igino Giordani, scrittore ed uomo politico del Ventesimo secolo, colse i segni del disfacimento del mondo moderno nel rifiuto della trascendenza in favore della discendenza nel subumano. Il corpo sociale, argomentava, deperisce intellettualmente anche “per penuria di teologia” che, a sua volta,  sta separata dalla cultura: “Non si concepisce un Dante, un Newton senza nozioni teologiche”. Il nostro patrimonio culturale (umanistico e scientifico) si rivela incomprensibile se non salva i vitali contatti con i propri costitutivi referenti teologici. Giordani riteneva urgente proporre un cristianesimo integrale che unisse ‘fede ed opere’, ‘dogma ed azione’, ‘giustizia ed amore’. Se il corpo sociale va integrato col corpo mistico, quest’ultimo deve espandersi nel corpo sociale. La ‘convivenza nel tempo’, frutto della coscienza sociale, deve essere il “prodotto della convivenza del soprannaturale”. Si tratta, per Giordani, di portare nell’amore ai fratelli l’amore di Dio. Il cristianesimo, precisava, deve risultare incarnato nel cristiano. Il teologo deve fare propria questa lezione e non proporre, come dicevamo con Barth, una ‘gnosi librata per aria’. Un compito particolare Giordani affidava ai ‘laici’: cristianizzare i luoghi concreti della vita quotidiana e fare evangelizzazione muovendo dagli avamposti dell’incredulità. Proporre la fede non malgrado ambiti scristianizzati, ma muovendo proprio da essi! Siamo noi tutti la Chiesa e non dobbiamo limitarci, diceva il nostro autore, ad essere gli inquilini, bensì i costruttori e gli amministratori della città di Dio. La Chiesa, a detta dello scrittore e politico italiano, “è per l’uomo, e lo segue in tutte le sue evoluzioni, la Chiesa è sempre contemporanea all’uomo” e la verità cattolica “si traduce nel vocabolario del suo tempo, parla greco col Crisostomo, latino con Agostino, inglese con Newmann, e usa il giornale e la radio, la posta e il telegrafo”. Radicare il teologico nel mondano: non assoggettarvelo, ma tradurlo in linguaggio accessibile a chi ascolta. Il greco del Crisostomo, il latino di Agostino sono traduzioni che non tradiscono la fede, ma la incarnano nell’uomo concreto che ricerca Dio. Salvaguardare il patrimonio religioso/ teologico non è accanimento fazioso per tutelare gli interessi di una chiesa, di un gruppo di credenti, ma erigere baluardi a difesa dell’umano. I teologi e quanti si occupano di questioni religiose, tengano a cuore quanto Giordani scrisse nel 1949: “La difesa della religione non è difesa di Dio, che non ha bisogno del patrocinio nostro, ma è difesa dell’uomo che ha bisogno del patrocinio di Dio”.

Sergio Quinzio diceva che il mito è protologico (guarda al passato), mentre la fede è escatologica (guarda al futuro). Il teologo ripercorra i miti dell’origine narrati nella Bibbia con intento escatologico. La creazione come è nella mente di Dio: ecco il fine della Storia. Nel fare teologia occorre tenere ben presente la lezione del fenomenologo Enzo Paci. La storia non è la metodologia utile a scriverla: “La concretezza del processo della vita è ciò che è veramente storico. La Lebenswelt è Lebensvorgehen [vita che procede] di cui il senso è dato dalla temporalità nella misura in cui la temporalità può realizzare un télos. E poiché la temporalità è consumo e morte, la vita ha un senso se riesce a trasformare la morte in vita”. Se studiamo come la storia viene raccontata dalla Bibbia, ci accorgiamo che non si fa ricorso ad una metodologia accreditata accademicamente. La storia è narrata come concreto processo di vita di figure e popoli. Il ‘mondo della vita’ (Lebenswelt) occupa il posto centrale nell’impianto biblico: la Rivelazione avviene per tappe, per episodi chiave, attraverso vicende personali. Vi è senso perché il tempo biblico corre verso un télos e ad alla temporalità intesa come ‘consumo e morte’ oppone una temporalità che trasforma la morte in vita. Scrive Haag: “tutta la Bibbia ha il suo centro nella vita” che è Dio e vuole l’uomo partecipe della Sua vita. I temi biblici, conclude Haag, si possono coordinare ad una teologia della vita intesa come vita “da Dio e davanti a Dio, per Dio e con Dio”. È la vita “l’unico tema di tutta la Bibbia”. Potrebbe mai, perciò, essere la teologia ricamata sulle nuvole? Bonhoeffer, nell’autunno del 1933, agli studenti della facoltà teologica protestante di Berlino disse che la teologia non va studiata come una qualsiasi altra materia per prepararsi ad una professione;  piuttosto, è indicata per quelli che sono attratti dalla parola di Dio.  Lutero,  sebbene nel suo Grande catechismo del 1529 si fermasse all’approfondimento di contenuti tradizionali (Comandamenti, Credo, Padre Nostro, sacramenti), intese vivificare il tutto attraverso una lettura personale. Durante un pranzo, si era nel 1531, sentenziò: Sola experientia facit theologum. L’esperienza sola fa il teologo. Si tratta dell’esperienza della lotta al peccato, alle tentazioni. La temporalità vissuta e sperimentata teologicamente diviene sempre l’appropriazione personale del tempo: in esso la vita procede assumendo problemi concreti, non ricamando astrazioni. Potremmo anche dire, riprendendo Moltmann, che fare teologia significa essere sempre disposti a passare dall’interrogare all’essere interrogati; dall’esigere una risposta al dare una risposta.

Dentro di noi c’è una impronta divina. Come asseriva Boezio, omnis vera imago rei, cuius imago est similitudine tenet, ogni immagine conserva la somiglianza di ciò di cui è immagine. La teologia deve mantenere viva tale consapevolezza, impedendo che diventi vaga nostalgia di qualcosa che abbiamo perso, ma che non sappiamo più individuare. L’uomo è ‘immagine di Dio’ e non può non conservare, lo voglia o no, la somiglianza col Creatore. Cristo è la memoria vivente di ciò che siamo. Come disse Tommaso, con l’Incarnazione initiavit nobis viam novam. Una via nuova nel senso che siamo chiamati ad una maggiore consapevolezza di ciò che ci costituisce. Eleggere a nostra guida l’antropologia cristologica significa divenire consapevoli di quanto enunciava Agostino: “Dio vuol farti Dio non per natura (…), ma per dono e adozione”. Dio si riconosce, attraverso Cristo, nell’uomo! Il vescovo di Ippona, aggiungeva: “E se vuoi trovare un luogo alto (…), santo, offriti a Dio come tempio nel tuo intimo”. L’uomo è un tempio nel quale Dio si è reso presente con l’Incarnazione. Avviene, così, per dirla col poeta indiano Tagore, che la nostra vita consiste nello stendere in terra il tappeto, poiché il Signore del futuro possa entrare e sedersi. La relazione ontologica (Dio in noi) deve svilupparsi, però, nell’esercizio dell’amore perché, dice San Giovanni della Croce, è l’amore a rendere simili l’amante e l’amato. L’ontologica somiglianza tra Creatore e creatura si realizza pienamente nella fenomenologia dell’amore, nell’agire con amore verso Dio e verso gli altri. Il teologo che non ama non merita attenzione: dimentica l’insegnamento di Agostino: Ambula per hominem et invenies Deum, attraverso l’uomo trovi Dio. Per Tommaso d’Aquino, il movimento della fede non è perfetto se non è permeato dalla carità.
Significativa l’esperienza di San Pacomio. Un giorno, andò a mietere assieme ad un suo frate. Durante la notte, pur avendo avuto una giornata piena e dedita al servizio, si pose in disparte, desolato ed affranto, non conoscendo ancora la volontà di Dio. Gli apparve un personaggio luminoso che gli rivelò: La volontà di Dio è che tu sia il servo degli uomini per riconciliarli con Lui. Una rivelazione che si addice perfettamente a chi esercita l’ufficio teologico. L’amore è  rivelativo, conoscenza. Recita un insegnamento medievale: amor ipse intellectus est, la carità è gia conoscenza, verità. Agostino diceva che colui che possiede l’amore nel suo modo d’agire, possiede ciò che è latente e ciò che è palese nelle parole divine. Dio non è apatico, ma ininterrottamente ed inesauribilmente amante e, dunque, essere Sua immagine conduce a non chiuderci agli altri. Von Balthasar disse che il Padre non è realtà riposante e concepibile in sé, bensì costante donarsi, simile a “sorgente zampillante senza bacino dietro di sé cui attingere”. Essere cristiani è imitare Dio in questo! Dobbiamo essere, nell’intimo, pronti ad offrirci a Dio come tempio e, ribadiva San Leone Magno, se siamo ‘tempio di Dio’ “e lo Spirito Santo abita in noi, quello che ciascun fedele porta nella sua anima ha più valore di ciò che si ammira in cielo”.

Se il teologo deve ‘difendere’ la fede cristiana, va chiarito cosa si intenda per ‘difesa’. Spesso ha significato l’arroccarsi su posizioni elitarie e negatrici di ogni apertura e dialogo. L’abbé Huvelin diceva che, al suo tempo, l’apologetica ordinaria valeva poco perché falsa, pur se, per certi versi, ingegnosa; sviluppava, per lo più, argomentazioni simili a figure geometriche di grande regolarità, ma prive di realtà. Oggi si parla di teologia fondamentale e ci si ispira al dettato del Vaticano II: recta ratio fidei fundamenta demonstrat, la retta ragione dimostra i fondamenti della fede. La ragione può essere utile finanche a mostrare la propria inutilità di fronte a certe problematiche di fede.
Anselmo, nel Monologion, diceva, riguardo alle verità di fede, che si tratta di rationabiliter comprehendit incomprehensibile esse, comprendere razionalmente che è incomprensibile. Io credo che occorra rimanere creativamente fedeli alla Tradizione. Pio XII, nell’enciclica Humani generis, esortò i teologi a tornare sempre alle fonti della divina rivelazione; le ‘sacre discipline’, imbevute delle ‘sacre fonti’, mai invecchiano. Si mostri come la fede veniva vissuta dai primi cristiani, piuttosto che argomentarne razionalmente. Il santo della Chiesa Ortodossa Gregorio Palamas disse che è la ‘fede’ e non la ‘dimostrazione’ ad essere a capo della religione cristiana. La Chiesa, per Ireneo di Lione, il messaggio della fede lo deve, benché sparsa e diffusa su tutta la terra, conservare fedelmente “come se abitasse una sola casa”; deve credere in esso concordemente “come se avesse un solo cuore”; deve insegnarlo con armonia perfetta “come se avesse una sola lingua”. Un detto teologico: In dubio,  pro Traditione, nel dubbio si segua la Tradizione. Radicati in essa si può essere creativi senza paura di mostrarsi dannosamente infedeli al depositum fidei. Rinnovare senza sovvertire radicalmente i principi della fede. Non è una lezione mia: Cipriano diceva che nihil innovetur nisi quod traditum est, nulla si rinnovi se non secondo tradizione.   
Lasciando ‘parlare la Parola’ si ottiene un effetto benefico. Agostino: Verbo crescente, verba deficiunt, il Verbo cresce, le parole decrescono. Il teologo per eccellenza è Cristo; Lui l’ermeneuta sommo, come insegna l’episodio di Emmaus. La Croce è la sola Cattedra di teologia: eam quae in ligno facta fuerat inobaudientiam per eam quae in ligno fuerat obaudientiam sanans, Cristo sanò con l’obbedienza esercitata sul legno della Croce la disobbedienza perpetrata con il legno dell’albero della conoscenza (Ireneo). Ci perdemmo appendendo ogni aspettativa ed ambizione all’albero della conoscenza e Cristo salva lasciandosi appendere all’albero dell’obbedienza. Lutero parlava di Cathedra Crucis, di Cattedra della Croce aggiungendo che in Cristo crucifixo est vera theologia et cognitio Dei, in Cristo crocifisso è la vera teologia e l’autentica cognizione di Dio. C. S. Lewis, convertitosi al cristianesimo,  ammetteva che la sua ‘idea di Dio’ doveva essere mandata continuamente in frantumi e ciò, concludeva, “è lui stesso a farlo”. Dio è il grande iconoclasta, il distruttore di immagini. In Cristo, Dio manda in frantumi molte delle nostre idee su di Lui. Dio entra nella storia e ci mostra come leggerla, interpretarla attraverso la vita del Figlio.
La fede, perciò, è quanto di più concreto, tangibile si possa dare. Pieper spiega che la storia non è tutto ciò che avviene. Un fulmine che cade, una frana, maree, accadono e possono divenire qualcosa di storico soltanto in quanto accadimenti che si riferiscono all’uomo: “Un avvenimento diventa storico per il fatto che in esso entra in gioco ciò che è specificamente umano: libertà, responsabilità e decisione”. Cristo diviene effettivamente storico perché interpella la libertà dell’uomo affinché risponda e decida riguardo al Vangelo. Cristo è salito al cielo per sedere alla destra del Padre, ma non è uscito dalla storia; anzi, grazie al Vangelo, continua ad essere presente, come insegna Agostino: os Christi evangelium est; in coelo sedet, sed in terra loqui non cessat, il Vangelo è la bocca di Cristo; siede in cielo, ma non cessa di parlare sulla terra. La Parola ci coinvolge. Proprio Agostino insiste a ricordarci, fratres, fratelli, la Parola è res vestras, cosa vostra. Anche nel silenzio il credente comunica con Dio: il legame Creatore / creatura è infrangibile. Anna, madre del profeta Samuele, pregò il Signore, ma nessuno ne sentì la voce (1Sam 1, 13). Giovanni Crisostomo disse che fu esaudita non per i suoni delle sue parole, ma per le grida del suo cuore. La comunicazione con Dio avviene per intimo legame, non per tangenza esterna e diviene paradigma di una comunicazione in profondità con gli altri. Non si deve mai smarrire la possibilità di un linguaggio franco, schietto, se si vuole intessere una relazione viva, reale con Dio. Agli inizi, la fede veniva espressa nel linguaggio del kerygma ispirato da riferimenti biblici e fu solo nel IV e V secolo che si passò al linguaggio tecnico del dogma. Si trattò, a dire il vero, soltanto di una necessità. Spiega Yannaras: “Quello che noi oggi chiamiamo dogma appare soltanto quando l’esperienza della vita ecclesiale viene a essere minacciata dall’eresia” che indica la ‘scelta’ di una parte della verità a danno di quella intera (cattolica). “La Chiesa – continua il teologo ortodosso – di fronte alle eresie reagisce fissando i confini della sua verità (…). È molto significativo il fatto che la prima designazione che venne data a quello che noi oggi chiamiamo dogma fu termine (horos) cioè confine, frontiera della verità (terminus). I ‘dogmi’ attuali sono (…) quelle decisioni teoriche che formulano la verità della Chiesa ponendo un confine che separa questa verità dalla deformazione operata dall’eresia”. La dogmatica non serve ad escludere quanti sono lontani dall’insegnamento della Chiesa, bensì a preservare intera, intatta, la verità della fede. Dietro al dogma, per chi respira fiduciosamente Tradizione e Magistero, spira l’aria fresca dell’originario kerygma.

Chi si mette sui sentieri della teologia si destina ad un cammino che dura quanto la propria vita. Ugo di san Vittore, sentenziava: quamdiu vivimus necesse habemus semper quaerere, finché viviamo, dobbiamo sempre cercare. In questo itinerario tutto viene dallo Spirito che, Ambrogio, definiva ductor et princeps noster, nostra ‘guida e capo’. È lui, continuava, che orienta la mente, conferma l’affetto, ci attira dove vuole, volge in alto i nostri passi. C’è un rapporto, oserei dire, di affettiva reciproca appartenenza tra cristiano e Spirito. San Basilio disse che lo Spirito è il ‘luogo dei santi’ ed il santo è il ‘luogo dello Spirito’. Il teologo insegni a coltivare l’interiorità, a rafforzare il linguaggio del cuore. Si pensi al Salmo 27, v. 8: ‘A te dice il mio cuore: Cercate il mio volto. Il tuo volto, Signore, io cerco’. Gregorio Vivaldelli, commenta: “a parlare non è solo la voce, ma soprattutto il cuore. Esiste (…) uno spostamento verso l’interno della supplica: la preghiera, lungi dall’essere ripetizione rituale di motivi stereotipati, mostra, ora, la sua autentica sorgente, il cuore (…). Infine, la terza parte del versetto invita a passare dall’imperativo all’appropriazione della scelta fatta, dall’orante, il quale si decide nell’intraprendere questa ricerca che lo impegna per tutta la vita e in tutte le sue dimensioni”. Il Signore comanda di cercare il Suo volto, ma l’orante volge l’imperativo in ricerca personale. Il comando, però, Dio lo trae dal Suo cuore. 
Barth disse che l’oggetto del lavoro teologico non è ‘qualcosa’, ma ‘qualcuno’ e, aggiunse: la ‘teologia retta’, se assume consapevolmente Dio a proprio Oggetto, inteso come Soggetto che agisce e parla, pur se indirettamente, implicitamente, si fa necessariamente suspirium, preghiera. Se si fa teologia con spirito di servizio, nel raccoglimento della preghiera, il confronto tra i logoi teologici non diviene drammatico, non scontro, ma incontro tra anime tese tutte verso Dio per la salvezza del mondo. Egidio di Roma ebbe parole profonde per quanti – pur da diversi punti di vista – si fanno cercatori di Dio: Vi sono persone che provano gusto a denunciare come erronee le opinioni dei loro colleghi teologi che elaborano la nostra fede e illuminano la Chiesa. È una precipitazione che non è senza pericolo per la fede. Il lavoro dei teologi, grazie al quale avanziamo nelle vie della verità, richiede in effetti un correttore vigile e libero, non un detrattore che avvelena.

Qualche anno fa, tra le mani ho avuto un libro, pubblicato da Claudiana: Ricerca di Dio e domanda di senso. Dialogo tra un teologo e uno psicologo. Un testo a due voci. La prima, è quella di Pinchas Lapide; l’altra, appartiene al padre della logoterapia, Victor E. Frankl. Lapide, a pagina 32, offre l’occasione di comprendere cosa è e non è teologia: “‘teologia’ è una parola assurda, se è intesa come scienza su Dio, perché non può esistere una cosa simile. Ma se la teo – logia va intesa nell’originario significato greco, come discorso su Dio (…), come una ricerca di senso in Dio, allora, ovviamente, il termine è giustificato. Ma la teologia – ed è questa la hybris che speriamo Dio voglia perdonarle – vuole a ogni costo diventare una scienza, cosa praticamente impossibile.Al massimo, può diventarlo ricostruendo storicamente in che modo gli esseri umani nel passato hanno vissuto Dio, lo hanno cercato, o come hanno percepito un’ombra della divinità. Dio stesso non si può stipare a forza dentro una facoltà universitaria”.

La teologia può assumere veste scientifica, dunque, soltanto se si dà come ricostruzione storica delle idee che gli uomini hanno elaborato intorno a Dio, ma ciò non è scienza di Dio, bensì esame scientifico delle cose dette su Dio. La teologia è un discorso e non una scienza; cerca il senso, non semplicemente il significato; ne va dell’essere dell’uomo, non dell’episteme. Ritengo opportuno, ora, fermare l’attenzione su di un film di Tarkovskij, Andrei Roublev. Protagonista è un giovane fonditore di campane, Boriška. Apprensivo ed a tratti sfiduciato, va in cerca della migliore argilla per lo stampo della campana desiderata dal principe. Aggrava la ricerca una pioggia che non dà respiro, mentre il giovane si cala in un dirupo fangoso e, sul fondo dell’avvallamento, finalmente trova quanto cercava. Le immagini ce lo mostrano quasi sepolto dalla terra limacciosa; una sepoltura accettata per giungere alla rinascita di artista. Il teologo, come il giovane Boriška, pur conscio della immane difficoltà del compito, deve andare alla ricerca della migliore attrezzatura linguistico – concettuale per esprimere la propria esperienza di Dio; questa è la sua argilla per formare lo stampo di una teologia che piaccia al Principe/Cristo.La pioggia di contestazioni del mondo complesso, post – moderno, non dà tregua e ci si deve calare nei dirupi fangosi della storia sempre più lontana dalle provocazioni trascendenti. Si deve scendere nel fango della storia e trovare la migliore argilla per forgiare una buona teologia. Seppellirsi nelle questioni più infuocate ed insidiose del proprio tempo è la sola occasione per risorgere come teologo capace di far risuonare la campana dell’annuncio evangelico per come è gradito al Principe/Cristo. Il teologo sa che la migliore argilla si trova sul fondo limaccioso del non ascolto del mondo. In fondo, è la stessa fede ad essere “un abito oscuro e nudo” (San Giovanni della Croce). Per von Balthasar, un teologo può seriamente esistere solo se ‘prima’ si è immerso nelle misteriose strutture dell’essere creato. Le ‘misteriose strutture’, talvolta, sono limacciose come l’avvallamento nel quale si cala, coraggiosamente, il giovane fonditore di campane. In fondo, l’accademia entra relativamente nelle fatiche teologiche poiché, per lo più, la teologia è – una dialettica di provocazione e risposta (Tracy) che coinvolge tutte le dimensioni della persona. Dialogando con Bruno Forte, il filosofo Vincenzo Vitiello ha sostenuto che Dio, innanzitutto, è passione! Stando così le cose, conclude, “non lo si cerca senza patirlo (…). Chi cerca Dio per essere felice ha cambiato Dio con un idolo. Dio si cerca per Dio, non per altro”. Se ogni credente autentico ha la passione di Dio, il teologo in cosa si distingue? Apprezzo quanto, a tale proposito scrive René Latourelle:  “vi è in ogni cristiano una riflessione inerente alla fede (…). La teologia scientifica è il prolungamento della riflessione spontanea (…) è la fede vissuta da una mente che pensa; essa è scientificamente elaborata (…) è la fede che assume il discorso della ragione per comprendere meglio il suo oggetto”. Che l’apporto delle scienze umane non basti a chiarire le ‘ragioni della speranza cristiana’ è ovvio; infatti, la fede cristiana è in stretto rapporto col paradosso: “La condizione cristiana è paradossale. Si è invitati a divenire se stessi, ma al prezzo di un cambiamento. Vi si accoglie la promessa di una vita ma a condizione di attraversare la morte. Si è chiamati a darsi, ma possono farlo soltanto quelli che imparano ad essere se stessi. Non si arriva alla maturità nella fede senza passare attraverso qualcosa che assomiglia alla rottura, al disorientamento, al decentramento da se stessi”, scrive Paul André Giguère; ed aggiunge che, il ‘punto fondamentale’ di una ‘autentica conversione cristiana’ sta nel servire Dio invece di servirsi di Dio.

Credenti e teologi sono tenuti a sviluppare una fede matura; a cercare, come il giovane fonditore di campane nel film di Tarkovskij, l’argilla migliore; il metodo, il linguaggio migliori, affinché la campana del Principe, l’annuncio del Regno in e di Gesù, Principe della Storia, risuoni nelle coscienze addormentate, desolate, degli uomini del nostro tempo. Qui si innesta una considerazione di Walter Kasper:  “Anche i concetti più centrali della teologia quali grazia, salvezza, peccato, Dio, sono oggi diventati in larga misura termini che non ci dicono più nulla e risentono della mancanza di una base di esperienza”.

La teologia deve presentarsi come una esperienza, pur avvolta dal rigore di un pensiero ben strutturato. Per fare ciò, occorre comprendere che, se il contenuto della fede è immutabile, i modi per comunicarlo sono storici e, dunque, soggetti a revisioni. La fede precede il pensiero teologico che la storicizza nel pieno rispetto, senza nulla snaturare di essa, delle capacità di ricezione dell’uomo al quale si rivolge.  Interessante, ora, è riportare l’esperienza del filosofo Enrico Morselli che parla dell’approccio al messaggio cristiano negli anni della sua giovinezza: “In collegio, i veri sentimenti religiosi erano trascurati: si (…) adempivano gli obblighi rituali del Cattolicesimo, ma senza fervore (…). Disprezzavo la gerarchia chiesastica (…) per la sua ignoranza spesso accompagnata da corruzione (…). Entravo perciò nelle chiese scegliendo l’ora della solitudine e della penombra, e là mi immergevo in meditazioni dolcissime, in veri rapimenti”. 

Va detto, onestamente, che agli errori della gerarchia chiesastica, alla non testimonianza dei compagni di collegio, Morselli somma un altro errore: si rifugia in una fruizione individualistica, intimista, del cristianesimo! Le chiese sono belle e confortevoli nell’ora della solitudine e della penombra, ma le meditazioni rigeneranti dal punto di vista psicologico, nulla apportano ad una fede vissuta come impegno, dono di sé, apertura alle questioni spinose del mondo. Chi vuole seriamente occuparsi di questioni teologiche, non può rifugiarsi nella penombra delle chiese! La teologia ha sempre valenza ecclesiale! Accostarsi, da credenti o da teologi, alle provocazioni evangeliche esige sempre la “testimonianza di una fede viva e matura (…) opportunamente educata alla capacità di guardare in faccia e con lucidità le difficoltà per superarle” (Gaudium et spes, 21, 5).  Nessuno, laddove il rifiuto del cristianesimo si fa granitico, può reagire appropriandosi delle parole di un personaggio di Albert Camus: “Addio, brava gente, capirete un giorno che non si può vivere bene sapendo che l’uomo è nulla e che il volto di Dio è tremendo”.

Non sminuisco il valore della formazione spirituale, né disconosco la fecondità del contemplare ma, fare teologia, per me, è un’attività; qualcosa che incide profondamente nel vivere! La lezione non è nuova. San Bonaventura, scriveva: Utrum teologia sit contemplationis gratia an ut boni fiamus?, si fa teologia per desiderio di contemplare o per santificarci? Il massimo sarebbe far convive re i due momenti. Continuava Bonaventura: “sapere che il Cristo è morto per noi, e altre verità simili, non può non suscitare l’amore”.  Sì, meditare, cercare le ragioni della speranza cristiana in noi, significa suscitare l’amore. Illustrando la ‘morte di Cristo’ il teologo deve far cogliere il di Dio all’uomo ed alla storia e, nella Risurrezione, mostrare come il sì di Dio si contrappone alla nientificazione di uomo e mondo! Ha scritto Jüngel: “Nella morte di Gesù il ‘sì’ di Dio che costituisce ogni essere si è esposto al ‘no’ del nulla. Nella risurrezione di Gesù Cristo questo ‘sì’ si è esposto al ‘no’ del nulla. Ed è qui che si è deciso, secondo la grazia, perché in generale vi sia l’ente e non invece il nulla. Infatti: ‘Se Egli non fosse risorto, il mondo sarebbe tramontato’ (inno ecclesiastico)”.

Heidegger – di cui Jüngel ascoltò le lezioni - aveva riproposto l’interrogativo della metafisica: perché è in generale l’ente e non piuttosto il nulla? A volere l’ente, che il mondo e l’uomo continuino ad esistere è il sì definitivo di Dio detto in Cristo morto e risuscitato! Alla domanda filosofica, piena di stupore di fronte all’ente, diamo una risposta teologica. Se è vero, come dice Tillich, che essere finiti significa essere minacciati, resta che Dio “è la risposta alla domanda implicita nella finitezza dell’uomo; egli è il nome di ciò che interessa ultimamente l’uomo”. Tale interesse, però, non è pacificamente riconosciuto; occorre che si mostri all’uomo che è evidente cercare in Dio la risposta al nostro essere finiti, minacciati dal nulla. Jüngel ha ragione, ma per noi che crediamo: è il sì di Dio nella morte e risurrezione di Cristo detto definitivamente al no del nulla a mantenere l’ente! Ma per chi non crede? Il filosofo Popper, dialogando con l’etologo Lorenz, diceva di avere questa convinzione: la vita cerca un mondo migliore e, dunque, è scettica (nel senso del verbo greco cercare). Se scettico viene da cercare, anche il teologo che cerca l’argilla migliore per lo stampo della sua teologia è scettico. Lo deve essere, ma verso quanto pretende di proporsi (o imporsi) come quel mondo migliore che tutti cerchiamo! Scettici su modi, linguaggi, metafore che si pretendono ‘assoluti’, non sui contenuti di fede che essi veicolano! In fondo, anche gli avversari del pensare teologico ammettono che non tutto, dalle nostre parti, va gettato alle ortiche. Voglio rubricare una citazione e, dopo, ne fornirò, forse stupendovi, la paternità: “quanto sembrano invidiabili, a noi uomini di poca fede, quei ricercatori che sono convinti dell’esistenza di un essere supremo! (…). Quanto comprensive, esaurienti e definitive sono le dottrine del credente in confronto ai faticosi, miseri e parziali tentativi di spiegazione che sono il massimo che noi riusciremo a mettere insieme”.

L’autore, pensate, è Sigmund Freud! L’argilla migliore, però, il teologo non la ottiene a buon prezzo; anzi, come nel caso del personaggio di Tarkovskij, solo rischiando la sepoltura sotto il fango dell’incomprensione la può trovare. Fare teologia non è soltanto riferire dati e date, ma sentire nella carne il pungolo delle questioni decisive. Il teologo si versa in una scienza patica perché deve narrare la propria e l’altrui scelta di fede tappa per tappa, sofferenza per sofferenza. Non si può, come insegna Sesboüé,  “proporre la fede cristiana senza proporre parallelamente l’accesso a questa fede (…), senza dire al tempo stesso tramite quale procedimento e percorso i cristiani sono pervenuti a questa confessione (…), come è apparsa quale atto umano giustificabile agli occhi della ragione e della storia”. Ogni percorso di fede è infuocato: “I discepoli – continua Sesboüé – non hanno creduto in Cristo nell’arco di una giornata (…). I vangeli ci aprono una finestra sulla genesi della fede dei primi testimoni dell’evento di Gesù”. I contributi dell’ermeneutica, dell’esegesi e, più in generale, della riflessione teologica sono stati sofferti, ma sempre importanti. O’Collins, infatti, nota: “Storicamente non è mai esistito un Gesù non interpretato (…). Fin dai primissimi incontri con Gesù avvenuti decenni prima della stesura dei vangeli sinottici, i primi discepoli e poi quelli successivi dovettero necessariamente interpretare la persona e la loro esperienza di essa”.

I discepoli, ricordava Sesboüé, non sono arrivati facilmente a credere in Cristo perché, come ora aggiunge O’Collins, a loro non solo occorreva interpretare la Persona/Cristo, ma anche la personalissima esperienza del Salvatore. Toccò, l’incombenza ermeneutica, ai “primi discepoli” e poi a “quelli successivi”. La Chiesa, coi Suoi teologi, Concili, continua a chiedersi, sollecitata dalla domanda dello stesso Gesù, chi mai Lui fosse! Freud non ha del tutto ragione a ritenere che le dottrine del credente siano invidiabili. Come per ottenere la migliore argilla al giovane eroe di Tarkovskij, così a noi, per trovare argomenti a sostegno della pretesa cristiana, è richiesto un grande sacrificio. L’Antico Testamento presenta le figure di Esdra e Neemia che devono organizzare la vita, non solo cultuale, del popolo ebreo dopo l’esilio. Esdra, sacerdote e scriba, aveva capito che – come è obbligatorio per il teologo odierno – occorreva partire dalla Parola. Di lui, dice la Scrittura: “aveva applicato il cuore a studiare (daras) la Legge (Torah) del Signore, e a praticarla (‘aśah) e ad insegnare (limmad) in Israele la Legge e gli statuti” (Esd 7, 10). Studiare – praticare – insegnare la Parola! Il teologo, come Esdra, deve organizzare la vita del popolo cristiano intorno a certezze di fede che si possono insegnare solo se, prima, da lui stesso studiate e praticate. Chi si dedica, come Esdra, con tutto il cuore all’impresa sa che, in questo sforzo, salire un gradino può causare il retrocedere di due! I sapienti ebrei erano ben avvisati riguardo a ciò. Racconta Buber: “Fu chiesto a Rabbi Levi Isacco: ‘Perché in tutti i trattati del Talmud babilonese, manca la prima pagina e ognuno comincia con la seconda?’. Egli rispose: ‘Per quanto un uomo abbia studiato, deve sempre ricordarsi che non è ancora arrivato alla prima pagina”.

Il teologo è un ricevente creativo: accoglie una Rivelazione, ma la deve rendere credibile a chi non la conosce e, mi permetto, anche all’ateo che sonnecchia in lui ed in ogni credente! È, inoltre, meta – testimone: non testimone oculare, ma appassionato testimone di altrui testimonianze. Con lo studio, accertando l’attendibilità storica dei testi che lo precedono, narra qualcosa di fondato su Qualcuno sul Quale, poi, fiduciosamente fondarci. Le provocazioni teologiche invitano a riflettere: è solo per intima consistenza che le cose sono, piuttosto che precipitare nel nulla? E, come aveva risposto Jüngel, il teologo deve mostrare che le cose sussistono grazie al sì di Dio. L’uomo è stanco di portarsi la Storia sulle spalle. Ha scritto Bataille: “La vita umana è stremata di servire da testa e da ragione dell’universo”.

Non ce la si fa più a concentrarsi interamente su se stessi; occorre de – centrarsi in Cristo per meglio centrarsi, ma ora senza ossessione, su se stessi. Bisogna essere–nel–Cristo, come insegna l’apostolo Paolo (cfr., 1Cor 1,30). L’espressione sottolineata ricor re, nell’epistolario paolino, più di 164 volte! Tale concentrazione cristologica, però, non avviene evitando la Croce, ma consegnando ad essa ogni nostro tormento, anche accademico, perché non la si addolcisce tentando di cogliere su di essa la rosa hegeliana della speculazione che dice di un felice e certo superamento (Aufhebung) del negativo. Il teologo sempre è – ricordava Barth – sottoposto ad un particolare Bedrängnis (termine tedesco che possiamo rendere in italiano con tormento). Qual è, dunque, per il Nostro, il tormento particolare del teologo? ‘Parlare di Dio’, ma solo  ricorrendo a ‘parole umane’. Si tratta – aggiungeva – di avere coscienza, allo stesso tempo, delle due condizioni: il ‘nostro dovere’ (Sollen) di parlare ed il ‘nostro non – potere’ (Nicht – können) farlo; si rende, proprio per questo, onore a Dio. Il teologo, dunque, per il Nostro, è situato in una ‘singolare esistenza – speciale’ (merkwürdige Sonderexistenz), tra ‘tempo’ ed ‘eternità’. Fra tutte queste lacerazioni, meglio rinunciare alla teologia? Come diceva Rahner, davvero l’intero nostro parlare di Dio non è che l’ultima parola prima del tacere? Non credo le cose stiano così. Barth concludeva che, in fondo, il tormento (Bedrängnis) teologico è “solo il segno del tormento di tutti i compiti umani”. Appare chiaro che “rinunciare alla teologia ha tanto poco senso quanto togliersi la vita (…). Dunque, perseveriamo, niente di più. Dobbiamo sapere appunto queste due cose, la necessità e l’impossibilità del nostro compito”. Anche il giovane fonditore di campane Boriška era triste perché gli sembrava impossibile rinvenire l’argilla migliore per lo stampo della campana desiderata dal principe; tuttavia, come dice Barth, persevera, niente di più! Può accadere, continua il teologo, perseverando, “che la parola di Dio, che noi non diremo mai, abbia assunto la nostra debolezza e stortura, così che la nostra parola nella sua debolezza e stortura sia stata resa capace di essere almeno involucro e vaso di creta della parola di Dio”. Perseverare nel cercare di scoprire se la Parola si introduce nel nostro debole dire può rivelare anche, in caso di conferma, la portata pratica della stessa per la vita del mondo. La teologia – sulla scorta dell’immancabile efficienza della Parola – deve assumere rilevanza pubblica. La Teologia politica, infatti, “vuole che la parola cristiana diventi una parola socialmente efficace. Essa cerca categorie che non servano solo alla illuminazione delle coscienze, ma anche alla loro trasformazione” (Metz).

C. S. Lewis, letterato e non teologo, pure ha riconosciuto la necessità di fare teologia. Ecco il suo argomento. Vedere l’Atlantico dalla spiaggia e, successivamente, su di una mappa, può valere, certo, come passaggio da qualcosa di reale ad altra meno reale. La mappa non è l’Atlantico ma, a ben considerare, è pur sempre il prodotto della testimonianza di numerose persone che sono state sul posto; se, poi, si vuole andare da qualche parte, la mappa è necessaria: “La teologia – conclude Lewis – è come la mappa”. Le dottrine mai coincideranno con Dio, ma fondano sull’ esperienza di testimoni attendibili. La mappa ci dice dei percorsi di quanti hanno cercato – non senza sofferenze – l’argilla migliore per lo stampo della loro teologia affinché, in essa, come una campana, risuonasse la voce di Dio. Una teologia meramente soggettiva sarebbe soltanto (e non anche) emozionale…una ‘religione sentimentale’ attira in quanto divide il lavoro dalle emozioni. La teologia, per Lewis, si dà come “una necessità pratica”; ed aggiunge: “specialmente oggi”. Perché? Se un tempo, risponde, l’istruzione era rara ed i dibattiti riservati a pochi specialisti, ormai tutti pretendono spazio nella discussione intorno a Dio. Il rischio è che si contrabbandino per coraggiosi - volenterosi cercatori della migliore argilla personaggi che forgiano le loro campane facendo ne lo stampo col più scadente dei materiali. Ignorare la teologia, si dice, non rende orfani di idee riguardo a Dio; forse è così, ma di certo non ci si renderà conto che la “gran parte delle idee su Dio che oggi si fanno passare per novità sono semplicemente idee che i veri teologi hanno esaminato, e respinto, secoli addietro”.

Non conoscere i percorsi teologici che hanno condotto ad una ‘certa’ purificazione della nostra fede, significa esporsi con più ingenuità alle idee inquinate di alcuni falsi profeti.Lewis definisce la teologia scienza sperimentale ‘in un certo senso’. Solo in parte, cioè, essa si può accostare ad altre scienze sperimentali. Ci viene proposto l’esempio dello geologo. Questi, può studiare le rocce soltanto se le va a cercare; esse, ovvio, non possono raggiungerlo, né fuggirlo. Soltanto il geologo può, deve prendere l’iniziativa. Uno zoologo, per fotografare animali selvatici nel loro habitat, deve andare a cercarli ma, a differenza delle rocce, gli animali possono fuggire e sottrarsi all’osservazione. L’iniziativa, cioè, non è più in mano soltanto al cercatore. Così, se vogliamo conoscere una persona, questa può sottrarsi alla nostra presenza; l’amicizia, infatti, può accendersi solo col consenso pieno di due soggetti! Chi vuol conoscere Dio, continua Lewis, deve sapere che è Lui il solo a poter prendere l’iniziativa. Si mostra a chi vuole e non per capriccio, bensì in risposta alla buona disposizione di mente e cuore del cercante:
“Così – conclude il nostro autore – come la luce del sole, pur non avendo predilezioni, non può riflettersi in uno specchio polveroso chiaramente come in uno limpido”. Nella scienza gli strumenti utilizzati sono esterni a noi; vediamo Dio, invece, con uno strumento particolare: tutto il nostro essere. Se è opaco, la visione di Dio non potrà essere limpida. La teologia non è il frutto di una visione soggettiva di Dio, ma di una lunga, lenta, meditata, sofferta fede comunitaria. Chiude Lewis: “il solo strumento veramente adeguato per apprendere qualcosa su Dio è l’intera comunità cristiana (…). Ecco perché tutti quei personaggi che di tanto in tanto se ne vengono fuori col brevetto di qualche loro religione semplificata da sostituire alla tradizione cristiana sono soltanto perditempo. Come un uomo che avendo per solo strumento un vecchio binocolo da campo voglia mettere in riga gli astronomi veri (…). Se il cristianesimo fosse una nostra invenzione, potremmo renderlo più facile (…). Chiunque è capace di essere semplice, se non ha una realtà di cui tener conto”.

Ci distingue dal fonditore di campane di Tarkovskij il fatto che la ricerca dell’argilla migliore per lo stampo della nostra teologia (affinché, come una campana faccia sentire ad ogni tocco la voce di Dio), è non avventura solitaria, bensì comunitaria. Fare teologia da soli, quasi sempre partorisce fantasmi; il cristianesimo non è facile, ma non lo si può semplificare perché – essere teologi o semplici credenti – significa sempre tenere conto di una realtà. Quale? In Cristo si mostra che Dio è esigente. Non solo sul piano dell’agire, ma anche su quello del pensare. Dunque, fare teologia non è attività senza conseguenze. Teologi e credenti si affratellano nella fede ricevuta e custodita integra dalla Chiesa ed ammettono che parlare di Dio (da completare con il parlare a Dio e con il lasciarsi parlare da Dio) accomuna nell’umiltà di fronte ad una Parola che, direbbe Rebora, finisce con lo zittire chiacchiere nostre.

Lo studioso della teologia protestante André Gounelle, ci confida due esperienze. La prima: “Una delle mie uditrici, dopo una conferenza sulle ricerche della teologia contemporanea, mi disse: ‘Lei ha affrontato domande che mi pongo da più di vent’anni, ma che non ho mai osato esprimere, perché pensavo che un credente non dovrebbe essere preoccupato o turbato. Che sollievo sapere che dei pastori, dei preti, dei teologi ne parlano e vi riflettono. Non sono un mostro tra i cristiani’”. Nella seconda, lo studioso fa comprendere che, in ogni caso, le domande teologiche sono complesse e che se ci accingessimo a chiarire, parola per parola, cosa meditamo, ci perderemmo; tuttavia, ci invita a riflettere anche sul fatto che non si possono affrontare alla leggera e velocemente questioni simili. Ascoltiamolo ancora: “Un giorno, sul treno, uno dei miei compagni di scompartimento, vedendo il libro che stavo leggendo, mi ha chiesto: ‘Allora, lei crede che Dio esista?’. Per essere onesto, avrei dovuto rispondere: ‘Sì e no allo stesso tempo; dipende da che cosa lei intende per Dio, dal senso che dà a esistere e da ciò che significa per lei credere’. Ho ritenuto questa risposta troppo complicata (…) e, poiché ci muovevamo ad alta velocità, ho detto: ‘Penso che egli è’. Il mio interlocutore mi avrebbe sorpreso e imbarazzato se avesse replicato: ‘Che cosa intende per pensare e per essere?’. Non lo ha fatto; la teologia ad alta velocità non va mai troppo lontano”.

Non ho discusso – per motivi di spazio – la questione se oggi la teologia è in crisi o ancora può dire molto. Ad ogni modo, lascio una provocazione: una vera critica all’idea di Dio, al linguaggio religioso, al modus credendi cristiano non può darsi se non attraversando giudiziosamente i sentieri stessi della teologia (o delle teologie) messe sotto esame! L’idea è stata espressa brillantemente da Kolakowski: “Persino quando si scatena una conflagrazione che sembra far saltare in aria tutta la nostra eredità, l’esplosivo si trova già nel patrimonio ereditario”. Nella stessa eredità teologica sono disseminate cariche esplosive perché il nostro patrimonio cristiano è il precipitato di battaglie tra teologi e di infuocati Concili. Nulla è mai stato fissato per comodo irenismo. La Verità – dice un poeta spagnolo – è più alta della luna e, certo, molto al di sopra della nostra intelligenza. Cercando, attraverso la teologia, la Verità dobbiamo, per parafrasare Ignazio di Loyla, cercare come se tutto dipendesse da noi e pensare di aver trovato come se tutto non potesse che venire da Dio. Uno zaddik, un giusto ebreo, disse che tutti i detti l’un l’altro contraddicentesi dei saggi sono veri nel cielo, perché nel cielo tutte le verità sono unite. Aggiunse, però: Vedremo!

Ecco il sano senso del limite: Vedremo! Viaggiamo sulle fragili zattere di arrischiati logoi: la validità di essi ammette solo certificazione escatologica. Salendo sull’albero delle pericolanti imbarcazioni dogmatico – linguistiche – concettuali, possiamo, per ora, raccogliere materia per offrire – diciamo con linguaggio platonico - bei racconti in attesa dello svelamento pieno della Verità. Il teologo, consapevole dei suoi limiti è, per riprendere una bella immagine di Walter Benjamin, come un “naufrago alla deriva su un relitto” e che “si arrampica sulla cima dell’albero ormai fradicio. Ma di lassù” – ecco il germe di speranza da far crescere – “egli ha la possibilità di dare un segnale che lo può salvare”. Male sarebbe lasciare l’instabile imbarcazione per vegetare sulla terraferma di nozioni prive di vita, o attaccarsi all’albero fradicio della zattera ritenendo inutile la fatica di arrampicarsi per mandare un segnale che mostri la nostra volontà di essere salvati. Dobbiamo scegliere: darci coraggiosam ente al lavoro teologico facendovi entrare il soffio dello Spirito o cloroformizzare la nostra coscienza inquieta affidandoci ad idoli. Mirjam Viterbi Ben Chorin, ha detto: “Sento che noi (…) tutti ci troviamo oggi a un bivio: seguire lo Spirito o tapparci gli occhi e le orecchie e inchinarci agli idoli. Poiché anche le religioni non idolatre ‘hanno’ idoli. Tutto ciò che si è pietrificato nel tempo, che è divenuto un simulacro vuoto di Spirito, o che sopravvive per imperativi estranei alla sincerità del nostro ‘essere’ oggi, tutto ciò, specie se si ammanta dell’oro finto di una religione stereotipata, noi dobbiamo distruggerlo, se vogliamo andare secondo le vie che l’Eterno ha tracciato per noi nel tempo”. Il compito del teologo consiste nel rigettare l’oro finto di una religione stereotipata e lanciarsi, costi quel che costi, come il giovane fonditore di campane, alla ricerca dell’ argilla più buona preparando uno ‘stampo impeccabile’ per il proprio lavoro perché Dio merita che suonino le campane migliori.      

Nell’‘Almanacco di scienze’ (MicroMega 2/2007), Richard Dawkins, nel suo contributo (‘Perché quasi certamente Dio non esiste’), parte dalla convinzione che l’esistenza di Dio non è dimostrabile.Se l’Ipotesi di Dio viene processata scientificamente, se ne deduce che è ‘non necessaria’ ed ‘altamente dispendiosa’; meglio spiegare l’universo e l’origine della vita affidandosi al ‘principio antropico’ ed alla ‘selezione naturale’. Nello stesso numero dell’Almanacco, il filosofo della mente Daniel Dennett, nel contributo intitolato ‘E liberaci da Dio’, ragiona su un libro recente di Dawkins: The God Delusion. Il titolo fa testo: Dio è stato ed è deludente! Nel saggio si vuol dimostrare che l’estinzione della religione garantirebbe al mondo un futuro migliore. Dennett, che non aspira a compiti di sacrestia, onestamente si chiede cosa ne potrebbe prendere il posto “o che cosa sorgerebbe spontaneamente – e per questo”, ammette, “sono ancora pronto ad esplorare l’ipotesi di riformare la religione”. Dawkins, invece, chiude ogni varco al dialogo ed annuncia programmi televisivi, pubblicizza un sito web ed in appendice al suo libro offre “un elenco parziale di indirizzi cui possono rivolgersi le persone che hanno bisogno di aiuto nella loro fuga dalla religione”. Questo attacco generale alla religione viene ristretto al cristianesimo a partire dalle ironiche considerazioni che Dawkins fa a proposito del peccato e della salvezza. Adamo, dice il dissacrante autore, non è mai esistito e Gesù avrebbe dovuto saperlo! Se quanto narrato nel Genesi è solamente ‘simbolico’, ne conclude Dawkins, “per essere efficace, Gesù si sarebbe lasciato torturare e mettere a morte, come vittima delegata a ricevere la punizione di un peccato simbolico commesso da un individuo non esistente? Come ho già detto: completamente fuori di testa, oltre che disgustosa”. Se la conoscenza teologica rimane a livello di sentito dire, di prima alfabetizzazione cristiana, ecco cosa rimane dell’avventura umana in compagnia di Dio narrata nella Bibbia! Che la teologia continui a lavorare per illuminare sempre più la fede rendendola quanto più consapevole e critica, se si vogliono evitare disastri alla Dawkins. Un conto è non credere nella storia teandrica giudeo – cristiana, un altro è irriderla senza averla attraversata dotandosi dei mezzi richiesti. Ci sono autori che scrivono contro il cristianesimo; eppure, ne conoscono superficialmente la mappa e non hanno alcuna intenzione di arrischiare una visita sul posto!

Non è, tuttavia, che non ci sia più voglia di religione…anzi! Purtroppo, se ne ha un proliferare equivoco e sconsiderato. Il CESNUR, Centro Studi sulle Nuove Religioni, compilando nel 2003 l’Enciclopedia delle religioni in Italia, recensì oltre seicento realtà religiose/spirituali. A livello mondiale, invece, nel 1988 Beith – Hallahmi, descrisse 2.200 ‘Nuovi Movimenti Religiosi’. Mutano linguaggi, categorie di pensiero, attese ed una teologia che voglia pensare il futuro ed al futuro non può aggirare l’ostacolo. Sempre nel 2003 uscì un film di Alejandro Gonzalez Iňarritu, 21grammi. Il titolo va spiegato. Secondo esperimenti – ancora destanti perplessità – effettuati nel 1907, al momento della morte pare che il corpo perda circa 21 grammi: che sia l’anima che va al cielo? Ci si aggrappa a tutto pur di raccontarsi che siamo qualcosa di più che un groviglio di cellule…Ma spiritualismo non è spiritualità e meno che meno fede. Cox scrisse che “stiamo entrando in una nuova ‘età dello Spirito’” anche se il fatto di trovarsi in essa comporta il convivere “con tutte le promesse e i pericoli che i risvegli religiosi portano sempre con sé”. Il fenomeno dell’atipico ritorno della religione (ma io insisto nel dire che si tratta di una nuova ondata di spiritualità), avvertiva Cox, ormai si verifica “su scala mondiale”. In maniera straripante si parla, se non gradite che mi impantani nell’espressione ‘nuova spiritualità’, genericamente di religioni e non di fede cristiana. Cosa vuol dire ciò per la teologia futura? Si deve dialogare con tutto questo e farlo impiegando – diremmo con René Char – attrezzi nuziali. La Commissione Teologica Internazionale, nel 1997, stilò un documento: Il cristianesimo e le religioni: “In primo luogo – si legge al n. 7 – il cristianesimo dovrà impegnarsi a comprendere e valutare se stesso nel contesto di una pluralità di religioni” ed a “riflettere in concreto sulla verità e universalità che (…) rivendica” per cercare, poi, “il senso, la funzione e il valore proprio delle religioni nella totalità della storia della salvezza”. Compito specifico della teologia sarà quello di “studiare ed esaminare le religioni concrete con i loro contenuti ben definiti che dovranno essere posti a confronto con i contenuti della fede cristiana”. Se non abbiamo piena conoscenza dei contenuti della fede cristiana si vanifica lo sforzo di conoscere quelli di altre credenze religiose.

Nel 2004, André Glucksmann si è chiesto perché l’Europa debba essere l’unica a produrre una civiltà senza Dio. Hans Blumenberg ha parlato di delusione escatologica: l’uomo post – moderno, a suo dire, non attende più dal futuro il radicalmente nuovo, ma presagisce solo angosce ed inquietudini. La teologia deve spiegare che la riflessione escatologica non è mai stata e mai sarà fuga mundi perché – ricordava de Lubac – la vita eterna è anche una speranza per il futuro ma, in primo luogo, “è un’esigenza per il presente”. Come insegnava Bonhoeffer, i cristiani che stanno sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in paradiso! La posizione autenticamente cristiana deve essere equilibrata. Non è sano amore per la terra quello proclamato da Nietzsche che invitava a “non ficcare più la testa nella sabbia delle cose del cielo”, ma “a portarla liberamente”; aspirava a dotare l’uomo di “una testa terrena, che crea il senso della terra”. Da qui discendono disperate posizioni. Il filosofo rumeno Cioran, ad esempio, afferma che la salvezza risiede nell’acquistare la certezza che salvezza non c’è! Se nel tempo non si ode più il battito dell’ eterno, i giorni divengono smorte candele che si spengono una alla volta…Il cristiano deve pensare diversamente il tempo e pregare con Gilbert Cesbron: Signore, fate che oggi sia un giorno vero, non un giorno in più. La teologia non può ignorare la sfida della defuturizzazione: dell’incapacità, cioè, a credere che sia possibile un futuro. Fu questa incapacità a condurre al suicidio lo scrittore Cesare Pavese? Non ho la presunzione di rispondere, ma è legittimo chiedermelo quando penso che scrisse di non riuscire a sopportare l’idea di vivere un giorno in cui nulla accadrà e che è l’inutilità la cosa più amara. Cosa è successo?
La delusione escatologica di cui parlava Blumenberg, a mio avviso, origina da un fenomeno evidenziato da Michael Novak. Da giovane desiderava essere sacerdote cattolico ma, poi, si dedicò allo studio della ‘dottrina sociale delle chiese’. Diventò il teologo cattolico del capitalismo democratico americano. Cucì sulla pelle del nostro secolo le questioni teologiche di sempre; ad esempio, ripensando la Trinità (Kant riteneva ciò infruttuoso sul piano pratico), ne ricavò l’impegno a modellare la comunità su di essa. Chi l’avesse seguito in questo progetto, scrisse, avrebbe condiviso la vita di Dio. L’Incarnazione gli insegnò che “occorre essere umili, pensare in modo concreto, affrontare i fatti, allenarsi al realismo”.La sua visione disincantata (che qui non fa rima con disperata) del mondo lo condusse a spiegare cosa abbia provocato la sfiducia escatologica nell’uomo post – moderno: “Ogni società tende ad erigere al proprio centro una ‘tenda sacra’ che offra un sicuro punto di riferimento alla comunità; ma nelle società secolarizzate non vi è più nessuna ‘tenda sacra’ ma soltanto ‘uno scrigno lasciato vuoto’”. Sta alla qualità della teologia che faremo decidere – se le tende sacre sono state rimosse – cosa o Chi dovrà riempire lo scrigno.

In Europa, pensare Dio è una sfida cruciale per la teologia (oggi e domani). Lo studioso dell’integrazione europea Weiler ci informa che gli psicologi, riferendosi ai soggetti che tentano di nascondersi qualcosa di importante della realtà, usano il termine denial, negazione; ebbene, l’Europa nega di avere un debito con Cristo e con il Cristianesimo. Nel Preambolo della nuova Costituzione Europea, lamenta lo studioso, “non c’è spazio per Dio”; eppure, anche quando a dire ‘sono un europeo’ è un laico (nell’accezione estrema del termine) deve riconoscere, “se non vuol fare lo struzzo, che nella cultura che definisce la sua propria ‘europeità’ c’è” comunque l’“importante sostrato culturale cristiano”. Weiler non è cristiano, ma ebreo praticante e, dunque, ritiene che la Costituzione europea dovrebbe dar spazio alla tradizione giudeo – cristiana. La patologia dell’Europa fin – de – siècle è, a suo dire, la Cristofobia che conduce alla rimozione di Dio e del Cristianesimo dai testi costituzionali dell’Unione Europea e non per “ragioni costituzionali di principio”, bensì a causa di “motivi di tipo sociologico, psicologico, emotivo”.
Gli strali critici di Weiler, però, si appuntano anche sulla pelle di molti cristiani che “si nascondono” e “non tanto perché siano perseguitati da qualcuno”, ma perché provano ‘imbarazzo’ nel confessare la loro fede. Il nostro autore picchia duro: fatte poche eccezioni, è convinto del fatto che “l’importanza del Cristianesimo per il progetto di integrazione europea” non è percepita neppure dagli stessi cristiani. La teologia dovrà fare i conti soprattutto con lo scolorimento dell’identità cristiana non più consapevolmente accolta e curata. Weiler precisa che nemmeno una Europa pancristiana è auspicabile. Nei suoi scritti c’è attenzione e rispetto anche per i musulmani! In una visione allargata della questione, il nostro autore rileva che le “sfide spirituali dell’Europa sono gravi” ma, tuttavia, cala una parola di speranza che, ad iniziare da noi cristiani, merita di venir colta ed amplificata.Weiler invita allo sforzo di comprendere “come attraversare il ponte lungo della modernità e della post – modernità senza compromettere la dignità umana e l’amore. L’importante è non aver paura”. Il coraggio di questa traversata deve alimentarsi all’insegnamento di Mounier: la santità è la sola politica valida.

Nel 1971, Jean Marie Aubert pubblicava uno studio: Pour une théologie de l’âge industriel. Siamo, ormai, nella società post – industriale nella quale a costituire ricchezza sono informazione e conoscenza con le relative tecnologie (per lo più elettroniche) che le veicolano, ma alcune tesi di Aubert conservano intatto valore. Il cristiano, sottolineava, deve inserirsi in un mondo “in crescita continua” per “apportarvi il fermento evangelico”. La teologia deve far dialogare l’immutabile logos evangelico con la fluidità inarrestabile del mondo. A voler sintetizzare la posizione di Aubert, possiamo ricorrere alle sue stesse parole: “Illuminato dalla fede, il cristiano deve mirare a giocare” il “ruolo di attivatore” dei germi di sviluppo disseminati nella realtà (o nelle realtà) stimolando, contemporaneamente, valori nuovi; non va dimenticato, però, che il cristiano è anche il “lucido contestatore degli aspetti negativi” insiti nelle opportunità del tempo in cui vive. Non si irrigidisce, cioè, in un solo atteggiamento: attiva quanto v’è di positivo intorno a lui, stimola la nascita di nuovi valori e si pone anche come lucido contestatore di quanto non gioca in favore dell’uomo e della sua dignità.
La teologia deve ribadire, per dirla con Merleau – Ponty,  che l’autentico cristiano è sempre un elemento di disturbo per ogni potere costituito e finanche per ogni rivoluzionario perché l’escatologia guarda molto più lontano dell’utopia. Jürgen Moltmann parte dal presupposto che l’unico vero problema della teologia cristiana sia quello del futuro; mentre, però, gli spiriti dell’utopia sono creature nostre, gli spiriti dell’escatologia fondano su Cristo. Le parole della speranza cristiana – scrive il teologo tedesco – “non sono il risultato di esperienze bensì la condizione perché nuove esperienze siano possibili”. Nell’Apocalisse Dio dice che ‘fa nuove tutte le cose’. Moltmann sostiene che se la vita cristiana deve riconoscere priorità alla fede, deve però concedere il primato alla speranza: “Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera vita, ma soltanto la speranza ve lo mantiene”.
La teologia deve avvertire sempre più la necessità di distinguere utopia da escatologia ed una utopia negativa da una positiva. Paolo VI, nella lettera Octogesima adveniens, definiva negativa l’utopia assunta come alibi per disertare la storia e positiva quella che si configura come immaginazione prospettica e che lascia percepire le possibilità inscritte nel presente al fine di indirizzarci “verso un futuro nuovo, attraverso la fiducia” riposta nelle “forze inventive dello spirito e del cuore” (n. 37). Si tratta di far agire lo Spirito del Signore “che anima l’uomo rinnovato nel Cristo” e che “scompiglia senza posa gli orizzonti” nei quali la nostra intelligenza vuole pigramente pacificarsi e “sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri” la nostra azione. Lo Spirito anima il cristiano per spingerlo nel futuro nuovo! Nocke sostiene che la questione del futuro si pone con urgenza finendo col costituire la questione del senso della vita in questo mondo e proponendosi alla fede cristiana in forma di domanda: “in che misura la speranza cristiana promette speranza per la storia dell’umanità?”. Il quesito di Nocke sfida, senza vie di fuga, la teologia futura. I cristiani dovranno avere sempre presente che, come dice Metz, sono gli operai che edificano l’avvenire e non i semplici interpreti di esso.
Si tratta, per Pareyson, di “fondare una nuova cultura cristiana” inaugurando ‘nuove modalità’ per ritrovare il cristianesimo. Se si trattasse, precisa, soltanto di “riesumare un antichissimo frammento di tempo” sarebbe una impresa inutile; riproporre contenuti della nostra fede non potrà mai risolversi in un’operazione di archeologia concettuale/dogmatica. Gioca a favore del cristiano, secondo Pareyson, il fatto che “la nuova cultura dipende anche da lui”. Qualcuno ammette, come fa Bellet, che – in un certo senso – il vangelo è vecchio! Può esso, nel luogo inaugurale della cultura odierna, aprire un nuovo spazio di vita? Bellet risponde affermativamente perché convinto del fatto che “il tempo delle cose che più contano non è comandato dalla cronologia” e riproporre la ‘lezione evangelica’ si dà come feconda “ripetizione dell’inaudito”. A tutto questo, però, va anteposto un suggerimento di Schillebeeckx: non si deve pensare la Trascendenza di Dio proiettandola nell’eternità intesa come un passato reso eterno; piuttosto, Dio è Colui che verrà.         L’ermeneutica biblica deve avere sempre un occhio proteso al futuro; non bisogna, conclude Schillebeeckx, “guardare indietro alla Bibbia, ma guardare avanti con la Bibbia”.

Alfaro sostiene che se la Chiesa vuole essere “segno efficace di speranza” per questo mondo non può non proporsi come “comunità in esodo verso il futuro di Dio”. D’altro canto, afferma Pareyson, “l’esperienza fondamentale dell’uomo è un’esperienza di trascendenza”. Il che, ribadisco, non equivale a disinteresse per la realtà. Come precisa Schillebeeckx, piuttosto, la ‘verifica della fede cristiana’ trova il proprio principio nel fatto che i cristiani “mostrano nella loro vita pratica di possedere una speranza capace di trasformare il mondo già sin da ora”. La vita presente, per Agostino, è una speranza! Questo deve far emergere costantemente la teologia cattolica. I teologi illustrino le ‘peculiarità’ della speranza cristiana, poiché le tematiche religiose (o spiritualiste) contemporanee tendono sempre più – come scrive Carmelo Dotolo – a “preferire l’esperienza anonima del sacro come via verso l’Assoluto”. Timothy Radcliffe, ex Maestro Generale dei Domenicani, affermava che, a caratterizzare il nostro tempo è, da un lato, lo scetticismo di chi non riconosce l’importanza delle parole teologiche e, dall’altro, l’intolleranza di chi crede che a dire tutto sono le parole secolari.
La modernità ha secolarizzato la salvezza ritenendola compito esclusivamente intramondano. Si è, per dirla con Rosenzweig, compreso il divino come autoproiezione dell’umano nel cielo del mito. Per il nostro autore, se la Rivelazione si è un giorno incrostata in una realtà storica, questa ne è talmente colorata che ormai non la si può più riscrivere come quelle realtà che non hanno mai conosciuto il peso dell’idea di Rivelazione carica di senso. Lo storico Ēmile Poulat, afferma che l’uomo contemporaneo, se conserva la possibilità di restare religioso, di esserlo nuovamente, fa i conti con l’essere collocato in quadri sociali e mentali di cultura, di attività, di valutazione che non sono più religiosi; dunque, conclude, a finire non è il cristianesimo, bensì un certo spirito cristiano; finisce una storia, non la storia. De Lubac poneva una domanda: “Di ogni situazione storica si può intravedere una conclusione; ma chi ci mostrerà la Conclusione?”. Se la teologia riaprirà a ‘tempo pieno’ l’ufficio escatologico, nessuno pretenderà di mostrare la Conclusione che non è il futuro sognato dall’uomo, ma il Futuro disegnato da Dio.

Non ci può bastare l’atteggiamento di chi, come Henri Desrosche usava fare con i suoi allievi, invita a definire ‘religione’ soltanto ciò che la società ritiene essere tale. Il cristianesimo, infatti, deve dialogare con il ‘nostro tempo’, non conformarsi ad esso. Paul M. van Buren, chiedeva: chi ci libererà dai limiti, dalle ingiustizie e finanche dalla morte? Si deve, continuava, solidarizzare con quanti, aderendo ai vari movimenti di liberazione, gridano “la loro rabbia e frustrazione” per i mali del mondo; tuttavia, a liberare, può essere soltanto ciò che è “impossibile ed incoerente, empiricamente insignificante ed irrilevante”. Van Buren fa riferimento al Dio che è grazia e conclude: “È questo che noi tutti dobbiamo ricordare, se ci deve essere una teologia oggi”. Essa deve ricordare all’uomo che la salvezza è dono gratuito di Dio. Parole inattuali? La costante dell’uomo religioso, per van Der Leeuw, è di andare oltre le minuzie della vita perché ad essa “cerca di trovare un senso” e la “organizza (…) in vista di un insieme significativo”. L’uomo che agisce in questo modo è certo che “qualche cosa” – che lo studioso chiama l’estraneo, il totalmente Altro – “viene verso di lui sulla strada”.
Se vorremo abitare umanamente il mondo, occorrerà una analisi assai critica dei progetti orizzontali perché sappiamo di essere cercati dal Trascendente. Guida sicura o forza frenante, per van der Leeuw nell’esperienza religiosa vissuta una potenza estranea, del tutto diversa, si inserisce nella vita” e fa passare dallo stupore alla fede. Non si sta dicendo che la ragione, qui, non meriti diritto di cittadinanza; Gregorio di Nissa sosteneva addirittura che, se un uomo non ha rispetto per la ragione, non merita di chiamarsi cristiano. Giustino affermava che la Ragione divenne uomo e si chiamò Gesù Cristo. Proprio perché la teologia incoraggia una fede pensata e pensante, deve dialogare con chi la contesta. Dovere del teologo è allestire una dialettica animata, non animosa!  Merleau – Ponty invitava a dialogare con le filosofie che negano Dio perché, spiegava, il nostro rapporto con il vero passa attraverso gli altri; se non vi andiamo con chi si contrappone al nostro credo, non è al vero che andiamo. La filosofia, però, non deve disconoscere gli indubbi meriti del cristianesimo. Gilson disse che l’intervento della Rivelazione tra noi e i greci è un fatto: ha modificato profondamente le condizioni nella quali la ragione deve operare. Nietzsche sosteneva che nessuna filosofia cristiana sarebbe stata possibile senza ‘platonismo’ ed ‘aristotelismo’, ma è anche vero che quei due nutrimenti non avrebbero sviluppato tutte le loro potenzialità restando orfani delle provocazioni cristiane.

Per Mounier, a minacciare il cristianesimo non è più l’eresia, come avveniva quando ancora i dibattiti teologici appassionavano; pericoli, ormai, vengono da una silenziosa apostasia! Finisce, per Mounier, non il cristianesimo, ma la cristianità occidentale ed attendiamo altre forme di cristianesimo da nuovi strati sociali e da innesti extraeuropei Per il filosofo, il cristianesimo non è più solo, ma circondato da morali, eroismo e santità nuove; d’altro canto, non è riuscito a legarsi intimamente al mondo moderno come col mondo medioevale. Dobbiamo piangere sullo status quo? No! Essere cristiani è aver memoria del futuro: ricordare che ci è stata fatta una promessa escatologica. Sottoscrivo questa tesi di Mounier: “se si aderisce troppo alla storia quale è, si finisce per non costruire più la storia quale deve essere”. Sappiamo qual è e quale è stata la storia del cristianesimo? Bene, ombre e luci a parte, cerchiamo di comprendere cosa dovrà essere! Un fecondo elemento di discussione è sorto in Tanzania, nel 1976, al primo Congresso dei teologi e teologhe del Terzo Mondo: si chiedeva di interpretare la Parola di Dio in relazione alla nostra propria realtà. Nei paesi poveri, la Parola, pur conservando la propria identità cattolica, dice anche altro!

Il sacerdote Raimon Panikkar, filosofo e scienziato, si disse, essendo nato da madre spagnola cattolica e padre indiano indù, al 100% cattolico ed al 100% indù. Seminando nel solco di tale consapevolezza, si è domandato: “c’è bisogno di essere spiritualmente semita e intellettualmente greco per essere cristiano?”. Ammette che ‘queste due nozioni’ hanno una vastità tale da coprire ‘una grande varietà di interpretazioni’ ma resta, conclude, che entrambe “non esauriscono l’umano”. Panikkar auspica che il linguaggio cristiano venga parlato ‘liberamente’, ‘creativamente’ fuori dall’Occidente in quanto una teologia cristiana convincente non può darsi “senza prendere in considerazione il più ampio spettro delle differenti tradizioni religiose del mondo”. Riconosciuti i meriti delle giovani Chiese ricche di nuova linfa per la cristianità occidentale, va detto che già il Vaticano II aveva aperto simili prospettive. La Gaudium et Spes, infatti, apre con l’invito ai cristiani a condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi”. Dobbiamo unire le istanze provenienti dalle comunità cristiane del Terzo Mondo e gli insegnamenti conciliari se la teologia in futuro vuol dire qualcosa meritevole di ascolto. Dal Brasile giunge alla teologia occidentale l’invito a ripensare Dio in termini di freschezza, quotidianità. Maria de Soledade da Silva, riconosce di aver appreso dalla Teologia della liberazione a vedere piccoli segni del Regno, cose belle nascoste nell’immondizia della società. È rimasta fortemente impressionata da quanto disse un suo amico analfabeta: ‘Come non vivo senza l’aria che respiro, così non vivo senza Dio nella mia vita’. Se la teologia saprà suscitare simili posizioni, avrà fatto un passo avanti. Insegnarci a vedere i piccoli segni del Regno ovunque è il compito della futura teologia. La nostra piena umanizzazione va costruita attingendo all’antropologia cristiana mirabilmente sintetizzata in una frase del poeta Paul Claudel: Dovremmo somigliare sempre più al Figlio Gesù tanto che il Padre non saprebbe più come distinguerci. La teologia deve mostrare sempre più le ragioni che le fanno dire – con Paolo VI, che il cristianesimo non è facile, ma felice.

Siamo nel già e non ancora: il Regno di Dio è tra noi, ma non pienamente realizzato. Gregorio di Nissa sosteneva che quanto qui attendiamo lo sperimenteremo personalmente e “mostrerà la nullità di qualsiasi discorso” attuale teso nello sforzo di rappresentarci “il nostro futuro”. Marcel, infatti, non esita a ricordarci che, oltre al problema che comprendiamo c’è il mistero che ci comprende e questo può svelarsi solo per la sovrana, libera volontà divina. Mauriac, dal canto suo, tentava di rappresentarsi il ‘paradiso cristiano’, ma doveva ammettere che il “possesso fuori dallo spazio e dal tempo di quell’amore in cui ho più fiducia che nella mia stessa vita, è letteralmente inimmaginabile, sfugge alla capacità della vita umana, a ogni approssimazione”. Ci è concessa appena una inesausta tensione escatologicamente orientata che l’esercizio della teologia può e deve pensare. Una tensione che interessa l’intero creato. Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive: “la creazione attende (apokaradokía) con gran desiderio la manifestazione dei figli di Dio” (8, 19). Lutero, nel 1516, a proposito della expectatio creaturae, precisò che, mentre i filosofi si concentrano sul ‘presente delle cose’ riflettendo su qualità e caratteri, Paolo orienta lo sguardo teologico “a quello che esse saranno in futuro. Infatti egli (…) parla (…) usando un termine teologico nuovo e singolare” dell’attesa del creato. Il teologo deve allenare lo sguardo a cogliere l’intrinseca tensione escatologica. La Speranza dell’attesa cosmica è ammissibile, per Moltmann, in quanto, quella cristiana, è speranza rammemorata; riferita, cioè, “alla memoria della passione di Cristo” la Cui Risurrezione fa comprendere che “nella sua fine sulla croce va trovato il nuovo inizio”. Cristo, vincendo la morte, mostra che “l’ordine di questo mondo mortale è stato stravolto”. Non va dimenticato – sottolinea il teologo tedesco – che nella Risurrezione si rivela “non l’eternità del cielo, ma il futuro di quella stessa terra in cui si innalza la sua croce”. Immaginare il futuro secondo le linee guida dell’escatologia lascia pensare ai fini della Storia e non – allucinati ed impauriti – alla fine della Storia.

In un tempo come il nostro, nel quale è lecito, come fa Tillard, chiedersi se siamo gli ultimi cristiani, non esagera Jäger a parlare del coraggio di fare teologia. Se si dà come ‘pensare di Dio’ si configura, radicandosi nel ‘nostro tempo’, in una lezione di speranza. Dio va trovato, però, precisa Jäger, in situazione di difficoltà e non posto, con artifici teorici, in collocazioni di senso tranquille. La realtà di Dio, conclude, “è l’inquietudine dell’odierna teologia”. Essa, se vuole essere onesta, non deve operare come se avesse Dio in tasca! Pensare e ripensare Dio tra sfide ed opportunità: ecco l’esercizio che assicura un futuro alla riflessione teologica. Von Balthasar aveva ragione: la teologia deve essere una occupazione perenne; infatti, come la manna del deserto è commestibile per un giorno, così non si può trasmettere una riflessione teologica che non si rinnovi, pur nella fedeltà agli immutabili principi cristiani. Si tratta di animare una creatività interna alla fedeltà alla Parola. Lingua, immagini, concetti – continuava von Balthasar – sono il vaso che contiene la rivelazione cristiana; esso, però, può impolverarsi e finanche sbriciolarsi. Garantire alla fede ed alla riflessione sistematica su di essa “il più giovanile vigore”, impone che tutto venga riferito a quanto è “ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. Il futuro della teologia è garantito dal ‘giovanile vigore’ attingibile soltanto alla Rivelazione che attende di realizzare, a partire dal già in cui siamo, il non ancora promesso. Dire, come faceva San Giovanni della Croce, che in Cristo Dio ci ha dato la Sua Parola definitiva, impone un lavoro, lungo i sentieri del tempo, individuato da Antonio Piolanti: mentre lo storico lavora per assegnare a Gesù un posto nella storia, il cristiano opera perché sia la storia ad avere un posto in Cristo ottenendo, così, la realizzazione escatologica della stessa. Si deve promuovere la cristificazione del ‘cosmo’ e dell’‘uomo’. In futuro la teologia lavori alacremente per convertire la Cristofobia (Weiler) in Cristophilìa: dalla paura di Cristo, alla gioia amorevole in con e per Cristo. Si rivoluziona il proprio tempo solo lavorando ad una configurazione escatologico/cristica della storia.
Scrive Moltmann: chi spera in Cristo “non può più accettare la realtà come si presenta”. È la speranza a fare in modo, aggiunge, che la comunità cristiana rimanga centro di costante movimento all’interno di società che tendono, maleficamente, a “cristallizzarsi in una ‘città permanente’”. Una teologia che abbia a cuore il futuro torna all’antica lezione di Giovanni Crisostomo: il cristiano dovrà rendere conto del mondo intero! Chi è il cristiano che guarda positivamente al futuro? Provo a rispondere con Karl Rahner: non aspirava, disse, che a diventare un cristiano per il quale il cristianesimo è una cosa seria, capace di innestarsi come forza vitale nel mondo contemporaneo, senza complessi; muovendo da queste premesse, il cristiano, continuava Rahner, deve ammettere alcuni problemi sui quali riflettere. Concludeva: “Se questo lo si vuol chiamare teologia, allora va bene”. Il cristianesimo era una ‘cosa seria’ anche per Bonhoeffer. Confessò che sapere cosa fossero veramente nel Novecento ‘Cristo ed il Cristianesimo’ è “il problema che non mi lascia tranquillo”. Siamo nell’epoca del disincanto, della complessità e se la sociologa Rosa Alberoni parla della cacciata di Cristo, Massimo Introvigne riflette sul dramma dell’Europa senza Cristo. Difficoltà in aumento e minacce sempre più gravi alla nostra fede, tuttavia, non devono scoraggiarci dal cercare di offrire, come si legge nel Nuovo Testamento, le ‘ragioni della nostra speranza’. Tutti faremo i conti con – per dirla con Nietzsche – quel “terribile punto interrogativo che si chiama cristianesimo”, ma in relazione a nuove o riesumate proposte religiose/spiritualiste/magico/ esoteriche. C’è chi lamenta che la teologia dovrà agire, a causa degli attacchi subiti dalle altre forme di sapere, con strumenti devitalizzati. E se fosse? Inviterei a seguire la strada tracciata dal filosofo e teologo berlinese Helmut Gollwitzer: ascoltare “insieme a tanti altri messaggi vecchi e nuovi” quanto ci comunica il cristianesimo perché nelle vicende di Gesù non si fa riferimento a dei o ad un Dio “sopra o al di fuori della nostra vita”, bensì viene svelata in Lui “senza abbellimenti la miseria e la povertà della nostra condizione umana”.
Qui non ci viene chiesto di “saltare oltre la nostra situazione”, ma di trovare all’interno di essa “un soffio di speranza”. Soltanto un po’ per volta, scrive Gollwitzer, scopriamo il significato che ha per noi Gesù. Il fatto è che, ammette il nostro autore, le grandi costruzioni dottrinali della tradizione valgono soltanto per quegli uomini vissuti “in un mondo pieno di Dio”; noi, invece, possiamo pensare e dire Dio soltanto restando “fedeli (…) alla nostra povertà” e “costruire la nostra comprensione della fede cristiana soltanto a partire dai suoi elementi più semplici”. La figura di Gesù indica che dobbiamo amare il nostro prossimo e promette un amore vero per noi. Per Gollwitzer, dunque, questa è “la nostra modesta teologia e cristologia: solo una capanna in paragone alle grandi costruzioni del passato, ma pur sempre una capanna in cui si può vivere”. Se i voluminosi trattati di dogmatica del passato vantavano sicure descrizioni dell’universo dal punto di vista di Dio, a noi restano “un piccolo paletto indicatore, un sottile raggio di luce; è poco ma è già qualcosa che ci permette di proseguire a tastoni la nostra vita non totalmente al buio”.

Dobbiamo farci bastare poca luce, una esigua ‘speranza’ per guardare avanti, direbbe Boccioni, fino allo scoppio delle pupille. Un insegnamento viene da una storiella. Quattro candele tengono un amaro dialogo. La prima, il cui nome è Pace, lamenta il disinteresse ad essa mostrato dagli uomini e sa che non può che spegnersi. La seconda, Fede, piange ed è prossima a non brillare più a causa della sua inutilità. La terza, Amore, afferma che gli uomini, ormai, non comprendono più la sua importanza in quanto odiano finanche le persone più care! Anch’essa si spegne e, nel frattempo, un bambino entra nella stanza dove la semioscurità si è fatta minacciosa. Il piccolo ha paura ed esclama: ‘Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio’. Scoppiò in lacrime e, la quarta candela, inteneritasi, disse: ‘Non temere, non piangere: finché sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre: io sono la Speranza’. Il bimbo si rincuorò, la prese e riaccese le altre candele.

La filosofa Graziella Berto ricorda una lezione di Freud: solitudine, silenzio, oscurità sono in stretta connessione con l’angoscia infantile e la maggior parte degli esseri umani non se ne libera del tutto. Nel terzo dei Tre saggi sulla teoria sessuale, sottolinea la Berto, Freud sfiora il tema dell’angoscia infantile dovuta all’oscurità: non è il buio ad angosciare, ma il fatto di non poter vedere in esso la persona amata patendone, così, la ‘mancanza’. Non indirizzandosi alla persona importante per noi, la libido si muta in angoscia. Come era arrivato Freud a questa tesi? Racconta di aver sentito pronunciare queste parole ad un bambino di tre anni in una stanza buia: ‘Zia, parla con me; ho paura del buio’. La zia, rispose: ‘Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso’. ‘Non fa nulla – ribatté il bambino, - se qualcuno parla c’è luce’. La luce, l’altro, la voce…(non sono termini assiduamente frequentati in teologia?). Anche il buio dell’assenza di senso in cui sempre più precipita il mondo alimenta la nostra angoscia. La teologia, dall’uomo post – moderno che si dibatte incerto nella stanza buia del presente, è invitata a parlare di Dio senza preoccuparsi di farsi vedere. Non si pensi che una visibilità eccessiva porti frutto; molto, se non tutto, dipende da cosa avremo da dire, in quanto cristiani, a chi cerca il senso della vita. L’altro attende una parola, ma che sia ricca di senso: se si parla c’è luce! Si legge in un passo evangelico: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna.
La parola teologica non tema il buio andando lungo i sentieri della storia, interrotti per quanto attiene la comunicazione col Trascendente, e si sforzi di aprire varchi al Dio che viene. Sui sentieri interrotti se, per dirla ancora con Heidegger, ormai solo un dio ci può salvare, riattiviamo i collegamenti con l’Oltre trovando ragioni che mostrino che non un dio, ma il Dio manifestatosi in Gesù di Nazareth salva!
La Parola che dobbiamo testimoniare è vincente perché, non solo è Logos (udibile), ma è – chiarisce il Vangelo di Giovanni - anche sarx (visibile). Scrive Maggioni che, facendosi ‘carne’, “la parola di Dio si è fatta visibile, Parola iconica”.























Conclusione

Ha senso parlare di teologia ad un uomo sempre più attento a conoscersi ossequiando parametri scientifici, narcotizzato da seduzioni tecnologi che? In un mondo sempre più popolato da vecchi credenti vanamente nostalgici ed uomini indifferenti, si può sperare che religione e fede cristiana trovino spazio? Rispondo attingendo dal saggio di uno psicologo e psicoterapeuta, Pasquale Ionata: Nati per amare (Roma 2006).
In un mondo che tende sempre più a rimuovere la paura di invecchiare, a deprezzare il patrimonio culturale e religioso di quanti sono avanti negli anni, proprio l’anziano può insistere nel mostrare il senso e la bellezza della comunicazione col Verticale. Lars Tornstam, ricercatore svedese, ha coniato il termine gerotrascendenza.
In età avanzata, dice, si passa da una visione materialistica e razionale ad una più disponibile verso la dimensione cosmico/trascendentale. Ci si sente in comunione cosmica con lo spirito dell’universo. L’anziano è meno attaccato alle cose…Scrive Ionata:
“forse non è un caso che il Vangelo di Luca si apra con due figure di anziani, Simeone e Anna, che riconoscono e indicano Gesù come Messia”. Anche la vita nascente è terreno fertile per le tematiche religiose. Ionata ci ricorda che “Erikson ritiene che un’educazione dei bambini fondata sulla religione e sulla tradizione rafforzi la fiducia originaria del bambino” e, tale fiducia in Dio, “deve divenire la base di ogni discorso su di Lui”.
Dalla nascita alla vecchiaia, dunque, la religione non è incompatibile con una ben condotta vita umana. Questo deve significare molto per una teologia volta al futuro. Otto Rank sosteneva che l’uomo è un essere teologico, non biologico! Pensava, perciò, che l’esigenza di un’autentica ideologia religiosa è insita nell’umana natura. Anche la scienza che si occupa dell’hardware umano innerva di speranza la teologia futura. Ionata richiama l’attenzione sugli studi di Dean Hamer, biologo molecolare, che inquadra la religione come un prodotto dell’evoluzione. Si è individuato un gene, che Hamer chiama The God Gene (gene di Dio), preposto, diremmo, all’attività religiosa. Ramachandran sostiene vi siano ‘circuiti cerebrali’ che garantiscono l’esperienza religiosa; strutture che definisce modulo di Dio. Il neuroscienziato canadese Michael Persinger, stimolando magneticamente i lobi temporali di molti soggetti, ha rilevato che, nell’80% dei casi, si prova la sensazione di ‘non essere soli’, che si dia la ‘presenza di un altro’!
Il radiologo Andrei Newberg e lo psichiatra Eugene d’Aquili, ricorrendo alla risonanza magnetica, hanno visto che meditazione e preghiera attivano specifiche regioni cerebrali. L’istinto al divino è fondato neurobiologicamente? Matthew Halper è l’autore del libro The God part of the brain (Dio parte del cervello). Nel saggio spiega che la religiosità consegue dal fatto che l’uomo – dotato di autocoscienza – sa di essere mortale e, per superare l’angoscia che ne deriva, ha fatto in modo che si selezionasse un meccanismo cognitivo che convinca della superabilità della morte fisica. Anche laddove c’è sconforto, manca consolazione, la scienza ritiene si possano rinvenire – neurobiologicamente – tracce di Dio. Il famoso esperto di psicotraumatologia, Bessel van der Kolk, ha esaminato migliaia di persone scampate a “guerre, abusi, terremoti, terrorismo” ed ha rilevato “un aspetto fondamentale della psicologia del traumatizzato, e cioè quella che lui chiama ‘Godforsaken’ (…), la sensazione tremenda di essere abbandonati da Dio”. Questi non sono dati che, di per sé, possano giustificare l’interesse futuro per la nostra ‘dimensione religiosa’ e meno che mai valere per accendere o accrescere l’interesse per la fede cristiana. Deve far comunque pensare il fatto che l’interesse per la religione non ha detto l’ultima parola nemmeno in ambito scientifico e, con tutto questo, la teologia non può non confrontarsi. Ci basti, per ora, quello che dice Ionata: “la religione, e in particolare la cristiana, offre un’interpretazione della vita e una sua regola imperniata interamente sull’amore”.
E se l’amore – ed è certo il caso di quello cristiano – spinge a dire all’altro tu non morrai (Marcel), la speranza cristiana – che pone tutto entro la categoria della pienezza di vita (cioè, della sua destinazione escatologica), contiene quanto vale la pena pensare ora ed in futuro.  

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