Presentazione.

Presentare questo blog non è semplice per la varietà di argomenti che vi sono sviluppati. Nonostante, infatti, ci presentiamo come una riflessione filosofica, sono diverse discipline toccare.

Con questo lavoro desideriamo mettere a disposizione i nostri studi personali, le nostre “ricerche”. Abbiamo “cercato”, non ci siamo accontentati delle risposte precostituite perché : “Non si fanno esperienze senza porre domande” (Gadamer).

L’essere umano è da sempre che pone domande. La filosofia è da sempre che si occupa dell’uomo sia come soggetto,sia come oggetto occupandosi sia dell’essere umano, che di ciò che c’è universalmente dentro di lui. Non diamo quindi risposte,desideriamo invece “incuriosire” il lettore, affinchè ricerchi. Crediamo infatti: “Non si può insegnare nulla ad un uomo,ma si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro se stesso.” (Galileo)

mercoledì 17 novembre 2010

Teologia e Futuro


Gli ideali sono come le stelle: non li raggiungeremo mai. Ma come i marinai in alto mare possiamo tracciare il nostro cammino seguendole (Jean Paul Sartre)

Georges Bernanos sosteneva che, smarrita la cristianità, ce ne siamo costruita un’altra di ‘cartapesta’: un teatrino di cristianità. Con un ‘pannello’, un ‘barattolo di vernice’ chiunque può allestire un Petit Pays réel, une petite Chrétienté réelle. Il fatto, però, concludeva lo scrittore francese, è che “ogni tanto una candela cade dal palcoscenico e appicca il fuoco”. Una cristianità artefatta, dunque, ha pure qualche possibilità di influire sul mondo; non tutto è innocuo sugli scenari minimi della cristianità odierna. Nell’Almanacco di scienze [MircoMega (2/2007)], c’è chi nega che ciò sia vero. Richard Dawkins, nel suo contributo (‘Perché quasi certamente Dio non esiste’), parte dalla convinzione che l’esistenza di Dio non è dimostrabile. Se l’Ipotesi di Dio viene processata scientificamente, se ne deduce che è ‘non necessaria’ ed ‘altamente dispendiosa’; meglio spiegare l’universo e l’origine della vita affidandosi al ‘principio antropico’ ed alla ‘selezione naturale’. Nello stesso numero dell’Almanacco, il filosofo della mente Daniel Dennett, nel contributo intitolato ‘E liberaci da Dio’, ragiona su un libro recente di Dawkins: The God Delusion. Il titolo fa testo: Dio è stato ed è deludente! Nel saggio si vuol dimostrare che l’estinzione della religione garantirebbe al mondo un futuro migliore. Dennett, che non aspira a compiti di sacrestia, onestamente si chiede cosa ne potrebbe prendere il posto “o che cosa sorgerebbe spontaneamente – e per questo”, ammette, “sono ancora pronto ad esplorare l’ipotesi di riformare la religione”. Dawkins, invece, chiude ogni varco al dialogo ed annuncia programmi televisivi, pubblicizza un sito web ed in appendice al suo libro offre “un elenco parziale di indirizzi cui possono rivolgersi le persone che hanno bisogno di aiuto nella loro fuga dalla religione”. Questo attacco generale alla religione viene ristretto al cristianesimo a partire dalle ironiche considerazioni che Dawkins fa a proposito del peccato e della salvezza. Adamo, dice il dissacrante autore, non è mai esistito e Gesù avrebbe dovuto saperlo! Se quanto narrato nel Genesi è solamente ‘simbolico’, ne conclude Dawkins, “per essere efficace, Gesù si sarebbe lasciato torturare e mettere a morte, come vittima delegata a ricevere la punizione di un peccato simbolico commesso da un individuo non esistente? Come ho già detto: completamente fuori di testa, oltre che disgustosa”. Se la conoscenza teologica rimane a livello di sentito dire, di prima alfabetizzazione cristiana, ecco cosa rimane dell’avventura umana in compagnia di Dio narrata nella Bibbia! Che la teologia continui a lavorare per illuminare sempre più la fede rendendola quanto più consapevole e critica, se si vogliono evitare disastri alla Dawkins. Un conto è non credere nella storia teandrica giudeo – cristiana, un altro è irriderla senza averla attraversata dotandosi dei mezzi richiesti. Ci sono autori che scrivono contro il cristianesimo, ma ne conoscono superficialmente la mappa senza mai essere stati davvero sul territorio. La domanda, perciò, è questa: può la teologia in futuro accendere una candela che, cadendo dal ‘teatrino cristiano’, provochi un nuovo incendio rianimando la speranza cristiana che diviene sempre più oggetto di scherno nella coscienza gelata d’indifferenza dell’uomo post – moderno?

Non è che non ci sia più voglia di religione…anzi! Purtroppo, se ne ha un proliferare equivoco e sconsiderato. Il CESNUR, Centro Studi sulle Nuove Religioni, compilando nel 2003 l’Enciclopedia delle religioni in Italia, recensì oltre seicento realtà religiose/spirituali. A livello mondiale, invece, nel 1988 Beith – Hallahmi, descrisse 2.200 ‘Nuovi Movimenti Religiosi’. Mutano linguaggi, categorie di pensiero, attese ed una teologia che voglia pensare il futuro ed al futuro non può aggirare l’ostacolo. Sempre nel 2003 uscì un film di Alejandro Gonzalez Iňarritu, 21grammi. Il titolo va spiegato. Secondo esperimenti – ancora destanti perplessità – effettuati nel 1907, al momento della morte pare che il corpo perda circa 21 grammi: che sia l’anima che va al cielo? Ci si aggrappa a tutto pur di raccontarsi che siamo qualcosa di più che un groviglio di cellule…Ma spiritualismo non è spiritualità e meno che meno fede. Cox scrisse che “stiamo entrando in una nuova ‘età dello Spirito’” anche se il fatto di trovarsi in essa comporta il convivere “con tutte le promesse e i pericoli che i risvegli religiosi portano sempre con sé”. Il fenomeno dell’atipico ritorno della religione (ma io insisto nel dire che si tratta di una nuova ondata di spiritualità), avvertiva Cox, ormai si verifica “su scala mondiale”. In maniera straripante si parla, se non gradite che mi impantani nell’espressione ‘nuova spiritualità’, genericamente di religioni e non di fede cristiana. Cosa vuol dire ciò per la teologia futura? Si deve dialogare con tutto questo (a prescindere da come si intende chiamarlo) e farlo con – diremmo utilizzando una formula di René Char – attrezzi nuziali. La Commissione Teologica Internazionale, nel 1997,stilò un documento: Il cristianesimo e le religioni: “In primo luogo – si legge al n. 7 – il cristianesimo dovrà impegnarsi a comprendere e valutare se stesso nel contesto di una pluralità di religioni” ed a “riflettere in concreto sulla verità e universalità che (…) rivendica” per cercare, poi, “il senso, la funzione e il valore proprio delle religioni nella totalità della storia della salvezza”. Compito specifico della teologia sarà quello di “studiare ed esaminare le religioni concrete con i loro contenuti ben definiti che dovranno essere posti a confronto con i contenuti della fede cristiana”. Significa che se non abbiamo piena conoscenza dei contenuti della fede cristiana si vanifica lo sforzo di conoscere quelli di altre credenze religiose.

Nel 2004, André Glucksmann si è chiesto perché l’Europa debba essere l’unica a produrre una civiltà senza Dio. Hans Blumenberg ha parlato di delusione escatologica: l’uomo post – moderno, a suo dire, non attende più dal futuro il radicalmente nuovo, ma presagisce solo angosce ed inquietudini. Mai come ora è urgente che la teologia spieghi che la riflessione escatologica non è mai stata e mai sarà fuga mundi perché – ricordava de Lubac – la vita eterna è anche una speranza per il futuro ma, in primo luogo, “è un’esigenza per il presente”. Come insegnava Bonhoeffer, i cristiani che stanno sulla terra con un piede solo, staranno con un piede solo anche in paradiso! La posizione autenticamente cristiana deve essere equilibrata. Non è sano amore per la terra quello proclamato da Nietzsche che invitava a “non ficcare più la testa nella sabbia delle cose del cielo”, ma “a portarla liberamente”; aspirava a dotare l’uomo di “una testa terrena, che crea il senso della terra”. Da qui discendono disperate posizioni. Il filosofo rumeno Cioran, ad esempio, in una raccolta di pensieri significativa mente intitolata L’inconveniente di essere nati, affermava che la salvezza risiede nell’acquistare la certezza che salvezza non c’è! Se nel tempo non si ode più il battito dell’ eterno, i giorni divengono smorte candele che si spengono una alla volta…Il cristiano – la teologia deve indurci a pensare diversamente il tempo – fa propria la preghiera di Gilbert Cesbron: Signore, fate che oggi sia un giorno vero, non un giorno in più. La teologia non può ignorare la sfida della defuturizzazione: dell’incapacità, cioè, a credere che sia possibile un futuro. Fu questa incapacità a condurre al suicidio lo scrittore Cesare Pavese? Non ho la presunzione di rispondere, ma è legittimo chiedermelo quando penso che scrisse di non riuscire a sopportare l’idea di vivere un giorno in cui nulla accadrà e che è l’inutilità la cosa più amara. Cosa è successo? La delusione escatologica di cui parlava Blumenberg, a mio avviso, origina da un fenomeno evidenziato da Michael Novak. Da giovane desiderava essere sacerdote cattolico ma, poi, si dedicò allo studio della ‘dottrina sociale delle chiese’. Diventò il teologo cattolico del capitalismo democratico americano. Cucì sulla pelle del nostro secolo le questioni teologiche di sempre; ad esempio, ripensando la Trinità (cosa che Kant riteneva infruttuosa sul piano pratico), ne ricavò l’impegno a modellare la comunità su di essa. Chi l’avesse seguito in questo progetto, scrive, avrebbe condiviso la vita di Dio. L’Incarnazione gli insegnò che “occorre essere umili, pensare in modo concreto, affrontare i fatti, allenarsi al realismo”. La sua visione disincantata (che qui non fa rima con disperata) del mondo lo condusse a spiegare cosa abbia provocato la sfiducia escatologica nell’uomo post – moderno: “Ogni società tende ad erigere al proprio centro una ‘tenda sacra’ che offra un sicuro punto di riferimento alla comunità; ma nelle società secolarizzate non vi è più nessuna ‘tenda sacra’ ma soltanto ‘uno scrigno lasciato vuoto’”. Sta alla qualità della teologia che faremo decidere – se proprio le tende sacre vanno rimosse – almeno cosa o Chi dovrà entrare nello scrigno.

In Europa, pensare Dio è una sfida cruciale per la teologia (oggi e domani). Lo studioso dell’integrazione europea Weiler ci informa che gli psicologi, riferendosi ai soggetti che tentano di nascondersi qualcosa di importante della realtà, usano il termine denial, negazione; ebbene, l’Europa nega di avere un debito con Cristo ed il Cristianesimo. Nel Preambolo della nuova Costituzione Europea, lamenta lo studioso, “non c’è spazio per Dio”; eppure, anche quando a dire ‘sono un europeo’ è un laico (nell’accezione estrema del termine) deve riconoscere, “se non vuol fare lo struzzo, che nella cultura che definisce la sua propria ‘europeità’ c’è” comunque l’“importante sostrato culturale cristiano”. Weiler non è cristiano, ma ebreo praticante e, dunque, ritiene che la Costituzione europea dovrebbe dar spazio alla tradizione giudeo – cristiana. La patologia dell’Europa fin – de – siècle è, a suo dire, la Cristofobia che conduce alla rimozione di Dio e del Cristianesimo dai testi costituzionali dell’Unione Europea e non per “ragioni costituzionali di principio”, bensì a causa di “motivi di tipo sociologico, psicologico, emotivo”. Gli strali critici di Weiler, però, si appuntano anche sulla pelle di molti cristiani che “si nascondono” e “non tanto perché siano perseguitati da qualcuno”, ma perché provano ‘imbarazzo’ nel confessare la loro fede. Il nostro autore picchia duro: fatte poche eccezioni, è convinto del fatto che “l’importanza del Cristianesimo per il progetto di integrazione europea” non è percepita neppure dagli stessi cristiani.
La teologia, in futuro, dovrà fare i conti soprattutto con lo scolorimento dell’identità cristiana non più consapevolmente accolta e curata. Weiler precisa che nemmeno una Europa pancristiana è auspicabile. Nei suoi scritti c’è attenzione e rispetto anche per i musulmani! In una visione allargata della questione, il nostro autore rileva che le “sfide spirituali dell’Europa sono gravi” ma, tuttavia, cala una parola di speranza che, ad iniziare da noi cristiani, merita di venir colta ed amplificata.Weiler invita allo sforzo di comprendere “come attraversare il ponte lungo della modernità e della post – modernità senza compromettere la dignità umana e l’amore. L’importante è non aver paura”. Il coraggio di questa traversata deve alimentarsi all’insegnamento di Mounier: la santità è la sola politica valida.

Nel 1971, Jean Marie Aubert pubblicava uno studio: Pour une théologie de l’âge industriel. Siamo, ormai, nella società post – industriale nella quale a costituire ricchezza sono informazione e conoscenza con le relative tecnologie (per lo più elettroniche) che le veicolano, ma alcune tesi di Aubert conservano intatto valore. Il cristiano, sottolineava, deve inserirsi in un mondo “in crescita continua” per “apportarvi il fermento evangelico”. La teologia deve far dialogare l’immutabile logos evangelico con la fluidità inarrestabile del mondo. A voler sintetizzare la posizione di Aubert, possiamo ricorrere alle sue stesse parole: “Illuminato dalla fede, il cristiano deve mirare a giocare” il “ruolo di attivatore” dei germi di sviluppo disseminati nella realtà (o nelle realtà) stimolando, contemporaneamente, valori nuovi; non va dimenticato, però, che il cristiano è anche il “lucido contestatore degli aspetti negativi” insiti nelle opportunità del tempo in cui vive. Non si irrigidisce, cioè, in un solo atteggiamento: attiva quanto v’è di positivo intorno a lui, stimola la nascita di nuovi valori e si pone anche come lucido contestatore di quanto non gioca in favore dell’uomo e della sua dignità. La teologia deve ribadire – per dirla con Merleau – Ponty – che l’autentico cristiano è sempre un elemento di disturbo per ogni potere costituito e finanche per ogni rivoluzionario perché l’escatologia guarda molto più lontano dell’utopia. Jürgen Moltmann parte dal presupposto che l’unico vero problema della teologia cristiana sia quello del futuro; mentre, però, gli spiriti dell’utopia sono creature nostre, gli spiriti dell’escatologia fondano su Cristo. Le parole della speranza cristiana – scrive il teologo tedesco – “non sono il risultato di esperienze bensì la condizione perché nuove esperienze siano possibili”. Nell’Apocalisse Dio dice che ‘fa nuove tutte le cose’. Moltmann sostiene che se la vita cristiana deve riconoscere priorità alla fede, deve però concedere il primato alla speranza: “Per mezzo della fede l’uomo trova il sentiero della vera vita, ma soltanto la speranza ve lo mantiene”.

La teologia deve avvertire sempre più la necessità di distinguere utopia da escatologia ed una utopia negativa da una positiva. Paolo VI, nella lettera Octogesima adveniens, definiva negativa l’utopia assunta come alibi per disertare la storia e positiva quella che si configura come immaginazione prospettica e che lascia percepire le possibilità inscritte nel presente al fine di indirizzarci “verso un futuro nuovo, attraverso la fiducia” riposta nelle “forze inventive dello spirito e del cuore” (n. 37). Si tratta di far agire lo Spirito del Signore “che anima l’uomo rinnovato nel Cristo” e che “scompiglia senza posa gli orizzonti” nei quali la nostra intelligenza vuole pigramente pacificarsi e “sposta i limiti dove si rinserrerebbe volentieri” la nostra azione. Lo Spirito anima il cristiano per spingerlo nel futuro nuovo! Nocke sostiene che la questione del futuro si pone con urgenza finendo col costituire la questione del senso della vita in questo mondo e proponendosi alla fede cristiana in forma di domanda: “in che misura la speranza cristiana promette speranza per la storia dell’umanità?”. Il quesito di Nocke sfida, senza lasciar scappatoie, la teologia futura. I cristiani dovranno avere sempre presente che, come dice Johannes B. Metz, sono gli operai che edificano l’avvenire e non i semplici interpreti di esso. Si tratta, per Pareyson, di “fondare una nuova cultura cristiana” inaugurando ‘nuove modalità’ per ritrovare il cristianesimo. Se si trattasse, precisa il filosofo, soltanto di “riesumare un antichissimo frammento di tempo” sarebbe una impresa inutile; riproporre il contenuto della nostra fede non può mai risolversi in un’ operazione di archeologia concettuale o dogmatica. Gioca a favore del cristiano, secondo Pareyson, il fatto che “la nuova cultura dipende anche da lui”. Qualcuno ammette, come fa Bellet, che – in un certo senso – il vangelo è vecchio! Può esso, nel luogo inaugurale della cultura odierna, aprire un nuovo spazio di vita? Bellet risponde affermativamente perché convinto del fatto che “il tempo delle cose che più contano non è comandato dalla cronologia” e riproporre la ‘lezione evangelica’ si dà come feconda “ripetizione dell’inaudito”. A tutto questo, però, va anteposto un suggerimento di Schillebeeckx: non si deve pensare la Trascendenza di Dio proiettandola nell’eternità intesa come un passato reso eterno; piuttosto, Dio è Colui che verrà. L’ ermeneutica biblica deve avere sempre un occhio proteso al futuro; non bisogna, conclude Schillebeeckx, “guardare indietro alla Bibbia, ma guardare avanti con la Bibbia”.

Il teologo Alfaro sostiene che se la Chiesa vuole essere “segno efficace di speranza” per questo mondo non può non proporsi come “comunità in esodo verso il futuro di Dio”. D’altro canto, afferma Pareyson, “l’esperienza fondamentale dell’uomo è un’esperienza di trascendenza”.
Il che, ribadisco, non equivale a disinteresse per la realtà, a disprezzo del contingente. Come precisa Schillebeeckx, piuttosto, la ‘verifica della fede cristiana’ trova il proprio principio nel fatto che i cristiani “mostrano nella loro vita pratica di possedere una speranza capace di trasformare il mondo già sin da ora”. La vita presente, per Agostino, è una speranza! Questo deve far emergere costantemente la teologia cattolica nel confrontarsi con le provocazioni religiose e laiche che informeranno il futuro. I teologi illuminino sapientemente le ‘peculiarità’ della speranza cristiana, poiché le tematiche religiose (o spiritualiste) contemporanee tendono sempre più – come scrive Carmelo Dotolo – a “preferire l’esperienza anonima del sacro come via verso l’Assoluto”. Timothy Radcliffe, ex Maestro Generale dei Domenicani, affermava che, a caratterizzare il nostro tempo è, da un lato, lo scetticismo di chi non riconosce l’importanza delle parole teologiche e, dall’altro, l’intolleranza di chi crede che a dire tutto sono le parole secolari. La modernità ha secolarizzato la salvezza ritenendo la compito esclusivamente intramondano. Si è, per dirla con Rosenzweig, compreso il divino come autoproiezione dell’umano nel cielo del mito. Per il nostro autore, se la Rivelazione si è un giorno incrostata in una realtà storica, questa ne è talmente colorata che ormai non la si può più riscrivere come quelle realtà che non hanno mai conosciuto il peso dell’idea di Rivelazione carica di senso. Lo storico del cattolicesimo moderno, Ēmile Poulat, afferma che l’uomo contemporaneo, se conserva la possibilità di restare religioso, di esserlo nuovamente, fa i conti con l’essere collocato in quadri sociali e mentali di cultura, di attività, di valutazione che non sono più religiosi; dunque, conclude, a finire non è il cristianesimo, bensì un certo spirito cristiano; finisce una storia, non la storia. De Lubac poneva la questione in questi termini: “Di ogni situazione storica si può intravedere una conclusione; ma chi ci mostrerà la Conclusione?”. Se la teologia riaprirà a ‘tempo pieno’ l’ ufficio escatologico, nessuno pretenderà di mostrare la Conclusione che non è il futuro sognato dall’uomo, ma il Futuro disegnato da Dio.

Non ci può bastare l’atteggiamento di chi, come Henri Desrosche usava fare con i suoi allievi, invita a definire ‘religione’ soltanto ciò che la società ritiene essere tale. Il cristianesimo, infatti, deve dialogare con il ‘nostro tempo’, non conformarsi ad esso. Paul M. van Buren, chiedeva: chi ci libererà dai limiti, dalle ingiustizie e finanche dalla morte? Si deve, continuava, solidarizzare con quanti, aderendo ai vari movimenti di liberazione, gridano “la loro rabbia e frustrazione” per i mali del mondo; tuttavia, a liberare, può essere soltanto ciò che è “impossibile ed incoerente, empiricamente insignificante ed irrilevante”. Van Buren fa riferimento al Dio che è grazia e conclude: “È questo che noi tutti dobbiamo ricordare, se ci deve essere una teologia oggi”. La teologia deve costantemente e coraggiosamente ricordare all’uomo che la salvezza è dono gratuito di Dio. Parole inattuali? Non importa. La costante dell’uomo religioso, per van Der Leeuw, è di andare oltre le minuzie della vita perché ad essa “cerca di trovare un senso” e la “organizza (…) in vista di un insieme significativo”. L’uomo che agisce in questo modo è certo che “qualche cosa” – che lo studioso chiama l’estraneo, il totalmente Altro – “viene verso di lui sulla strada”. Se in futuro vorremo abitare umanamente il mondo, occorrerà una analisi assai critica dei progetti orizzontali perché sappiamo di essere cercati dal Trascendente. Si tratti di una guida sicura o si esperisca una forza frenante, per van der Leeuw nell’esperienza religiosa vissuta una potenza estranea, del tutto diversa, si inserisce nella vita” e fa passare dallo stupore alla fede. Non si sta dicendo che ragione, razionalità non meritino diritto di cittadinanza nelle questioni spirituali, religiose, teologiche; anzi, da sempre la fede cristiana ne tiene conto. Gregorio di Nissa sosteneva che se un uomo non ha rispetto per la ragione, non merita di chiamarsi cristiano. Giustino ricordava che la Ragione divenne uomo e si chiamò Gesù Cristo. Proprio perché la teologia deve incoraggiare una fede pensata e pensante, deve dialogare con chi la contesta. Dovere del teologo è animare una dialettica animata, non animosa (mi si perdoni il gioco di parole). Merleau – Ponty invitava a dialogare con le filosofie che negano Dio perché, spiegava, il nostro rapporto con il vero passa attraverso gli altri; se non vi andiamo con chi si contrappone al nostro credo, non è al vero che andiamo. La filosofia, però, non deve disconoscere gli indubbi meriti del cristianesimo. Lo studioso di filosofia medievale, il cattolico Gilson, infatti, disse che l’intervento della Rivelazione tra noi e i greci è un fatto ed ha modificato profondamente le condizioni nella quali la ragione deve operare. Nietzsche sosteneva che nessuna filosofia cristiana sarebbe stata possibile senza ‘platonismo’ ed ‘aristotelismo’, ma è anche vero che quei due nutrimenti non avrebbero sviluppato tutte le loro potenzialità restando orfani delle provocazioni cristiane.

Per Mounier, a minacciare il cristianesimo non è più l’eresia, come avveniva quando ancora i dibattiti teologici appassionavano; pericoli, ormai, vengono, piuttosto, da una silenziosa apostasia, un silente rifiuto, indifferente, della fede! Finisce, per Mounier, non il cristianesimo, ma la cristianità occidentale ed attendiamo altre forme di cristianesimo da nuovi strati sociali e da innesti extraeuropei Per il filosofo, il cristianesimo non è più solo, ma circondato da morali, eroismo e santità nuove; d’altro canto, non è riuscito a legarsi intimamente al mondo moderno come col mondo medioevale. Dobbiamo piangere sullo status quo? No! Essere cristiani è aver memoria del futuro: ricordare che ci è stata fatta una promessa di natura escatologica. Ecco cosa ci fa sottoscrivere senza esitazione questa frase di Mounier: “se si aderisce troppo alla storia quale è, si finisce per non costruire più la storia quale deve essere”. Sappiamo qual è e quale è stata la storia del cristianesimo? Bene, ombre e luci a parte, cerchiamo di comprendere cosa dovrà essere! Un fecondo elemento di discussione è sorto in Tanzania, nel 1976, al primo Congresso dei teologi e teologhe del Terzo Mondo: si chiedeva di interpretare la Parola di Dio in relazione alla nostra propria realtà. Nei paesi poveri, dunque, la Parola non è ossificata in dogma ma, pur conservando la propria identità cattolica, dice altro!
Riconosciuti i meriti di queste Chiese ricche di nuova linfa per la cristianità occidentale, va detto che già il Vaticano II aveva aperto simili prospettive. La Gaudium et Spes, del 7 dicembre 1965, infatti, apre con l’invito ai cristiani a condividere “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini di oggi”. Dobbiamo unire le istanze provenienti dalle comunità cristiane del Terzo Mondo e gli insegnamenti conciliari se la teologia in futuro vuol dire qualcosa meritevole di ascolto. Dal Brasile giunge alla teologia occidentale l’invito a ripensare Dio in termini di freschezza, quotidianità (che non è il giornaliero o il banale) [1] . Maria de Soledade da Silva, riconosce di aver appreso dalla Teologia della liberazione a vedere piccoli segni del Regno, cose belle nascoste nell’immondizia della società. È rimasta fortemente impressionata da un suo amico analfabeta: ‘Come non vivo senza l’aria che respiro, le disse, così non vivo senza Dio nella mia vita’. Se la teologia saprà suscitare nell’uomo simili posizioni, avrà fatto un passo avanti. Insegnare agli uomini post – moderni a vedere i piccoli segni del Regno ovunque è il compito della futura teologia. La nostra piena umanizzazione va costruita attingendo all’antropologia cristiana mirabilmente sintetizzata in una frase del poeta Paul Claudel: Dovremmo somigliare sempre più al Figlio Gesù tanto che il Padre non saprebbe più come distinguerci. La teologia deve mostrare sempre più le ragioni che le fanno dire – come faceva Paolo VI, che il cristianesimo non è facile, ma felice.

Siamo nel già e non ancora: il Regno di Dio è tra noi, ma non ancora pienamente realizzato. Gregorio di Nissa sosteneva che quanto qui attendiamo lo sperimenteremo personalmente e “mostrerà la nullità di qualsiasi discorso” attuale teso nello sforzo di rappresentarci “il nostro futuro”. Marcel, infatti, non esita a ricordarci che, oltre al problema che comprendiamo c’è il mistero che ci comprende e questo può svelarsi solo per la sovrana, libera volontà divina. Mauriac, dal canto suo, tentava di rappresentarsi il ‘paradiso cristiano’, ma doveva ammettere che il “possesso fuori dallo spazio e dal tempo di quell’amore in cui ho più fiducia che nella mia stessa vita, è letteralmente inimmaginabile, sfugge alla capacità della vita umana, a ogni approssimazione”. Ci è concessa appena una inesausta tensione escatologicamente orientata che l’esercizio della teologia può e deve pensare. Una tensione che interessa l’intero creato. Paolo, nella Lettera ai Romani, scrive:
“la creazione attende (apokaradokía) con gran desiderio la manifestazione dei figli di Dio” (8, 19). Lutero, nel 1516, a proposito della expectatio creaturae, scrisse che, mentre i filosofi si concentrano sul ‘presente delle cose’ riflettendo su qualità e caratteri, Paolo orienta lo sguardo teologico “a quello che esse saranno in futuro. Infatti egli (…) parla (…) usando un termine teologico nuovo e singolare” dell’attesa del creato. Il teologo deve allenare lo sguardo a cogliere l’intrinseca tensione escatologica. La Speranza dell’attesa cosmica è ammissibile, per Moltmann, in quanto, quella cristiana, è speranza rammemorata; riferita, cioè, “alla memoria della passione di Cristo” la Cui Risurrezione fa comprendere che “nella sua fine sulla croce va trovato il nuovo inizio”. Cristo, vincendo la morte, mostra che “l’ordine di questo mondo mortale è stato stravolto”. Non va dimenticato – sottolinea il teologo tedesco – che nella Risurrezione si rivela “non l’eternità del cielo, ma il futuro di quella stessa terra in cui si innalza la sua croce”. Pensare il futuro secondo le linee guida dell’escatologia non consente di pensare la fine – imminente o lontana – del tempo e del cosmo, bensì rende sempre più evidente il progetto di Dio pienamente realizzato in Gesù ed il significato che esso ha per noi. Solo così pensiamo ai fini della Storia e non – allucinati ed impauriti – unicamente alla fine della Storia.

In un tempo come il nostro, nel quale è lecito, come fa Tillard, chiedersi se siamo gli ultimi cristiani – perché violento è il processo di scristianizzazione in atto, non esagera Jäger a parlare del coraggio di fare teologia. Se si dà come ‘pensare di Dio’ si configura, radicandosi nel ‘nostro tempo’, in una lezione di speranza. Dio deve trovarsi, però, precisa Jäger, in situazione di difficoltà e non posto, con artifici teorici, in collocazioni di senso tranquille. La realtà di Dio, conclude il nostro autore, “è l’inquietudine dell’odierna teologia”. Essa, se vuole essere onesta, non deve operare come se avesse Dio in tasca! Pensare e ripensare Dio tra sfide ed opportunità: ecco l’esercizio che assicura un futuro alla riflessione teologica. Von Balthasar aveva ragione a dire che la teologia deve essere una occupazione perenne; infatti, come la manna del deserto è commestibile per un giorno, così non è trasmissibile una riflessione teologica che non si rinnovi, pur nella fedeltà agli immutabili principi cristiani. Si tratta di animare una creatività interna alla fedeltà alla Parola. Lingua, immagini, concetti – continuava von Balthasar – sono il vaso che contiene la rivelazione cristiana; esso, però, può impolverarsi e finanche sbriciolarsi. Garantire alla fede ed alla riflessione sistematica su di essa “il più giovanile vigore”, impone che tutto venga riferito a quanto è “ancora più antico, e sempre attuale, la Rivelazione di Dio”. Il futuro della teologia è garantito dal ‘giovanile vigore’ attingibile soltanto alla Rivelazione che attende di realizzare, a partire dal già in cui siamo, il non ancora promesso. Dire, come faceva San Giovanni della Croce, che in Cristo Dio ci ha dato la Sua Parola definitiva, impone un lavoro, lungo i sentieri del tempo, individuato da Antonio Piolanti: mentre lo storico lavora per assegnare a Gesù un posto nella storia, il cristiano opera perché sia la storia ad avere un posto in Cristo ottenendosi, così, la realizzazione escatologica della stessa. Si deve promuovere la cristificazione del ‘cosmo’ e dell’‘uomo’. In futuro la teologia lavori alacremente per convertire la Cristofobia (Weiler) in Cristophilìa: dalla paura di Cristo, alla gioia amorevole in con e per Cristo. Si rivoluziona il proprio tempo solo lavorando ad una configurazione, direi, escatologico/cristica della storia. Scrive Moltmann: chi spera in Cristo “non può più accettare la realtà come si presenta”. È la speranza a fare in modo, aggiunge, che la comunità cristiana rimanga centro di costante movimento all’interno di società che tendono, maleficamente, a “cristallizzarsi in una ‘città permanente’”. Una teologia che abbia a cuore il futuro torna all’antica lezione di Giovanni Crisostomo: il cristiano dovrà rendere conto del mondo intero! Chi è il teologo che sa guardare positivamente al futuro? Provo a rispondere con Karl Rahner: non aspirava, disse, che a diventare un cristiano per il quale il cristianesimo è una cosa seria e capace di innestarsi come forza vitale nel mondo contemporaneo, senza complessi; muovendo da queste premesse, il cristiano, continuava Rahner, deve ammettere alcuni problemi sui quali riflettere. Concludeva: “Se questo lo si vuol chiamare teologia, allora va bene”.
Il cristianesimo era una ‘cosa seria’ anche per Bonhoeffer: confessò che sapere cosa fossero veramente nel Novecento (ma vale oggi ed in futuro) ‘Cristo ed il Cristianesimo’ è “il problema che non mi lascia tranquillo”. Siamo nell’epoca del disincanto, della complessità e se la sociologa Rosa Alberoni parla della cacciata di Cristo, Massimo Introvigne riflette sul dramma dell’Europa senza Cristo. Difficoltà in aumento e minacce sempre più gravi alla nostra fede, tuttavia, non devono scoraggiarci dal cercare di offrire, come si legge nel Nuovo Testamento, le ‘ragioni della nostra speranza’. Vista la crescente rilevanza che i conflitti religiosi assumono nelle nostre società, tutti faremo i conti con – direbbe Nietzsche – quel “terribile punto interrogativo che si chiama cristianesimo”, ma in relazione a nuove o riesumate proposte religiose/spiritualiste/magico/esoteriche. C’è chi lamenta che la teologia dovrà agire, a causa degli attacchi subiti dalle altre forme di sapere, con strumenti devitalizzati. E se fosse? Inviterei a seguire la strada tracciata dal filosofo e teologo berlinese Helmut Gollwitzer: ascoltare “insieme a tanti altri messaggi vecchi e nuovi” quanto ci comunica il cristianesimo perché nelle vicende di Gesù non si fa riferimento a dei o ad un Dio “sopra o al di fuori della nostra vita”, bensì viene svelata in Lui “senza abbellimenti la miseria e la povertà della nostra condizione umana”. Qui non ci viene chiesto di “saltare oltre la nostra situazione”, ma di trovare all’interno di essa “un soffio di speranza”. Soltanto un po’ per volta, scrive Gollwitzer, scopriamo il significato che ha per noi Gesù. Il fatto è che, ammette il nostro autore, le grandi costruzioni dottrinali della tradizione valgono soltanto per quegli uomini vissuti “in un mondo pieno di Dio”; noi, invece, possiamo pensare e dire Dio soltanto restando “fedeli (…) alla nostra povertà” e “costruire la nostra comprensione della fede cristiana soltanto a partire dai suoi elementi più semplici”. La figura di Gesù indica che dobbiamo amare il nostro prossimo e promette un amore vero per noi. Per Gollwitzer, dunque, questa è “la nostra modesta teologia e cristologia: solo una capanna in paragone alle grandi costruzioni del passato, ma pur sempre una capanna in cui si può vivere”. Se i voluminosi trattati di dogmatica del passato vantavano sicure descrizioni dell’universo dal punto di vista di Dio, a noi restano “un piccolo paletto indicatore, un sottile raggio di luce; è poco ma è già qualcosa che ci permette di proseguire a tastoni la nostra vita non totalmente al buio”.

Abbiamo aperto con Bernanos che parlava di teatrino della cristianità. Un palcoscenico sul quale con un misero barattolo di vernice chiunque può allestire – secondo personalissimi desiderata – una petite Chrétienté réelle; sebbene, in realtà, si tratti di una cristianità virtuale, pure da questi scenari minimi può – aggiungeva Bernanos - “ogni tanto” cadere “una candela” ed appiccare il fuoco. Se la candela garantisse appena – per citare ancora Gollwitzer – un sottile raggio di luce, pure non vivremmo completamente al buio. Incendiaria o quasi spenta, la candela che deve restare accesa finanche sul teatrino della cristianità è la Speranza e tocca ad una teologia rivolta nella maniera giusta al futuro rintracciare nuove motivazioni per tenerla in vita. Dobbiamo farci bastare anche poca luce per guardare avanti, direbbe Boccioni, fino allo scoppio delle pupille. Un insegnamento viene da una storiella. Quattro candele tengono un amaro dialogo. La prima, il cui nome è Pace, lamenta il disinteresse ad essa mostrato dagli uomini e sa che non può che spegnersi. La seconda, Fede, piange ed è prossima a non brillare più a causa della sua inutilità. Spente le prime due candele, la terza, Amore, afferma che gli uomini, ormai, non comprendono più la sua importanza in quanto odiano finanche le persone più care! Anch’essa si spegne e, nel frattempo, un bambino entra nella stanza dove la semioscurità si è fatta minacciosa. Il piccolo ha paura ed esclama: ‘Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese, io ho paura del buio’. Scoppiò in lacrime e, la quarta candela, inteneritasi, disse: ‘Non temere, non piangere: finché sarò accesa, potremo sempre riaccendere le altre: io sono la Speranza’. Il bimbo si rincuorò, la prese e riaccese le altre candele.

La filosofa Graziella Berto ricorda una lezione di Freud: solitudine, silenzio, oscurità sono in stretta connessione con l’angoscia infantile e la maggior parte degli esseri umani non se ne libera del tutto. Nel terzo dei Tre saggi sulla teoria sessuale, sottolinea la Berto, Freud sfiora il tema dell’angoscia infantile dovuta all’oscurità: non è il buio ad angosciare, ma il fatto di non poter vedere in esso la persona amata patendone, così, la ‘mancanza’. Non indirizzandosi alla persona importante per noi, la libido si muta in angoscia. Come era arrivato Freud a questa tesi? Racconta di aver sentito pronunciare queste parole ad un bambino di tre anni in una stanza buia: ‘Zia, parla con me; ho paura del buio’. La zia, rispose: ‘Ma a che serve? Così non mi vedi lo stesso’. ‘Non fa nulla – ribatté il bambino, - se qualcuno parla c’è luce’. La luce, l’altro, la voce…(non sono termini assiduamente frequentati in teologia?). Anche il buio dell’assenza di senso in cui sempre più precipita il mondo alimenta la nostra angoscia. La teologia, dall’uomo post – moderno che si dibatte incerto nella stanza buia del presente, come la zia alla quale il bimbo chiede di manifestarsi in voce, è invitata a parlare di Dio senza preoccuparsi di farsi vedere. Non si pensi che una visibilità eccessiva porti frutto; molto, se non tutto, dipende da cosa avremo da dire, in quanto cristiani, a chi cerca il senso della vita. A che serve – dice la donna – parlare nel buio? Ma l’altro attende una parola, ma che sia ricca di senso: se si parla c’è luce! Si legge in un passo evangelico: Signore, da chi andremo? Tu solo hai parole di vita eterna. La parola teologica non deve temere di parlare nel buio perché, anche laddove la cristianità è ridotta a teatrino, può accadere che la candela Speranza cada dal palcoscenico e provochi un incendio che bruci i rami secchi delle paure disseminate lungo i sentieri della storia, interrotti per quanto attiene alla comunicazione col Trascendente, aprendo varchi al Dio che viene. Sugli heideggeriani sentieri interrotti, se, per dirla ancora con Heidegger, ormai solo un dio ci può salvare, occorre riattivare i collegamenti con l’Oltre cercando di trovare ragioni che mostrino che non un dio, ma il Dio manifestatosi in Gesù di Nazareth, salva! La Parola che dobbiamo testimoniare è vincente perché non solo è Logos (udibile) ma è – chiarisce già al suo inizio il Vangelo di Giovanni - anche sarx (visibile). Scrive Maggioni che, facendosi ‘carne’, “la parola di Dio si è fatta visibile, Parola iconica”: si sente e si vede. Nell’esergo al mio libricino, Sartre parla dell’irraggiungibilità degli ideali e ciò può valere anche in riferimento a Dio. Il poco tempo concessoci in questa vita non ci consentirà di vedere, coi nostri occhi, realizzate le promesse escatologiche…Poco importa! Quello che conta, per cucire sul nostro tema la citazione sartriana, è navigare verso il futuro da buoni marinai cristiani che, situati in alto mare tra le onde agitate del proprio tempo, tracciano il cammino verso il futuro di Dio seguendo non le stelle, ma La Stella che brilla imperitura sulla Croce che è il legno (in senso di nave) per eccellenza che ci conduce a Dio.





APPENDICE

Mi hanno chiesto: ha senso parlare di teologia ad un uomo sempre più attento a conoscersi ossequiando parametri scientifici, narcotizzato da seduzioni tecnologiche? In un mondo sempre più popolato da vecchi credenti vanamente nostalgici e giovani uomini indifferenti, si può sperare che religione e fede cristiana trovino spazio? Ho risposto attingendo da saggio di uno psicologo e psicoterapeuta, Pasquale Ionata: Nati per amare (Roma 2006).

In un mondo che tende sempre più a rimuovere la paura di invecchiare, a deprezzare il patrimonio culturale e religioso di quanti sono avanti negli anni, proprio l’anziano può insistere nel mostrare il senso e la bellezza della comunica zione col Verticale. Lars Tornstam, ricercatore svedese, ha coniato il termine gerotrascendenza. In età avanzata, dice, si passa da una visione materialistica e razionale ad una più disponibile verso la dimensione cosmico/trascendentale. Ci si sente in comunione cosmica con lo spirito dell’universo. L’anziano è meno attaccato alle cose…

Scrive Ionata: “forse non è un caso che il Vangelo di Luca si apra con due figure di anziani, Simeone e Anna, che riconoscono e indicano Gesù come Messia”. Anche la vita nascente è terreno fertile per le tematiche religiose. Ionata ci ricorda che “Erikson ritiene che un’educazione dei bambini fondata sulla religione e sulla tradizione rafforzi la fiducia originaria del bambino” e, tale fiducia in Dio, “deve divenire la base di ogni discorso su di Lui”. Dalla nascita alla vecchiaia, dunque, la religione non è incompatibile con una ben condotta vita umana. Questo deve significare molto per una teologia volta al futuro.

Otto Rank sosteneva che l’uomo è un essere teologico, non biologico! Pensava, perciò, che l’esigenza di un’autentica ideologia religiosa è insita nell’umana natura. Anche la scienza che si occupa dell’hardware umano innerva di speranza la teologia futura.

Ionata richiama l’attenzione sugli studi di Dean Hamer, biologo molecolare, che inquadra la religione come un prodotto dell’evoluzione. Si è individuato un gene, che Hamer chiama The God Gene (gene di Dio), preposto, diremmo, all’attività religiosa. Ramachandran sostiene vi siano ‘circuiti cerebrali’ che garantiscono l’esperienza religiosa; strutture che definisce modulo di Dio. Il neuroscienziato canadese Michael Persinger, stimolando magneticamente i lobi temporali di molti soggetti, ha rilevato che, nell’80% dei casi, si prova la sensazione di ‘non essere soli’, che si dia la ‘presenza di un altro’! Il radiologo Andrei Newberg e lo psichiatra Eugene d’Aquili, ricorrendo alla risonanza magnetica, hanno visto che meditazione e preghiera attivano specifiche regioni cerebrali. L’istinto al divino è fondato neurobiologicamente?

Matthew Halper è l’autore del libro The God part of the brain (Dio parte del cervello). Nel saggio spiega che la religiosità consegue dal fatto che l’uomo – dotato di autocoscienza – sa di essere mortale e, per superare l’angoscia che ne deriva, ha fatto in modo che si selezionasse un meccanismo cognitivo che convinca della superabilità della morte fisica. Anche laddove c’è sconforto, manca consolazione, la scienza ritiene si possano rinvenire – neurobiologicamente – tracce di Dio.

Il famoso esperto di psicotraumatologia, Bessel van der Kolk, ha esaminato migliaia di persone scampate a “guerre, abusi, terremoti, terrorismo” ed ha rilevato “un aspetto fondamentale della psicologia del traumatizzato, e cioè quella che lui chiama ‘Godforsaken’ (…), la sensazione tremenda di essere abbandonati da Dio”.

Questi non sono dati che, di per sé, possano giustificare l’interesse futuro per la nostra ‘dimensione religiosa’ e meno che mai valere per accendere o accrescere l’interesse per la fede cristiana. Deve far comunque pensare il fatto che l’interesse per la religione non ha detto l’ultima parola nemmeno in ambito scientifico e, con tutto questo, la teologia non può non confrontarsi. Ci basti, per ora, quello che dice Ionata: “la religione, e in particolare la cristiana, offre un’interpretazione della vita e una sua regola imperniata interamente sull’amore”. E se l’amore – ed è certo il caso di quello cristiano – spinge a dire all’altro tu non morrai (Marcel), la speranza cristiana – che pone tutto entro la categoria della pienezza di vita (cioè, della sua destinazione escatologica), contiene quanto vale la pena pensare ora ed in futuro.


[1] Il filosofo Michele Federico Sciacca, scrisse: “Il gusto del quotidiano, di quel che ogni giorno ci abbisogna (…), riconquistato con la schiettezza, l’umiltà, la poesia con cui nella Preghiera è detto: ‘dacci oggi il nostro pane quotidiano’. Diverso è il giornaliero, cioè quel che meccanicamente si ripete (…) per abitudine (…) quasi imposto dalla necessità della consuetudine”. In realtà, tutto diventa ‘giornaliero’ smettendo di essere ‘quotidiano’, “quando non lo sentiamo più venirci incontro ogni mattina per soddisfare un nostro intimo bisogno, ma ci pesa come una necessità e si ripete (…) senza partecipazione”.  

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