Gli ideali sono come le stelle: non li
raggiungeremo mai. Ma come i marinai in alto mare possiamo tracciare il nostro
cammino seguendole (Jean Paul Sartre)
Georges Bernanos sosteneva che,
smarrita la cristianità, ce ne siamo
costruita un’altra di ‘cartapesta’: un teatrino
di cristianità. Con un ‘pannello’, un ‘barattolo di vernice’ chiunque può
allestire un Petit Pays réel, une petite Chrétienté réelle. Il fatto,
però, concludeva lo scrittore francese, è che “ogni tanto una candela cade dal
palcoscenico e appicca il fuoco”. Una cristianità
artefatta, dunque, ha pure qualche possibilità di influire sul mondo; non
tutto è innocuo sugli scenari minimi della cristianità odierna. Nell’Almanacco di scienze [MircoMega (2/2007)], c’è chi nega che
ciò sia vero. Richard Dawkins, nel suo contributo (‘Perché quasi certamente Dio
non esiste’), parte dalla convinzione che l’esistenza di Dio non è
dimostrabile. Se l’Ipotesi di Dio viene processata scientificamente, se ne
deduce che è ‘non necessaria’ ed ‘altamente dispendiosa’; meglio spiegare
l’universo e l’origine della vita affidandosi al ‘principio antropico’ ed alla
‘selezione naturale’. Nello stesso numero dell’Almanacco, il filosofo della
mente Daniel Dennett, nel contributo intitolato ‘E liberaci da Dio’, ragiona su
un libro recente di Dawkins: The God
Delusion. Il titolo fa testo: Dio è
stato ed è deludente! Nel saggio si vuol dimostrare che l’estinzione della
religione garantirebbe al mondo un futuro migliore. Dennett, che non aspira a
compiti di sacrestia, onestamente si chiede cosa ne potrebbe prendere il posto
“o che cosa sorgerebbe spontaneamente – e per questo”, ammette, “sono ancora
pronto ad esplorare l’ipotesi di riformare la religione”. Dawkins, invece,
chiude ogni varco al dialogo ed annuncia programmi televisivi, pubblicizza un
sito web ed in appendice al suo libro offre “un elenco parziale di indirizzi
cui possono rivolgersi le persone che hanno bisogno di aiuto nella loro fuga
dalla religione”. Questo attacco generale alla religione viene ristretto al cristianesimo
a partire dalle ironiche considerazioni che Dawkins fa a proposito del peccato
e della salvezza. Adamo, dice il dissacrante autore, non è mai esistito e Gesù
avrebbe dovuto saperlo! Se quanto narrato nel Genesi è solamente ‘simbolico’,
ne conclude Dawkins, “per essere efficace, Gesù si sarebbe lasciato torturare e
mettere a morte, come vittima delegata a ricevere la punizione di un peccato simbolico commesso da un individuo non esistente? Come ho già detto:
completamente fuori di testa, oltre che disgustosa”. Se la conoscenza teologica
rimane a livello di sentito dire, di prima
alfabetizzazione cristiana, ecco cosa rimane dell’avventura umana in
compagnia di Dio narrata nella Bibbia! Che la teologia continui a lavorare per
illuminare sempre più la fede rendendola quanto più consapevole e critica, se
si vogliono evitare disastri alla Dawkins. Un conto è non credere nella storia teandrica giudeo – cristiana, un altro è
irriderla senza averla attraversata dotandosi dei mezzi richiesti. Ci sono
autori che scrivono contro il cristianesimo, ma ne conoscono superficialmente
la mappa senza mai essere stati davvero sul territorio. La domanda, perciò, è
questa: può la teologia in futuro accendere una candela che,
cadendo dal ‘teatrino cristiano’, provochi un nuovo incendio rianimando la
speranza cristiana che diviene sempre più oggetto di scherno nella coscienza
gelata d’indifferenza dell’uomo post – moderno?
Non è che non ci sia più voglia
di religione…anzi! Purtroppo, se ne ha un proliferare equivoco e sconsiderato.
Il CESNUR, Centro Studi sulle Nuove
Religioni, compilando nel 2003 l’Enciclopedia
delle religioni in Italia, recensì oltre seicento realtà
religiose/spirituali. A livello mondiale, invece, nel 1988 Beith – Hallahmi,
descrisse 2.200 ‘Nuovi Movimenti Religiosi’. Mutano linguaggi, categorie di
pensiero, attese ed una teologia che voglia pensare il futuro ed al futuro non
può aggirare l’ostacolo. Sempre nel 2003 uscì un film di Alejandro Gonzalez
Iňarritu, 21grammi. Il titolo va
spiegato. Secondo esperimenti – ancora destanti perplessità – effettuati nel
1907, al momento della morte pare che il corpo perda circa 21 grammi: che sia
l’anima che va al cielo? Ci si aggrappa a tutto pur di raccontarsi che siamo
qualcosa di più che un groviglio di cellule…Ma spiritualismo non è spiritualità
e meno che meno fede. Cox scrisse
che “stiamo entrando in una nuova ‘età dello Spirito’” anche se il fatto di
trovarsi in essa comporta il convivere “con tutte le promesse e i pericoli che
i risvegli religiosi portano sempre con sé”. Il fenomeno dell’atipico ritorno della religione (ma io
insisto nel dire che si tratta di una nuova
ondata di spiritualità), avvertiva Cox, ormai si verifica “su scala
mondiale”. In maniera straripante si parla, se non gradite che mi impantani
nell’espressione ‘nuova spiritualità’,
genericamente di religioni e non di fede
cristiana. Cosa vuol dire ciò per la teologia futura? Si deve dialogare con
tutto questo (a prescindere da come si intende chiamarlo) e farlo con – diremmo
utilizzando una formula di René Char – attrezzi
nuziali. La Commissione Teologica
Internazionale, nel 1997,stilò un documento: Il cristianesimo e le religioni: “In primo luogo – si legge al n. 7
– il cristianesimo dovrà impegnarsi a comprendere e valutare se stesso nel
contesto di una pluralità di religioni” ed a “riflettere in concreto sulla
verità e universalità che (…) rivendica” per cercare, poi, “il senso, la
funzione e il valore proprio delle religioni nella totalità della storia della
salvezza”. Compito specifico della teologia
sarà quello di “studiare ed esaminare le religioni concrete con i loro
contenuti ben definiti che dovranno essere posti a confronto con i contenuti
della fede cristiana”. Significa che se non abbiamo piena conoscenza dei contenuti della fede cristiana si
vanifica lo sforzo di conoscere quelli di altre credenze religiose.
Nel 2004, André Glucksmann si è
chiesto perché l’Europa debba essere l’unica a produrre una civiltà senza Dio. Hans Blumenberg ha parlato di delusione escatologica: l’uomo post –
moderno, a suo dire, non attende più dal futuro
il radicalmente nuovo, ma
presagisce solo angosce ed inquietudini. Mai come ora è urgente che la teologia
spieghi che la riflessione escatologica non
è mai stata e mai sarà fuga mundi perché
– ricordava de Lubac – la vita eterna è
anche una speranza per il futuro ma,
in primo luogo, “è un’esigenza per il presente”. Come insegnava Bonhoeffer, i
cristiani che stanno sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo
anche in paradiso! La posizione autenticamente cristiana deve essere equilibrata. Non è sano amore per la
terra quello proclamato da Nietzsche che invitava a “non ficcare più la testa
nella sabbia delle cose del cielo”, ma “a portarla liberamente”; aspirava a
dotare l’uomo di “una testa terrena, che crea il senso della terra”. Da qui
discendono disperate posizioni. Il filosofo rumeno Cioran, ad esempio, in una
raccolta di pensieri significativa mente intitolata L’inconveniente di essere nati, affermava che la salvezza risiede
nell’acquistare la certezza che salvezza non c’è! Se nel tempo non si ode più il battito
dell’ eterno, i giorni divengono smorte candele che si spengono una alla
volta…Il cristiano – la teologia deve indurci a pensare diversamente il tempo –
fa propria la preghiera di Gilbert Cesbron: Signore, fate che oggi sia un giorno vero, non un giorno in più. La
teologia non può ignorare la sfida della defuturizzazione:
dell’incapacità, cioè, a credere che sia possibile un futuro. Fu questa incapacità a condurre al suicidio lo
scrittore Cesare Pavese? Non ho la presunzione di rispondere, ma è legittimo
chiedermelo quando penso che scrisse di non riuscire a sopportare l’idea di
vivere un giorno in cui nulla accadrà e
che è l’inutilità la cosa più amara. Cosa è successo? La delusione escatologica di cui parlava
Blumenberg, a mio avviso, origina da un fenomeno evidenziato da Michael Novak.
Da giovane desiderava essere sacerdote cattolico ma, poi, si dedicò allo studio
della ‘dottrina sociale delle chiese’. Diventò il teologo cattolico del capitalismo
democratico americano. Cucì sulla pelle del nostro secolo le questioni
teologiche di sempre; ad esempio, ripensando la Trinità
(cosa che Kant riteneva infruttuosa sul piano pratico), ne ricavò l’impegno a
modellare la comunità su di essa. Chi l’avesse seguito in questo progetto,
scrive, avrebbe condiviso la vita di Dio. L’Incarnazione
gli insegnò che “occorre essere umili, pensare in modo concreto, affrontare i
fatti, allenarsi al realismo”. La sua visione disincantata (che qui non fa rima con disperata) del mondo lo
condusse a spiegare cosa abbia provocato la sfiducia
escatologica nell’uomo post – moderno: “Ogni società tende ad erigere al
proprio centro una ‘tenda sacra’ che offra un sicuro punto di riferimento alla
comunità; ma nelle società secolarizzate non vi è più nessuna ‘tenda sacra’ ma
soltanto ‘uno scrigno lasciato vuoto’”. Sta alla qualità della teologia che
faremo decidere – se proprio le tende sacre vanno rimosse – almeno cosa o Chi
dovrà entrare nello scrigno.
In Europa, pensare Dio è una sfida cruciale per la teologia (oggi e domani).
Lo studioso dell’integrazione europea Weiler ci informa che gli psicologi,
riferendosi ai soggetti che tentano di nascondersi qualcosa di importante della
realtà, usano il termine denial, negazione; ebbene, l’Europa nega di avere un debito con Cristo ed il Cristianesimo. Nel Preambolo della nuova
Costituzione Europea, lamenta lo studioso, “non c’è spazio per Dio”; eppure, anche
quando a dire ‘sono un europeo’ è un laico (nell’accezione estrema del termine)
deve riconoscere, “se non vuol fare lo struzzo, che nella cultura che definisce
la sua propria ‘europeità’ c’è” comunque l’“importante sostrato culturale
cristiano”. Weiler non è cristiano, ma ebreo praticante e, dunque, ritiene che la Costituzione europea dovrebbe
dar spazio alla tradizione giudeo –
cristiana. La patologia dell’Europa fin
– de – siècle è, a suo dire, la Cristofobia
che conduce alla rimozione di Dio e
del Cristianesimo dai testi costituzionali dell’Unione Europea e non per
“ragioni costituzionali di principio”, bensì a causa di “motivi di tipo
sociologico, psicologico, emotivo”. Gli strali critici di Weiler, però, si
appuntano anche sulla pelle di molti cristiani che “si nascondono” e “non tanto
perché siano perseguitati da qualcuno”, ma perché provano ‘imbarazzo’ nel
confessare la loro fede. Il nostro autore picchia duro: fatte poche eccezioni,
è convinto del fatto che “l’importanza del Cristianesimo per il progetto di
integrazione europea” non è percepita neppure dagli stessi cristiani.
La teologia, in futuro, dovrà
fare i conti soprattutto con lo scolorimento dell’identità cristiana non più consapevolmente accolta e curata. Weiler
precisa che nemmeno una Europa pancristiana
è auspicabile. Nei suoi scritti c’è attenzione e rispetto anche per i
musulmani! In una visione allargata della questione, il nostro autore rileva
che le “sfide spirituali dell’Europa sono gravi” ma, tuttavia, cala una parola
di speranza che, ad iniziare da noi cristiani, merita di venir colta ed
amplificata.Weiler invita allo sforzo di comprendere “come attraversare il
ponte lungo della modernità e della post – modernità senza compromettere la
dignità umana e l’amore. L’importante è non aver paura”. Il coraggio di questa traversata deve
alimentarsi all’insegnamento di Mounier: la santità
è la sola politica valida.
Nel 1971, Jean Marie Aubert
pubblicava uno studio: Pour une théologie
de l’âge industriel. Siamo, ormai, nella società post – industriale nella
quale a costituire ricchezza sono informazione
e conoscenza con le relative
tecnologie (per lo più elettroniche) che le veicolano, ma alcune tesi di Aubert
conservano intatto valore. Il cristiano, sottolineava, deve inserirsi in un
mondo “in crescita continua” per “apportarvi
il fermento evangelico”. La teologia deve far dialogare l’immutabile logos evangelico con la fluidità
inarrestabile del mondo. A voler sintetizzare la posizione di Aubert, possiamo ricorrere
alle sue stesse parole: “Illuminato dalla fede, il cristiano deve mirare a
giocare” il “ruolo di attivatore” dei germi di sviluppo disseminati nella
realtà (o nelle realtà) stimolando, contemporaneamente, valori nuovi; non va dimenticato, però, che il cristiano è anche il
“lucido contestatore degli aspetti
negativi” insiti nelle opportunità del tempo in cui vive. Non si
irrigidisce, cioè, in un solo atteggiamento: attiva quanto v’è di positivo intorno a lui, stimola la nascita di nuovi valori e si pone anche come lucido contestatore di quanto non gioca
in favore dell’uomo e della sua dignità. La teologia deve ribadire – per dirla
con Merleau – Ponty – che l’autentico cristiano è sempre un elemento di disturbo per ogni potere
costituito e finanche per ogni rivoluzionario perché l’escatologia guarda molto più lontano dell’utopia. Jürgen
Moltmann parte dal presupposto che l’unico
vero problema della teologia cristiana sia quello del futuro; mentre, però, gli spiriti
dell’utopia sono creature nostre, gli spiriti
dell’escatologia fondano su Cristo. Le parole della speranza cristiana –
scrive il teologo tedesco – “non sono il risultato di esperienze bensì la
condizione perché nuove esperienze siano possibili”. Nell’Apocalisse Dio dice
che ‘fa nuove tutte le cose’. Moltmann sostiene che se la vita cristiana deve riconoscere priorità
alla fede, deve però concedere il
primato alla speranza: “Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera
vita, ma soltanto la speranza ve lo mantiene”.
La teologia deve avvertire sempre
più la necessità di distinguere utopia da
escatologia ed una utopia negativa da una positiva. Paolo VI, nella lettera Octogesima adveniens, definiva negativa l’utopia assunta come
alibi per disertare la storia e positiva quella che si configura come immaginazione prospettica e che lascia
percepire le possibilità inscritte nel presente al fine di indirizzarci “verso
un futuro nuovo, attraverso la fiducia” riposta nelle “forze inventive dello
spirito e del cuore” (n. 37). Si tratta di far agire lo Spirito del Signore “che anima l’uomo rinnovato nel Cristo” e che
“scompiglia senza posa gli orizzonti” nei quali la nostra intelligenza vuole
pigramente pacificarsi e “sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri” la
nostra azione. Lo Spirito anima il
cristiano per spingerlo nel futuro nuovo!
Nocke sostiene che la questione del
futuro si pone con urgenza finendo col costituire la questione del senso della vita in questo mondo e proponendosi alla fede cristiana in
forma di domanda: “in che misura la speranza cristiana promette speranza per la
storia dell’umanità?”. Il quesito di Nocke sfida, senza lasciar scappatoie, la
teologia futura. I cristiani dovranno avere sempre presente che, come dice Johannes
B. Metz, sono gli operai che
edificano l’avvenire e non i semplici interpreti
di esso. Si tratta, per Pareyson, di “fondare una nuova cultura cristiana”
inaugurando ‘nuove modalità’ per ritrovare il cristianesimo. Se si trattasse,
precisa il filosofo, soltanto di “riesumare un antichissimo frammento di tempo”
sarebbe una impresa inutile; riproporre il contenuto della nostra fede non può
mai risolversi in un’ operazione di
archeologia concettuale o dogmatica.
Gioca a favore del cristiano, secondo Pareyson, il fatto che “la nuova cultura
dipende anche da lui”. Qualcuno ammette, come fa Bellet, che – in un certo
senso – il vangelo è vecchio! Può
esso, nel luogo inaugurale della
cultura odierna, aprire un nuovo spazio
di vita? Bellet risponde affermativamente perché convinto del fatto che “il
tempo delle cose che più contano non è comandato dalla cronologia” e riproporre
la ‘lezione evangelica’ si dà come feconda “ripetizione dell’inaudito”. A tutto
questo, però, va anteposto un suggerimento di Schillebeeckx: non si deve
pensare la Trascendenza
di Dio proiettandola nell’eternità intesa come un passato reso eterno; piuttosto, Dio è Colui che verrà. L’ ermeneutica biblica deve avere sempre un occhio
proteso al futuro; non bisogna, conclude Schillebeeckx, “guardare indietro alla
Bibbia, ma guardare avanti con la
Bibbia ”.
Il teologo Alfaro sostiene che se
la Chiesa
vuole essere “segno efficace di speranza” per questo mondo non può non proporsi
come “comunità in esodo verso il futuro di Dio”. D’altro canto, afferma
Pareyson, “l’esperienza fondamentale dell’uomo è un’esperienza di
trascendenza”.
Il che, ribadisco, non equivale a
disinteresse per la realtà, a disprezzo del contingente. Come precisa Schillebeeckx,
piuttosto, la ‘verifica della fede cristiana’ trova il proprio principio nel
fatto che i cristiani “mostrano nella loro vita pratica di possedere una
speranza capace di trasformare il mondo
già sin da ora”. La vita presente,
per Agostino, è una speranza! Questo
deve far emergere costantemente la teologia cattolica nel confrontarsi con le
provocazioni religiose e laiche che informeranno il futuro. I teologi
illuminino sapientemente le ‘peculiarità’ della speranza cristiana, poiché le tematiche religiose (o spiritualiste)
contemporanee tendono sempre più – come scrive Carmelo Dotolo – a “preferire
l’esperienza anonima del sacro come via verso l’Assoluto”. Timothy Radcliffe,
ex Maestro Generale dei Domenicani, affermava che, a caratterizzare il nostro
tempo è, da un lato, lo scetticismo di
chi non riconosce l’importanza delle parole
teologiche e, dall’altro, l’intolleranza
di chi crede che a dire tutto sono le parole
secolari. La modernità ha secolarizzato
la salvezza ritenendo la compito esclusivamente intramondano. Si è, per
dirla con Rosenzweig, compreso il divino come autoproiezione dell’umano nel cielo del mito. Per il nostro autore,
se la Rivelazione
si è un giorno incrostata in una realtà
storica, questa ne è talmente colorata
che ormai non la si può più riscrivere come quelle realtà che non hanno mai conosciuto il peso
dell’idea di Rivelazione carica di senso.
Lo storico del cattolicesimo moderno, Ēmile Poulat, afferma che l’uomo
contemporaneo, se conserva la possibilità di restare religioso, di esserlo
nuovamente, fa i conti con l’essere collocato in quadri sociali e mentali di cultura, di attività, di valutazione
che non sono più religiosi; dunque, conclude, a finire non è il
cristianesimo, bensì un certo spirito
cristiano; finisce una storia,
non la storia. De Lubac poneva la
questione in questi termini: “Di ogni situazione storica si può intravedere una
conclusione; ma chi ci mostrerà la Conclusione ?”. Se la teologia riaprirà a ‘tempo
pieno’ l’ ufficio escatologico,
nessuno pretenderà di mostrare la Conclusione
che non è il futuro sognato dall’uomo,
ma il Futuro disegnato da Dio.
Non ci può bastare
l’atteggiamento di chi, come Henri Desrosche usava fare con i suoi allievi,
invita a definire ‘religione’ soltanto ciò che la società ritiene essere tale.
Il cristianesimo, infatti, deve dialogare
con il ‘nostro tempo’, non conformarsi
ad esso. Paul M. van Buren, chiedeva: chi ci libererà dai limiti, dalle
ingiustizie e finanche dalla morte? Si deve, continuava, solidarizzare con
quanti, aderendo ai vari movimenti di liberazione, gridano “la loro rabbia e
frustrazione” per i mali del mondo; tuttavia, a liberare, può essere soltanto
ciò che è “impossibile ed incoerente, empiricamente insignificante ed
irrilevante”. Van Buren fa riferimento al Dio
che è grazia e conclude: “È questo che noi tutti dobbiamo ricordare, se ci
deve essere una teologia oggi”. La teologia deve costantemente e
coraggiosamente ricordare all’uomo che la salvezza è dono gratuito di Dio.
Parole inattuali? Non importa. La costante dell’uomo religioso, per van Der Leeuw, è di andare oltre le minuzie
della vita perché ad essa “cerca di trovare un senso” e la “organizza (…) in
vista di un insieme significativo”. L’uomo che agisce in questo modo è certo
che “qualche cosa” – che lo studioso
chiama l’estraneo, il totalmente Altro – “viene verso di lui sulla strada”. Se in futuro
vorremo abitare umanamente il mondo, occorrerà una analisi assai critica dei progetti orizzontali perché sappiamo di
essere cercati dal Trascendente. Si
tratti di una guida sicura o si esperisca una forza frenante, per van der Leeuw
nell’esperienza religiosa vissuta “una potenza estranea, del tutto diversa, si inserisce nella vita” e fa passare dallo stupore alla fede. Non si
sta dicendo che ragione, razionalità non meritino diritto di cittadinanza nelle questioni spirituali,
religiose, teologiche; anzi, da sempre la fede cristiana ne tiene conto.
Gregorio di Nissa sosteneva che se un uomo non ha rispetto per la ragione, non
merita di chiamarsi cristiano. Giustino ricordava che la Ragione divenne uomo e si
chiamò Gesù Cristo. Proprio perché la teologia deve incoraggiare una fede pensata e pensante, deve dialogare con chi la contesta.
Dovere del teologo è animare una dialettica
animata, non animosa (mi si
perdoni il gioco di parole). Merleau – Ponty invitava a dialogare con le
filosofie che negano Dio perché, spiegava, il
nostro rapporto con il vero passa attraverso gli altri; se non vi andiamo
con chi si contrappone al nostro credo, non è al vero che andiamo. La
filosofia, però, non deve disconoscere gli indubbi meriti del cristianesimo. Lo
studioso di filosofia medievale, il cattolico Gilson, infatti, disse che
l’intervento della Rivelazione tra noi
e i greci è un fatto ed ha modificato profondamente
le condizioni nella quali la ragione deve operare. Nietzsche sosteneva che
nessuna filosofia cristiana sarebbe stata possibile senza ‘platonismo’ ed
‘aristotelismo’, ma è anche vero che quei due nutrimenti non avrebbero
sviluppato tutte le loro potenzialità restando orfani delle provocazioni
cristiane.
Per Mounier, a minacciare il
cristianesimo non è più l’eresia,
come avveniva quando ancora i dibattiti teologici appassionavano; pericoli,
ormai, vengono, piuttosto, da una silenziosa
apostasia, un silente rifiuto, indifferente, della fede! Finisce, per Mounier, non il cristianesimo, ma la cristianità occidentale ed attendiamo
altre forme di cristianesimo da nuovi strati sociali e da innesti extraeuropei Per
il filosofo, il cristianesimo non è più
solo, ma circondato da morali, eroismo e santità nuove; d’altro canto, non è riuscito a legarsi intimamente al mondo moderno come col mondo
medioevale. Dobbiamo piangere sullo status
quo? No! Essere cristiani è aver
memoria del futuro: ricordare che ci è stata fatta una promessa di natura
escatologica. Ecco cosa ci fa sottoscrivere senza esitazione questa frase di Mounier:
“se si aderisce troppo alla storia quale è, si finisce per non costruire più la
storia quale deve essere”. Sappiamo qual è e quale è stata la storia del
cristianesimo? Bene, ombre e luci a parte, cerchiamo di comprendere cosa dovrà
essere! Un fecondo elemento di discussione è sorto in Tanzania, nel 1976, al
primo Congresso dei teologi e teologhe del Terzo Mondo: si chiedeva di interpretare la Parola di Dio in relazione
alla nostra propria realtà. Nei paesi poveri, dunque, la Parola non è ossificata in
dogma ma, pur conservando la propria identità cattolica, dice altro!
Riconosciuti i meriti di queste Chiese
ricche di nuova linfa per la cristianità occidentale, va detto che già il
Vaticano II aveva aperto simili prospettive. La Gaudium et Spes, del 7 dicembre 1965, infatti, apre
con l’invito ai cristiani a condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e
le angosce degli uomini di oggi”. Dobbiamo unire le istanze provenienti dalle
comunità cristiane del Terzo Mondo e gli insegnamenti conciliari se la teologia
in futuro vuol dire qualcosa meritevole di ascolto. Dal Brasile giunge alla
teologia occidentale l’invito a ripensare Dio in termini di freschezza, quotidianità
(che non è il giornaliero o il banale) [1] .
Maria de Soledade da Silva, riconosce di aver appreso dalla Teologia della liberazione a vedere piccoli segni del Regno, cose belle nascoste nell’immondizia della
società. È rimasta fortemente impressionata da un suo amico analfabeta:
‘Come non vivo senza l’aria che respiro, le disse, così non vivo senza Dio
nella mia vita’. Se la teologia saprà suscitare nell’uomo simili posizioni,
avrà fatto un passo avanti. Insegnare agli uomini post – moderni a vedere i piccoli segni del Regno ovunque è il
compito della futura teologia. La nostra piena umanizzazione va costruita
attingendo all’antropologia cristiana mirabilmente sintetizzata in una frase
del poeta Paul Claudel: Dovremmo
somigliare sempre più al Figlio Gesù tanto che il Padre non saprebbe più come
distinguerci. La teologia deve mostrare sempre più le ragioni che le fanno
dire – come faceva Paolo VI, che il cristianesimo non è facile, ma felice.
Siamo nel già e non ancora: il
Regno di Dio è tra noi, ma non ancora pienamente realizzato. Gregorio di Nissa
sosteneva che quanto qui attendiamo lo sperimenteremo personalmente e “mostrerà la nullità di qualsiasi discorso” attuale
teso nello sforzo di rappresentarci “il nostro futuro”. Marcel, infatti, non
esita a ricordarci che, oltre al problema
che comprendiamo c’è il mistero che
ci comprende e questo può svelarsi solo per la sovrana, libera volontà
divina. Mauriac, dal canto suo, tentava di rappresentarsi il ‘paradiso
cristiano’, ma doveva ammettere che il “possesso fuori dallo spazio e dal tempo
di quell’amore in cui ho più fiducia che nella mia stessa vita, è letteralmente
inimmaginabile, sfugge alla capacità della vita umana, a ogni approssimazione”.
Ci è concessa appena una inesausta tensione
escatologicamente orientata che l’esercizio della teologia può e deve
pensare. Una tensione che interessa
l’intero creato. Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive:
“la creazione attende (apokaradokía) con gran desiderio la
manifestazione dei figli di Dio” (8, 19). Lutero, nel 1516, a proposito della expectatio creaturae, scrisse che,
mentre i filosofi si concentrano sul ‘presente delle cose’ riflettendo su qualità
e caratteri, Paolo orienta lo sguardo teologico
“a quello che esse saranno in futuro. Infatti egli (…) parla (…) usando un
termine teologico nuovo e singolare” dell’attesa
del creato. Il teologo deve
allenare lo sguardo a cogliere l’intrinseca
tensione escatologica. La
Speranza dell’attesa cosmica è ammissibile, per
Moltmann, in quanto, quella cristiana, è speranza
rammemorata; riferita, cioè, “alla memoria della passione di Cristo” la Cui Risurrezione fa
comprendere che “nella sua fine sulla croce va trovato il nuovo inizio”.
Cristo, vincendo la morte, mostra che “l’ordine di questo mondo mortale è stato
stravolto”. Non va dimenticato – sottolinea il teologo tedesco – che nella Risurrezione si rivela “non l’eternità
del cielo, ma il futuro di quella stessa terra in cui si innalza la sua croce”.
Pensare il futuro secondo le linee guida dell’escatologia non consente di pensare la fine – imminente o lontana –
del tempo e del cosmo, bensì rende sempre più evidente il progetto di Dio
pienamente realizzato in Gesù ed il significato che esso ha per noi. Solo così
pensiamo ai fini della Storia e non –
allucinati ed impauriti – unicamente alla
fine della Storia.
In un tempo
come il nostro, nel quale è lecito, come fa Tillard, chiedersi se siamo gli ultimi cristiani – perché
violento è il processo di scristianizzazione
in atto, non esagera Jäger a parlare del coraggio di fare teologia. Se si dà come ‘pensare di Dio’ si
configura, radicandosi nel ‘nostro tempo’, in una lezione di speranza. Dio deve trovarsi, però, precisa Jäger, in situazione di difficoltà e non posto,
con artifici teorici, in collocazioni di senso tranquille. La realtà di Dio, conclude il nostro
autore, “è l’inquietudine dell’odierna teologia”. Essa, se vuole essere onesta,
non deve operare come se avesse Dio in tasca! Pensare e ripensare Dio
tra sfide ed opportunità: ecco l’esercizio
che assicura un futuro alla riflessione teologica. Von Balthasar aveva
ragione a dire che la teologia deve essere una occupazione perenne; infatti, come la manna del deserto è commestibile per un giorno, così non è trasmissibile
una riflessione teologica che non si rinnovi, pur nella fedeltà agli immutabili
principi cristiani. Si tratta di animare una creatività interna alla fedeltà alla Parola. Lingua, immagini,
concetti – continuava von Balthasar – sono il vaso che contiene la rivelazione cristiana; esso, però, può
impolverarsi e finanche sbriciolarsi. Garantire alla fede ed alla riflessione
sistematica su di essa “il più giovanile vigore”, impone che tutto venga
riferito a quanto è “ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”.
Il futuro della teologia è garantito
dal ‘giovanile vigore’ attingibile soltanto alla Rivelazione che attende di
realizzare, a partire dal già in cui
siamo, il non ancora promesso. Dire,
come faceva San Giovanni della Croce, che in Cristo Dio ci ha dato la
Sua Parola definitiva, impone un lavoro,
lungo i sentieri del tempo, individuato da Antonio Piolanti: mentre lo storico
lavora per assegnare a Gesù un posto
nella storia, il cristiano opera perché sia la storia ad avere un posto in
Cristo ottenendosi, così, la realizzazione
escatologica della stessa. Si deve promuovere la cristificazione del ‘cosmo’ e dell’‘uomo’. In futuro la teologia
lavori alacremente per convertire la Cristofobia (Weiler) in Cristophilìa: dalla paura di
Cristo, alla gioia amorevole in con e per Cristo. Si
rivoluziona il proprio tempo solo lavorando ad una configurazione, direi, escatologico/cristica della storia.
Scrive Moltmann: chi spera in Cristo “non
può più accettare la realtà come si presenta”. È la speranza a fare in modo, aggiunge, che la comunità cristiana rimanga centro
di costante movimento all’interno di società
che tendono, maleficamente, a “cristallizzarsi in una ‘città permanente’”.
Una teologia che abbia a cuore il futuro torna all’antica lezione di Giovanni
Crisostomo: il cristiano dovrà rendere conto del mondo intero! Chi è il teologo
che sa guardare positivamente al futuro? Provo a rispondere con Karl Rahner:
non aspirava, disse, che a diventare un
cristiano per il quale il cristianesimo è una cosa seria e capace di
innestarsi come forza vitale nel mondo contemporaneo, senza complessi; muovendo
da queste premesse, il cristiano, continuava Rahner, deve ammettere alcuni
problemi sui quali riflettere.
Concludeva: “Se questo lo si vuol chiamare teologia, allora va bene”.
Il
cristianesimo era una ‘cosa seria’ anche per Bonhoeffer: confessò che sapere
cosa fossero veramente nel Novecento
(ma vale oggi ed in futuro) ‘Cristo ed il Cristianesimo’ è “il problema che non
mi lascia tranquillo”. Siamo nell’epoca
del disincanto, della complessità
e se la sociologa Rosa Alberoni parla della cacciata
di Cristo, Massimo Introvigne riflette sul dramma dell’Europa senza Cristo. Difficoltà in aumento e minacce
sempre più gravi alla nostra fede, tuttavia, non devono scoraggiarci dal
cercare di offrire, come si legge nel Nuovo Testamento, le ‘ragioni della
nostra speranza’. Vista la crescente rilevanza che i conflitti religiosi
assumono nelle nostre società, tutti faremo i conti con – direbbe Nietzsche –
quel “terribile punto interrogativo che
si chiama cristianesimo”, ma in relazione a nuove o riesumate proposte
religiose/spiritualiste/magico/esoteriche. C’è chi lamenta che la teologia
dovrà agire, a causa degli attacchi subiti dalle altre forme di sapere, con
strumenti devitalizzati. E se fosse? Inviterei a seguire la strada tracciata
dal filosofo e teologo berlinese Helmut Gollwitzer: ascoltare “insieme a tanti
altri messaggi vecchi e nuovi” quanto ci comunica il cristianesimo perché nelle
vicende di Gesù non si fa riferimento a dei o ad un Dio “sopra o al di fuori
della nostra vita”, bensì viene svelata in Lui “senza abbellimenti la miseria e
la povertà della nostra condizione umana”. Qui non ci viene chiesto di “saltare
oltre la nostra situazione”, ma di trovare all’interno
di essa “un soffio di speranza”. Soltanto un po’ per volta, scrive
Gollwitzer, scopriamo il significato che ha per
noi Gesù. Il fatto è che, ammette il nostro autore, le grandi costruzioni dottrinali della tradizione valgono soltanto per
quegli uomini vissuti “in un mondo pieno di Dio”; noi, invece, possiamo pensare e dire Dio soltanto restando “fedeli (…) alla nostra povertà” e
“costruire la nostra comprensione
della fede cristiana soltanto a partire dai suoi elementi più semplici”. La
figura di Gesù indica che dobbiamo
amare il nostro prossimo e promette un
amore vero per noi. Per Gollwitzer, dunque, questa è “la nostra modesta
teologia e cristologia: solo una capanna in paragone alle grandi costruzioni
del passato, ma pur sempre una capanna in cui si può vivere”. Se i voluminosi
trattati di dogmatica del passato vantavano sicure descrizioni dell’universo
dal punto di vista di Dio, a noi restano “un piccolo paletto indicatore, un
sottile raggio di luce; è poco ma è già qualcosa che ci permette di proseguire
a tastoni la nostra vita non totalmente al buio”.
Abbiamo aperto
con Bernanos che parlava di teatrino
della cristianità. Un palcoscenico sul quale con un misero barattolo di
vernice chiunque può allestire – secondo personalissimi desiderata – una petite
Chrétienté réelle; sebbene, in realtà, si tratti di una cristianità virtuale, pure da questi scenari minimi può –
aggiungeva Bernanos - “ogni tanto” cadere “una candela” ed appiccare il fuoco.
Se la candela garantisse appena – per citare ancora Gollwitzer – un sottile raggio di luce, pure non vivremmo
completamente al buio. Incendiaria o quasi
spenta, la candela che deve restare
accesa finanche sul teatrino della
cristianità è la Speranza e tocca ad
una teologia rivolta nella maniera giusta al
futuro rintracciare nuove motivazioni per tenerla in vita. Dobbiamo farci
bastare anche poca luce per guardare avanti, direbbe Boccioni, fino allo scoppio delle pupille. Un
insegnamento viene da una storiella. Quattro candele tengono un amaro dialogo.
La prima, il cui nome è Pace, lamenta
il disinteresse ad essa mostrato dagli uomini e sa che non può che spegnersi.
La seconda, Fede, piange ed è
prossima a non brillare più a causa della sua inutilità. Spente le prime due
candele, la terza, Amore, afferma che
gli uomini, ormai, non comprendono più la sua importanza in quanto odiano
finanche le persone più care! Anch’essa si spegne e, nel frattempo, un bambino
entra nella stanza dove la semioscurità si è fatta minacciosa. Il piccolo ha paura
ed esclama: ‘Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio’.
Scoppiò in lacrime e, la quarta candela, inteneritasi, disse: ‘Non temere, non
piangere: finché sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre: io sono la Speranza ’.
Il bimbo si rincuorò, la prese e riaccese le altre candele.
La filosofa
Graziella Berto ricorda una lezione di Freud: solitudine, silenzio, oscurità
sono in stretta connessione con l’angoscia
infantile e la maggior parte degli
esseri umani non se ne libera del tutto. Nel terzo dei Tre saggi sulla teoria sessuale, sottolinea la Berto , Freud sfiora il tema
dell’angoscia infantile dovuta all’oscurità: non è il buio ad angosciare, ma il
fatto di non poter vedere in esso la persona amata patendone, così, la
‘mancanza’. Non indirizzandosi alla persona importante per noi, la libido si muta in angoscia. Come era arrivato Freud a questa tesi? Racconta di aver
sentito pronunciare queste parole ad un bambino di tre anni in una stanza buia:
‘Zia, parla con me; ho paura del buio’. La zia, rispose: ‘Ma a che serve? Così
non mi vedi lo stesso’. ‘Non fa nulla – ribatté il bambino, - se qualcuno parla
c’è luce’. La luce, l’altro, la voce…(non sono termini assiduamente frequentati in teologia?). Anche
il buio dell’assenza di senso in cui sempre
più precipita il mondo alimenta la nostra angoscia. La teologia, dall’uomo post
– moderno che si dibatte incerto nella stanza
buia del presente, come la zia alla quale il bimbo chiede di manifestarsi
in voce, è invitata a parlare di Dio senza
preoccuparsi di farsi vedere. Non si
pensi che una visibilità eccessiva porti frutto; molto, se non tutto, dipende
da cosa avremo da dire, in quanto cristiani, a chi cerca il senso della vita. A
che serve – dice la donna – parlare nel buio? Ma l’altro attende una parola, ma
che sia ricca di senso: se si parla
c’è luce! Si legge in un passo evangelico: Signore,
da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. La parola teologica non deve
temere di parlare nel buio perché, anche laddove la cristianità è ridotta a teatrino,
può accadere che la candela – Speranza cada dal palcoscenico e
provochi un incendio che bruci i rami secchi delle paure disseminate lungo i sentieri della storia, interrotti per quanto attiene alla
comunicazione col Trascendente, aprendo varchi al Dio che viene. Sugli heideggeriani sentieri interrotti, se, per dirla ancora con Heidegger, ormai solo un dio ci può salvare,
occorre riattivare i collegamenti con l’Oltre
cercando di trovare ragioni che mostrino che non un dio, ma il Dio manifestatosi
in Gesù di Nazareth, salva! La
Parola che dobbiamo testimoniare è vincente perché non solo è
Logos (udibile) ma è – chiarisce già al suo inizio il Vangelo di Giovanni
- anche sarx (visibile). Scrive Maggioni che, facendosi ‘carne’, “la parola di
Dio si è fatta visibile, Parola iconica”: si sente e si vede. Nell’esergo al
mio libricino, Sartre parla dell’irraggiungibilità degli ideali e ciò può
valere anche in riferimento a Dio. Il poco tempo concessoci in questa vita non ci
consentirà di vedere, coi nostri occhi, realizzate le promesse escatologiche…Poco importa! Quello che conta, per cucire
sul nostro tema la citazione sartriana, è navigare verso il futuro da buoni
marinai cristiani che, situati in alto
mare tra le onde agitate del proprio tempo, tracciano il cammino verso il futuro di Dio seguendo non le stelle, ma La Stella che brilla imperitura sulla Croce che è
il legno (in senso di nave) per eccellenza che ci conduce a Dio.
APPENDICE
Mi hanno chiesto: ha
senso parlare di teologia ad un uomo sempre più attento a conoscersi
ossequiando parametri scientifici, narcotizzato da seduzioni tecnologiche? In
un mondo sempre più popolato da vecchi credenti vanamente nostalgici e giovani
uomini indifferenti, si può sperare che religione e fede cristiana trovino
spazio? Ho risposto attingendo da saggio di uno psicologo e psicoterapeuta,
Pasquale Ionata: Nati per amare (Roma
2006).
In un mondo che tende
sempre più a rimuovere la paura di invecchiare, a deprezzare il patrimonio
culturale e religioso di quanti sono avanti negli anni, proprio l’anziano può insistere
nel mostrare il senso e la bellezza della comunica
zione col Verticale. Lars Tornstam, ricercatore svedese, ha coniato il
termine gerotrascendenza. In età
avanzata, dice, si passa da una visione materialistica e razionale ad una più
disponibile verso la dimensione cosmico/trascendentale. Ci si sente in
comunione cosmica con lo spirito dell’universo. L’anziano è meno attaccato alle
cose…
Scrive Ionata: “forse
non è un caso che il Vangelo di Luca si apra con due figure di anziani, Simeone
e Anna, che riconoscono e indicano Gesù come Messia”. Anche la vita nascente è
terreno fertile per le tematiche religiose. Ionata ci ricorda che “Erikson
ritiene che un’educazione dei bambini fondata sulla religione e sulla
tradizione rafforzi la fiducia originaria del bambino” e, tale fiducia in Dio,
“deve divenire la base di ogni discorso su di Lui”. Dalla nascita alla vecchiaia,
dunque, la religione non è incompatibile con una ben condotta vita umana.
Questo deve significare molto per una teologia volta al futuro.
Otto Rank sosteneva
che l’uomo è un essere teologico, non biologico! Pensava, perciò, che l’esigenza di un’autentica ideologia
religiosa è insita nell’umana natura.
Anche la scienza che si occupa dell’hardware
umano innerva di speranza la teologia futura.
Ionata richiama
l’attenzione sugli studi di Dean Hamer, biologo molecolare, che inquadra la religione come un prodotto dell’evoluzione. Si è individuato un gene, che Hamer chiama The God Gene (gene di Dio), preposto, diremmo, all’attività religiosa. Ramachandran
sostiene vi siano ‘circuiti cerebrali’ che garantiscono l’esperienza religiosa;
strutture che definisce modulo di Dio.
Il neuroscienziato canadese Michael Persinger, stimolando magneticamente i lobi
temporali di molti soggetti, ha rilevato che, nell’80% dei casi, si prova la sensazione di ‘non essere soli’, che si dia
la ‘presenza di un altro’! Il radiologo Andrei Newberg e lo psichiatra Eugene
d’Aquili, ricorrendo alla risonanza magnetica, hanno visto che meditazione e
preghiera attivano specifiche regioni cerebrali. L’istinto al divino è fondato neurobiologicamente?
Matthew Halper è
l’autore del libro The God part of the
brain (Dio parte del cervello).
Nel saggio spiega che la religiosità consegue
dal fatto che l’uomo – dotato di autocoscienza
– sa di essere mortale e, per superare l’angoscia che ne deriva, ha fatto in
modo che si selezionasse un meccanismo
cognitivo che convinca della superabilità della morte fisica. Anche laddove
c’è sconforto, manca consolazione, la scienza ritiene si possano rinvenire –
neurobiologicamente – tracce di Dio.
Il famoso esperto di psicotraumatologia,
Bessel van der Kolk, ha esaminato migliaia di persone scampate a “guerre,
abusi, terremoti, terrorismo” ed ha rilevato “un aspetto fondamentale della
psicologia del traumatizzato, e cioè quella che lui chiama ‘Godforsaken’ (…), la sensazione tremenda
di essere abbandonati da Dio”.
[1] Il
filosofo Michele Federico Sciacca, scrisse: “Il gusto del quotidiano, di quel che ogni giorno ci abbisogna (…), riconquistato
con la schiettezza, l’umiltà, la poesia con cui nella Preghiera è detto: ‘dacci
oggi il nostro pane quotidiano’. Diverso è il giornaliero, cioè quel che meccanicamente si ripete (…) per
abitudine (…) quasi imposto dalla necessità della consuetudine”. In realtà,
tutto diventa ‘giornaliero’ smettendo di essere ‘quotidiano’, “quando non lo
sentiamo più venirci incontro ogni mattina per soddisfare un nostro intimo
bisogno, ma ci pesa come una necessità e si ripete (…) senza partecipazione”.
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